La celebre pietra runica di Kensington

Colombo non ha scoperto l’America

Era l'estate del 985 d.C., e i Vichinghi avevano toccato le sponde dell'America. Dei loro viaggi fa testimonianza la “pietra runica di Kensington”, che risale al 1362, e di cui si narrano qui le straordinarie vicende

“Videro allora una terra e discussero di che regione poteva trattarsi. E Bjarni disse che la terra in vista non poteva essere la Groenlandia”. Cosi si legge nella “Saga della Groenlandia”. Era l’estate del 985 d.C., e i Vichinghi avevano toccato le sponde dell’America. Dei loro viaggi fa testimonianza la “pietra runica di Kensington”, che risale al 1362, e di cui si narrano qui le straordinarie vicende.

di Paul Herrmann

Il piccone percuoteva il terreno con gran vigore, sprizzando scintille tutt’attorno. L’uomo si asciugava rabbiosamente la fronte madida di sudore. Faceva ben caldo, quell’agosto 1898! E a render più piacevole il compito ci volevano anche le pietre sotterranee! Ma l’albero doveva esser tolto di mezzo, ed era indispensabile metterne in luce le radici.

Ancora un colpo di piccone, ancora altre scintille. Caspita, c’era un bel blocco là sotto! Per vedere di cosa si trattava occorreva la vanga. L’uomo lavorò accanitamente; e poco dopo depose sul margine della fossa una pietra rettangolare, lunga circa ottanta centimetri, larga quaranta e spessa quindici, squadrata con strana regolarità: la circondavano a destra e a sinistra le radici del vecchio albero, appiattite dalla pressione. Già da molto tempo doveva giacere sotterra in quel punto quando il seme della tremula s’era affondato nel terreno.

Data l’ardente calura del pomeriggio d’agosto, ben presto la sabbia incrostata sul blocco fu asciutta. Quando l’uomo rotolò il cippo sul sentiero la sabbia stessa cadde; ed ecco, apparve qualcosa che sembrava una scritta, che anzi era una scritta, scalpellata nella roccia: si trattava di caratteri runici!

Il nostro uomo era profondamente colpito. Aveva visto infatti altri caratteri runici molto tempo prima di varcare l’Oceano e di comprarsi la fattoria nel Minnesota. Li aveva visti al suo paese, Helsingeland in Svezia, dov’era nato e dove frequentava la scuola. Il maestro gli aveva mostrato nel museo una pietra runica, parlandogli degli antichi Vichinghi che incidevano caratteri nella pietra e avevano lasciato scritte del genere in Scandinavia e nella grande Russia e in Danimarca e in Germania, a testimonianza della loro presenza.

La commozione e la nostalgia sopraffacevano l’uomo. Runi! Doveva farli vedere al suo ragazzo, che non sapeva nulla della vecchia patria. E ai vicini! Molti Svedesi dimoravano là attorno e certamente da bambini avevano visto pietre runiche. Che facce avrebbero fatto! La pietra comprendeva un testo lunghissimo: una, due, tre… nove righe nel senso dell’altezza, e altre tre lunghissime nel senso della lunghezza.

Olaf Ohman chiamò il figlio e mandò il servo ai vicini, che levarono alte meraviglie. Com’erano giunti quei caratteri fin laggiù, nel cuore degli Stati Uniti, a millecinquecento chilometri dall’Oceano Atlantico? A Salem, presso Kensington nel Minnesota, a occidente dei Grandi Laghi?

* * *

A Douglas County, nel Minnesota, abita da qualche anno l’avvocato e notaio R. J. Rasmusson, che provvede alle pratiche legali e notarili dei molti coloni scandinavi della regione.

Un giorno dell’anno 1909 gli si presentano tre uomini: e R. J. Rasmusson stende il più singolare atto notarile della sua vita. I tre uomini sono Olaf Ohman, farmer, residente nella quattordicesima sezione del distretto di Salem, immigrato nel 1881; Nils Fraten, suo vicino, e certo Hjalmar R. Holand, un uomo dall’aria cittadina.

R. J. Rasmusson fa passare in sala d’aspetto i clienti, salvo Olaf Ohman, che comincia a raccontare. Al termine della lunga e strana narrazione il notaio riassume quanto ha udito, e poi redige il testo che Ohman giura, confermando il ritrovamento della pietra runica.

Il blocco è stato trovato nel 1898. Come mai Olaf Ohman desidera dichiararne le circostanze in forma giurata e legalizzata soltanto ora, dopo undici anni? Seconda domanda. Come mai dopo tanti anni Olaf Ohman ricorda ancora esattamente i particolari relativi alla giacitura della pietra tra le radici della vecchia tremula? Se infatti la pietra runica giaceva fra le radici dell’albero come Ohman racconta, dev’essere antica anzi antichissima. Nel 1830, quando l’albero cominciò a crescere, tutt’attorno alla Contea di Douglas, a Salem, a Kensington altro non c’era che la natura selvaggia, intatta, deserta d’uomini e inesplorata. Non c’erano uomini bianchi, figurarsi poi uomini che scalpellassero caratteri runici! La dichiarazione di Ohman era veridica? Edward Ohman figlio del farmer, aveva asserito la stessa cosa, e così pure il vicino, Nils Flaten. Ma chi era il terzo uomo dall’aria cittadina che accompagnava i due agricoltori? Perché era qui?

R. J. Rasmusson chiamò i tre nel suo studio. Ed ecco quanto seppe. Tanto Ohman quanto i suoi vicini erano subito stati d’avviso che la strana iscrizione dovesse essere runica come quelle che avevano visto in Svezia. Ma nessuno di loro sapeva leggere i runi; così prepararono una copia del graffito (un pezzo di questa copia si conserva nella sede della Società storica del Minnesota), e la mandarono a O. J. Breda, professore di lingue scandinave all’Università del Minnesota. Breda tradusse le parole che riuscì a decifrare.

Resa nota la parziale traduzione, Breda fu intervistato ed espresse l’opinione che la pietra fosse apocrifa. Primo, era da escludere che Svedesi e Norvegesi si fossero associati per un viaggio di scoperta o di razzia; secondo, la lingua dell’iscrizione non era paleonordica, ma risultava una miscela di svedese, norvegese e inglese: idioma ovviamente inconcepibile nel primo Medioevo.

Questo fu quanto il notaio Rasmusson apprese dai suoi due clienti. Ohman e Flaten si erano incolleriti quanto bastava per ricordarsi del ritrovamento della pietra anche dopo undici anni. Nessun dubbio che le circostanze della scoperta si fossero profondamente radicate nella loro memoria. Risultò inoltre che né Ohman né Flaten avevano ricavato alcun vantaggio dalla faccenda.

Qui si inserì Hjalmar R. Holand, il giovanotto che aveva accompagnato Ohman. Dichiarò che secondo il parere del Ministero dell’agricoltura la tremula del farmer svedese aveva effettivamente sessanta o settant’anni. La pietra di Kensington doveva dunque trovarsi nel terreno suppergiù dal 1820, in epoca cioè nella quale nessun colono bianco si era spinto a occidente dei Grandi Laghi. Il primo pioniere bianco vi si era stabilito nel 1858, e il primo scandinavo nel 1867.

Nel 1907, nove anni dopo la scoperta, Hjalmar A. Holand, Americano ma figlio di genitori svedesi, era giunto per caso in quella regione. Naturalmente, aveva sentito parlare della pietra, e la fantastica possibilità che nonostante tutto l’iscrizione runica fosse originale non lo aveva lasciato dormire. Volle vedere il monumento, che recava
le caratteristiche incisioni runiche, le decifrò e, convinto della genuinità della pietra e dell’iscrizione, pregò Ohman di dichiarare con solenne giuramento e con atto notarile le circostanze della scoperta. Ed ecco il testo della iscrizione runica:

(Noi siamo) 8 Goti (svedesi) e 22 Norvegesi in viaggio di scoperta
del Vinland verso occidente. Noi
avevamo un accampamento presso due scogliere
[alcuni
giorni di viaggio a nord di questa pietra.
Un giorno eravamo (fuori) e pescavamo. Poi tornammo a casa trovammo 10 (dei nostri) uomini
[rossi
di sangue e morti. A (ve) V (irgo) M (aria),
liberaci dal male.

Accanto a queste nove righe nel senso della larghezza se ne trovavano tre sul lato lungo quindici centimetri:

(Noi) abbiamo 10 dei nostri uomini al mare per sorvegliare le nostre navi, 14 giorni di viaggio da quest’isola. Anno 1362.

Con questa dichiarazione pubblicata da Hjalmar R. Holand nel gennaio 1908 ricominciava la discussione scientifica sulla pietra di Kensington. Fu pertanto necessario fissare su documenti le circostanze del ritrovamento.

Il governo degli Stati Uniti decise di trasferire la pietra runica di Kensington nello Smithsonian Institute del Museo Nazionale di Washington, definendola il più interessante documento storico trovato sul suolo nord-americano.

Prima che questo accadesse, scienziati ed archeologi e runologi americani ed europei furono invitati a esprimere un giudizio sulla autenticità della pietra. Le opinioni discordano. Mentre i runologi, sia pure con qualche esitazione, ritengono l’iscrizione non autentica, gli archeologi, seguendo l’esempio dei geografi e degli storici, asseriscono quasi tutti che non si tratta di un falso ma di un’autentica pietra runica. Dal canto suo il Museo Nazionale di Washington decide di considerare originale la pietra di Kensington. In questa decisione ha molto peso l’esame dello stato di corrosione, stato che naturalmente deve accordarsi con l’età dell’iscrizione, cioè con la data 1362.

Le ricerche chimiche e microscopiche furono condotte dalla Northwestern University di Chicago, i cui esperti già nel 1899 avevano asserito che «l’aspetto esterno della pietra… è tale che si può retrodatare l’iscrizione di seicento anni».

Bisogna quindi riconoscere che la pietra di Olaf Ohman è giaciuta per settant’anni fra le radici dell’albero. E in tal caso è indubbiamente autentica.

Il paese del vino

Ci siamo soffermati così a lungo su questo problema perché la pietra runica di Kensington ha raggiunto, grazie alle numerose notizie-stampa degli ultimi anni, una sorta di celebrità mondiale. Nei circoli competenti la pietra di Kensington era già nota da molto tempo e da molti si sosteneva la grandiosa tesi d’una colonizzazione medievale dell’America a opera dei Vichinghi di Groenlandia.

Chi oda per la prima volta parlare di queste cose, prese a sè, senza conoscere il lavoro compiuto per decenni, anzi per secoli, da parte dei Normanni prima di osare il grande passo al di là dell’Oceano Atlantico, può ben ritenerle fantastiche. Ma quanto riferiremo in proposito non ha nulla a che fare con le fantasticherie, ed è tutt’altro che mera ipotesi: è una realtà. Ed è anche realtà il fatto che questi grandiosi viaggi di scoperta dei Vichinghi di Groenlandia non rimasero ignoti agli Europei del tempo. Non soltanto ne seppero qualcosa i marinai e i capitani dell’Europa settentrionale (e tra essi molto probabilmente anche Colombo), ma lo stesso Vaticano ne fu informato con una certa esattezza, probabilmente al pari delle grandi banche e case commerciali del tardo Medioevo.

* * *

Questo è Bjarni, figlio di Herjulf e di Thorgard. E questa è la sua nave, una buona e possente nave d’alto mare, con la quale si possono compiere grandi viaggi.

Quantunque giovane (ha poco più di vent’anni), Bjarni è un ottimo marinaio, che sa il suo mestiere e ha sete di novità. Ha conosciuto molti uomini di molti paesi, ha visto molti mari, è abituato alle sorprese e alle stranezze. Ma nell’estate del 985, quando dalla Norvegia dove ha svernato ritorna a casa sua, in Eyrar (Sandstrand) di Islanda, dove si trova la fattoria paterna, non può fare a meno di stupirsi, perché non vi trova anima viva. I genitori si sono uniti a Erich il Rosso e hanno attraversato il mare verso una nuova terra.

Questo è quanto Bjarni apprende dai vicini: poche cose molto confuse. È dubbio s’egli riuscirà a rivedere padre e madre. Ma è certo che fin quando rimarrà a Eyrar non saprà assolutamente nulla di loro. La gente dice che nella nuova terra vi sono alte montagne e ghiacciai esattamente come in Islanda. Ma dice anche che si tratta di una terra verde: questo aveva riferito Erich il Rosso.

Così Bjarni decise di imbarcarsi alla ventura verso ovest, per cercare i genitori. E, primo Europeo di cui si sappia la storia con certezza, scoprì l’America.

La «Saga della Groenlandia», cronaca familiare ivi scritta a cavaliere fra il dodicesimo e il tredicesimo secolo, ci ha trasmesso il giornale di bordo di Bjarni, sia pure parzialmente alterato dalla traduzione:

«Proprio nell’estate in cui Herjulf, padre di Bjarni, andò in Groenlandia con Erich il Rosso, Bjarni tornò con la sua nave a Eyrar, in Islanda. La notizia del viaggio paterno impressionò moltissimo Bjarni, che non fece scaricare la nave. L’equipaggio domandò allora che cosa pensasse, ed egli rispose che voleva attenersi alla vecchia abitudine di passare l’inverno col padre. “Andrò con la nave in Groenlandia sempre che siate disposti a seguirmi”.

Ultimati i preparativi del viaggio tolsero gli ormeggi e navigarono per tre giorni fino a che alle loro spalle la terra scomparve. Poi il vento propizio cessò, subentrando una fitta nebbia e un vento boreale. Essi non sapevano più dove si trovassero, e così fu per molti giorni. Infine rividero il sole e poterono determinare i punti cardinali; poi alzarono le vele e navigarono tutto quel giorno e una notte. Videro allora una terra e discussero di che regione potesse trattarsi. E Bjarni disse che la terra in vista non poteva essere la Groenlandia. Gli domandarono se intendeva sbarcare, ed egli rispose che riteneva opportuno costeggiare il litorale. Si attennero a questo consiglio e constatarono che la terra non aveva alte montagne, ma boschi e piccole alture.

«Navigarono con la terra a babordo, poi la lasciarono indietro. Proseguirono per due giorni finché videro una nuova terra. Domandarono a Bjarni se credeva trattarsi della Groenlandia ma egli ribatté che secondo lui non lo era più di quanto lo fosse quella vista in precedenza. “Perchè si dice che in Groenlandia vi sono grandi ghiacciai”. Si avvicinarono velocemente e poterono stabilire che quella terra era costituita da una pianura selvosa. Il vento cadde. E l’equipaggio ritenne consigliabile sbarcare. Ma Bjarni si oppose. Gli uomini dissero che occorrevano legna da ardere e acqua fresca. “Avete tutto quanto occorre” rispose Bjarni. Per questo udì che lo equipaggio mormorava contro di lui.

«Bjarni comandò di spiegare le vele. Così fu fatto; si spinsero in mare aperto e navigarono per tre giorni seguendo il vento di sud-ovest. Videro allora una terza terra montagnosa; c’erano anche ghiacciai. Domandarono a Bjarni se non volesse sbarcare, ed egli rifiutò dicendo che quel paese gli sembrava troppo poco ospitale.

«Non ammainarono le vele ma seguirono la costa, e videro che si trattava di un’isola. Si allontanarono da terra e si spinsero in alto mare, sempre con lo stesso vento. E il vento si fece più forte e più gelido. Allora Bjarni comandò che si riducesse la velatura e si navigasse come lo permettevano la carena e l’attrezzatura. Così per quattro giorni. Infine videro la quarta terra. I marinai domandarono a Bjarni che cosa ne pensasse stavolta, ed egli rispose: «Ha l’aspetto della Groenlandia come è stata descritta. Sbarchiamo». Così fecero, e verso sera giunsero a una lingua di terra dov’erano attraccati strani battelli. E là abitava Herjulf, padre di Bjarni. Da lui la lingua di terra prese il nome di Herjulfsnes.

«Bjarni giunse dunque da suo padre e rimase con lui fino che il padre visse e dopo la morte di lui continuò a dimorare in quel luogo».

È chiaro che questa concisa enumerazione di rotte, di condizioni climatiche e di avvistamenti di terre, affatto nuda di particolari romantici e scritta per contro in linguaggio tecnico, poté essere concepita soltanto da un marinaio, non certamente da un dotto o da un letterato. Proprio per questo da letterati e scienziati fu ritenuta a lungo fantastica (come si può scoprire l’America senza nemmeno rendersene conto?): solo da pochi anni gli scienziati norvegesi e tedeschi presero a sostenerne l’autenticità.

Esaminiamo il racconto. Bjarni è partito da Eyrar, nell’Islanda occidentale, ha navigato tre giorni verso ovest, sino a perder di vista la sua terra. Se il tempo è buono (e un viaggio del genere può cominciare soltanto in queste condizioni) le alte vette dell’Islanda sono visibili a circa cento miglia marine di distanza. Al quarto giorno di viaggio, quando sopravvenne la nebbia, Bjarni si trovava dunque a cento miglia dall’Islanda, nello stretto di Danimarca, a sole sessanta miglia marine dalla Groenlandia. A questo punto subentrò anche il vento del nord, e il viaggio proseguì in direzione sud, o meglio in direzione sud-ovest, tenuto conto della corrente orientale di Groenlandia. Secondo la tradizione, la deviazione della rotta prefissa continuò molti giorni. Quando finalmente ritornò il sole e fu possibile orientarsi, Bjarni non sapeva più quale fosse la sua posizione. Egli non conosceva la corrente di Groenlandia, non essendo mai stato in quella terra: per conseguenza non sospettava d’aver deviato verso sud-ovest, e decise di proseguire in direzione ovest. Poiché la Groenlandia si trova a occidente dell’Islanda, la sua decisione era giustificata.

Egli seguì questa rotta un giorno intero, finché si trovò davanti a una terra collinosa e selvosa. Di qual paese può essersi trattato? Dell’America, non c’è dubbio: ma di quale parte della sua costa orientale? Probabilmente non di Terranova, alta sino a ottocento metri sul mare. Tale altezza non è più quella di basse collinette ed è già rispettabile, soprattutto se la si considera dal mare. Bisogna parimenti escludere il Labrador settentrionale, primo perché presso Nain e Manvers le sue montagne toccano i duemila metri, secondo perché in quella zona il limite dei boschi decorre lungo il 57° parallelo, e la vegetazione diventa assai rada. Ma nel Labrador del sud, pressapoco nella regione dello Hamilton Inlet, il paesaggio è piatto, con basse collinette, del tutto simile a quello descritto da Bjarni. Vi sono grandi foreste di bellissimi alberi, e poiché gli Islandesi non possono aver visto altra terra che l’America, tutto lascia credere ch’essi l’abbiano avvicinata proprio qui, nel Labrador meridionale.

Per questo suo rifiuto egli fu biasimato fino ai nostri giorni: infatti si dice, perdette l’occasione di scoprire l’America, e proprio questo dimostra l’inattendibilità delle sue asserzioni: qualsiasi Islandese sarebbe sbarcato per vedere con quale costa aveva a che fare.

Secondo l’opinione dello studioso Brogger, il rifiuto di Bjarni dimostra l’autenticità della tradizione. L’intera costa del Labrador è assai frastagliata. Il litorale, bassissimo per lo più, è preceduto, a distanza di cinque miglia, da isolette, scogliere e bassifondi che ne rendono molto insidiose le acque. È ovvio che Bjarni valutò questa circostanza e decise di attenersi a criteri prudenziali.

Il primo uomo che secondo notizie sicure scoprì l’America fu dunque Bjarni Herjulfsson durante un viaggio compiuto probabilmente nel 985 d.C. A quanto risulta, e per strano che possa apparire, egli non ripeté il viaggio: come vedemmo, rimase a Herjulfsnes, l’odierna Ikigeit nella Groenlandia sudoccidentale. Gli sarebbe stato assai facile provvedere al fabbisogno di legname recandosi nel Markland, come fu più tardi chiamato il paese boscoso visto da Bjarni. Probabilmente egli vi si recò, e forse non ne sappiamo di più soltanto perché la tradizione di Bjarni fu messa in ombra dalle brillanti relazioni dei suoi successori, Leif Erichsson (figlio maggiore di Erich il Rosso), e Thorfin Karlsefni, commerciante islandese.

Historia, n. 22, Settembre 1959

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