Renzo De Felice

Renzo De Felice: una nuova accettazione

L'accusa: ha scritto la storia a senso unico, rivalutando il fascismo. Ora che, postumo, esce l’ultimo volume della sua opera, che cosa cambia? Fra celebrazioni mancate, esclusioni dai libri di scuola e difese convinte, affiora una nuova accettazione

L’accusa: ha scritto la storia a senso unico, rivalutando il fascismo. Ora che, postumo, esce l’ultimo volume della sua opera, che cosa cambia? Fra celebrazioni mancate, esclusioni dai libri di scuola e difese convinte, affiora una nuova accettazione

di Mirella Serri

Voleva essere uno storico “puro”, simile a uno scienziato, e invece è diventato uno degli intellettuali cardine del nostro tempo, uno dei più politicamente controversi: niente a che fare con l’oggettività fuori discussione delle scienze esatte che perseguiva attraverso la ricerca di documenti inediti che parlassero da sé. Le ombre di Renzo De Felice e dei suoi corposi tomi della biografia di Mussolini si allungano sul secolo e ne rimescolano le carte. Strana sorte, quella dello studioso scomparso un anno fa, il 25 maggio, che tutti ricordano per l’immancabile sigaro in bocca, la vocetta stridula, gli improvvisi entusiasmi («quando uscirà il libro vedrete e strillerete», aveva annunciato all’amico Gian Enrico Rusconi a proposito dell’ultimo, attesissimo volume della biografia del duce che, postumo e incompleto, sta uscendo per Einaudi in questi giorni). Proprio lui, il topo d’archivio, il «cane da tartufi», come lo ha definito Alessandro Galante Garrone, per nulla presenzialista e nient’affatto polemico, ha vissuto più della metà della sua esistenza sotto il tiro incrociato dei suoi avversari. È lo storico che più di tutti, nel dopoguerra, ha saputo attirarsi grandi ripulse e grandi passioni, che ha avuto gli autonomi armati di spranghe sotto la sua casa che, pochi mesi prima della sua scomparsa, è stata bersagliata dalle molotov.

Quattro capitoli bomba

Dagli anni Sessanta in poi è sempre stata bagarre intorno allo specialista, supposto reo di aver venduto l’anima al diavolo, ovvero al suo oggetto di studio, il fascismo. Il dissenso ha investito quasi tutte le sue opere, a cominciare dalla Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo del 1961 per proseguire con i volumi su Mussolini che hanno accompagnato tutta la sua vita. Contro di lui si è schierata buona parte dell’intellighentia di sinistra italiana, turbata dalle sue tesi sul consenso di massa al regime, sul carattere rivoluzionario del primo fascismo, sulle differenze con il nazismo, sulla modernizzazione del paese operata dal duce, sull’estraneità di gran parte della popolazione sia all’avventura che alla guerra partigiana.

Erano spaventati, i suoi colleghi e critici, anche perché vedevano che con De Felice giungeva a termine l’era della storiografia che viveva di rendita sulla militanza antifascista e sul mito della Resistenza come sinonimo di democrazia. Ma oggi, oggi che il comunismo e la guerra fredda sono finiti, fa ancora paura il biografo di Mussolini? Oppure le sue tesi, se anche non sono entrate nel senso comune, cominciano comunque a innervare tutta la storiografia sul ventennio e la guerra civile? Pare proprio di no, che la sua lezione non sia affatto passata. Il rumore di fondo del dissenso continua anche dopo la sua morte e potrebbe ridiventare una critica feroce e urlata con l’uscita dell’ultimo volume della biografia mussoliniana.

La ricerca Mussolini l’alleato. II. La guerra civile 1943-45 (a cura di Emilio Gentile, Luigi Goglia e Mario Missori), di cui De Felice aveva ultimato quattro capitoli — sui sette programmati — prima di morire, mettendo il dito nelle piaghe ancora aperte della storia della Repubblica sociale e del dopo 8 settembre, infatti, si annuncia come un’autentica bomba che spalancherà le porte a un mare di discussioni.

Forse è stata solo una svista, ma l’università dove uno degli storici italiani più noti a livello internazionale ha insegnato per trent’anni, la Sapienza, si è dimenticata del primo anniversario della sua scomparsa, lasciando che a celebrarlo fosse l’Ateneo di Roma 3, con un ristretto convegno. Pochi mesi fa Storia contemporanea, rivista fondata nel 1970 dallo studioso, è affondata per contrasti tra il gruppo redazionale e la casa editrice, il Mulino, che vi voleva inserire storici di altre tendenze (come i cattolici Pietro Scoppola e Francesco Traniello).

«Come Furet e Nolte»

L’eredità del capofila del revisionismo italiano è dunque così difficile da accettare e da amministrare? «Credo sia un dato acquisito: la ricerca di De Felice ha influito su tutto il nostro modo di valutare il Novecento», osserva Ernesto Galli della Loggia, «ha restituito complessità a un fenomeno, il fascismo, che, prima dell’inizio del suo imponente lavoro di scavo, veniva etichettato semplicisticamente dalle varie parti politiche in lotta. Per la sua radiografia del totalitarismo, il nome di De Felice va messo a fianco di quelli di George Mosse, Frangois Furet, Ernst Nolte. Con loro ebbe in comune la consapevolezza del carattere unitario, pur nelle diversità nazionali, delle dittature di questo secolo, del profondo rapporto di sostegno reciproco tra fascismo e comunismo nella vicenda europea. Nell’ultimo volume, che mette sul tappeto momenti cruciali della nostra storia, poi, a differenza delle altre sue opere, i documenti d’archivio sono inferiori alla mole di memorie utilizzate. Se ne avvantaggia la scrittura e De Felice mostra definitivamente tutte le qualità di grande storico».

Scontroso e malevolo

Il grande ricercatore, per Galli della Loggia, è, paradossalmente, anche grande educatore poiché finisce per svolgere proprio con la ricerca una funzione pedagogica ed etica più fondata di tanti colleghi. E l’uomo, di cui si favoleggia di un carattere aspro, scontroso, persino malevolo, come era? «Difficile», ha polemicamente osservato
Giorgio Bocca nel necrologio che gli ha dedicato su Repubblica. Mostrava «una sorta di insofferenza per chiunque altro si fosse addentrato sul suo territorio e un atteggiamento di sufficienza che lo indussero a giudizi mediocri sulla Resistenza».

«Era molto complicato», commenta Rusconi, «e questo tratto del carattere si rispecchiava nella problematicità della scrittura. Negli ultimi anni, poi, un pessimismo di fondo sottendeva tutta la sua ricerca. Lo ritroviamo nella sua valutazione della Resistenza come è descritta nell’opera a cui si è dedicato negli ultimissimi tempi: un fenomeno minoritario, mentre la maggioranza della popolazione, schiacciata dal peso della sopravvivenza, della guerra, delle preoccupazioni materiali, sceglieva di non schierarsi. Una scelta che si proietterà in negativo sulla futura Repubblica».

Il carattere riservato e soprattutto il rifiuto di venire a patti con gli avversari procurò non pochi nemici durante tutta la vita allo studioso che aveva abbandonato il Pci nel 1956, dopo esserne stato un militante acceso, tanto da finire in carcere, nel ’52, per una manifestazione antiamericana. Per difenderlo dalle critiche serrate di quelli che gli imputavano di voler riabilitare il fascismo (cosa che peraltro De Felice ha sempre negato), si schierò al suo fianco uno dei protagonisti della Resistenza, Leo Valiani: sul Corriere della Sera, ricordò che dalla lettura delle sue opere tutti avevano qualcosa da imparare. In un’altra circostanza fu Indro Montanelli a mobilitarsi. Quando De Felice, in un’intervista a Giuliano Ferrara, definì «grottesche le norme costituzionali che vietavano la ricostruzione del partito fascista», gli fu addebitato lo sdoganamento della destra.

Quasi sconosciuto

I processi, certo, non gli sono mancati: gli si è obiettato che proprio lui, lo “scienziato” fosse un ideologo che usava una lente deformante per giudicare la storia. E che la sua rete di verità e di documenti fosse un paravento che mascherava le sue oscillazioni, le contraddizioni che segnavano il suo lavoro, che mutava orientamento e si modificava mentre cambiava l’atmosfera politica del paese. «Questa accusa mi sembra eccessiva. Però mi stupisce sentir parlare di un suo particolare rapporto con i documenti, di uno specifico metodo di ricerca che è e deve essere, invece, di tutti gli storici», osserva Lucio Villari. «Ebbe l’indubbia capacità di rompere lo schema con cui la sinistra inquadrava il fascismo, visto come un buco nero nella storia del paese. Ma non condivido tante sue posizioni: dalla rivalutazione delle radici socialiste di Mussolini all’opinione che con l’8 settembre termini la storia d’Italia e che finisca l’idea di nazione. Al contrario, mi sembra che questa idea inizi proprio a partire da quella data».

Ma c’è anche chi ha visto nella tendenza dello storico a privilegiare le fonti fasciste — rapporti di prefetti o di uffici di polizia — un limite, un modo di lasciare aperti degli interrogativi, di appiattire l’interpretazione. «Moltissime sue scoperte sono originali», osserva Scoppola, «però il quadro sarebbe risultato più articolato se, per esempio, nel tratteggiare il crollo del consenso al regime nel ’43, avesse attinto anche ai documenti degli antifascisti».

Frugare nei depositi più segreti della dittatura, nel fondo “dell’irrazionale” dell’animo del paese, come diceva egli stesso, ha portato De Felice a capire tutto ciò che la storiografia di sinistra, prima di lui, non voleva nemmeno vedere: i riti e i miti del fascismo, le pieghe oscure dell’antisemitisino. «Disprezzava la storia affetta da sindrome di sicurezza», commenta l’allievo Francesco Perfetti che è subentrato al suo maestro nella direzione della Fondazione Ugo Spirito. La storiografia è «un processo di continue acquisizioni», sosteneva infatti De Felice che, secondo Emilio Gentile, «non aveva mai perso il suo senso di umiltà in quanto storico che non rivela una verità ma offre il suo contributo a un edificio che né lui né altri vedranno mai completato: la grandezza di uno storico è proporzionale agli orizzonti aperti dal suo lavoro».

Ma anche ora che persino molti suoi avversari gli riconoscono, obtorto collo, l’onore delle armi, De Felice viene tenuto fuori dalle interpretazioni dominanti e scolastiche del secolo che sta finendo: come risulta da un’indagine svolta a Roma, alla facoltà di Scienze politiche, sui manuali più in uso nelle scuole dagli anni Ottanta a oggi, quasi nessuno nomina il biografo di Mussolini e solo un testo utilizza ampiamente la “miniera” defeliciana. Si tratta del volume curato da Andrea Giardina, Vittorio Vidotto e Giovanni Sabbatucci, quest’ultimo uno dei più stimati e brillanti allievi del docente. Per gli studenti De Felice è quasi uno sconosciuto.

Come mai? «Il suo lavoro ancora non è stato metabolizzato e assorbito», osserva Sabbatucci. «Probabilmente sta maturando un processo di accettazione, come sta accadendo con tante sue idee che erano il frutto della sua attività di ricercatore infaticabile, non condizionato da pregiudizi ideologici, deciso a non fermarsi di fronte ai muri delle convenzioni e delle tradizioni politico-storiografiche: prima sono state drasticamente rifiutate, e adesso sono parte del patrimonio comune».

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Vita, opere, polemiche

 

Renzo De Felice è morto lo scorso anno, a 67 anni, lasciando quella che probabilmente sarà l’eredità storica più discussa in questi anni di fine secolo. Allievo di Delio Cantimori, grande storico del Cinquecento italiano, De Felice si è concentrato sullo studio del ventennio fascista dopo un iniziale interesse verso i giacobini. Il suo primo lavoro è la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (1961). Individuando nello “scellerato patto” con Hitler del 1938, e nelle conseguenti leggi antirazziali, il distacco del regime dalla società italiana, De Felice ha tracciato fin dall’inizio una linea interpretativa che individuava nel “consenso” il punto centrale della ricerca. Ha quindi pubblicato alcuni testi di riflessione storiografica, quali Il fascismo. Le interpretazioni dei contemporanei e degli storici (1970) e Le interpretazioni del fascismo (1974).

Intervista sul fascismo (1975) suscitò numerose polemiche nel mondo intellettuale e politico italiano, poiché la sua impostazione fu accusata di andare oltre i limiti della ricostruzione storica, per formulare, implicitamente, un nuovo giudizio sul ventennio, che prescindeva dall’antifascismo. Il lavoro più importante di De Felice è senza dubbio la monumentale biografia di Mussolini, della quale pubblicò il primo volume nel 1965. La biografia, articolata in quattro parti, tutte pubblicate da Einaudi, si apre con Il rivoluzionario. 1883-1920 (1965): i primi anni, la passione interventista per la “grande guerra”, la nascita del Partito fascista. La seconda parte, Il fascista. 1921-1929 (due volumi usciti fra il 1966 e il 1968) affronta il periodo della conquista del potere avvenuta entro le maglie , ormai troppo allentate dello Stato liberale: dal delitto Matteotti all’assunzione di «tutte le responsabilità», alle leggi “fascistissime”.

Fra il 1974 e il 1981 la pubblicazione della terza parte, Il duce. 1929-1940, anch’essa in due volumi (“Gli anni del consenso” e “Lo Stato totalitario”) che ritorna sui meccanismi inconsci di adesione al regime. L’ultima parte, L’alleato 1940-1945, che si chiude in questi giorni con il secondo volume, “La guerra civile”, coglie nella politica estera di Mussolini i motivi principali del fallimento del fascismo, ricollegandosi quindi idealmente al suo primo lavoro.

Questo spostamento dell’attenzione sui problemi legati al rapporto con Hitler, piuttosto che agli aspetti dittatoriali del regime ha suscitato grandi proteste. E ancora continua a suscitarne.

V.R.

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Mi ha fatto venire un dubbio

colloquio con Paolo Mieli

«Oggi lo storico politically correct è anti-De Felice», osserva Paolo Mieli. Non ha dubbi il direttore editoriale della Rizzoli: «Il clima di diffidenza che ha aleggiato per tanti anni intorno a De Felice non è affatto scomparso». Mieli ha conosciuto lo storico alla fine degli anni Sessanta, quando era un “sessantottino” (ma «studioso», precisa) che si avvicinava pieno di curiosità ai grandi temi della storia di questo secolo. Aveva cominciato a lavorare all’Espresso ed era pieno di pregiudizi sulla collocazione politica di De Felice che si era fatto la fama di “destro” negli ambienti di sinistra e del movimento studentesco.

De Felice suggeriva un’interpretazione del fascismo molto distante dai canoni allora dominanti: «Discutemmo molto e mi stupiva ogni volta per la generosità e la disponibilità con cui mi ascoltava. Poi mi assegnò la tesi di laurea su Giuseppe Bottai. L’incontro con lui cambiò la mia vita: mi ha insegnato la cultura del dubbio, il liberalismo come quintessenza dell’approccio alla realtà. Tutti noi che siamo stati allievi di De Felice», afferma ancora Mieli, «ci riconosciamo a vista, abbiamo conservato quello che lui ci ha regalato all’epoca: una grande libertà intellettuale».

Solo pochi isolati nella sinistra si dissociavano dalla controffensiva storiografica che si scatenava ogni volta che appariva un volume dello storico revisionista. «Era molto solo. Ha sempre avuto pochissimi difensori. Mi ricordo quello che successe quando Laterza pubblicò la sua Intervista sul fascismo. La sua analisi del fascismo-regime e del fascismo-movimento provocò un vero e proprio pandemonio. Nello sparuto drappello di quelli che presero le sue parti è da ricordare Giorgio Amendola, il dirigente comunista, che disse agli storici anti-defeliciani, la maggioranza di coloro che indossavano i panni dell’impegno etico-civile, di andare a rileggersi le analisi sul fascismo di Togliatti. Poi Amendola accettò di rilasciare un’Intervista sull’antifascismo a Piero Melograni, nella stessa collana in cui era apparsa quella di De Felice». E adesso cosa sta accadendo? «Purtroppo siamo ben lontani dal dargli i riconoscimenti che gli spettano. Appena si tenta di rileggerne la complessa opera si scatena il dileggio. L’ostracismo non è finito».

Mirella Serri

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Prolisso, ci vuole un editing

colloquio con Denis Mack Smith

Renzo De Felice, Denis Mack Smith: due studiosi accomunati e divisi dal medesimo ambito di indagine. De Felice ha più volte accusato Mack Smith di inattendibilità, mentre Mack Smith ha sempre detto di ammirare De Felice, ma più per il lavoro da lui svolto sulle fonti che per l’opera in sé.

Professore, che cosa resta del lavoro di De Felice?

«Ha fatto uno straordinario lavoro di ricerca storica: non fosse che per la mole immensa di documenti e di fonti da lui sdoganate, merita il massimo rispetto e considerazione. Bisogna riconoscergli tra l’altro il merito di essere stato il primo a indagare il fascismo depurandolo da polemiche retrospettive o speculazioni politiche. Tutto questo lavoro però rischia l’oblio perché è troppo lungo, prolisso, fatalmente contraddittorio. E, per quel che il mio modesto italiano mi consente di giudicare, scritto male: periodi che vanno avanti per intere pagine senza un punto; argomentazioni inutilmente contorte: troppe cose che si ripetono. Insomma: gli ci vorrebbe un buon lavoro di editing. Per non dire della mancanza di un serio indice finale, che praticamente vanifica il valore di tutta l’opera: è assurdo ipotizzare che settemila pagine possano passare alla storia così come sono, senza un indice di consultazione».

Fin qui un giudizio di forma; e quanto ai contenuti?

«Purtroppo i contenuti soffrono dello stesso problema: nel senso che avrebbero bisogno di maggiore rigore autocritico, soffrono della mancanza di un punto di vista, dello sforzo continuo di astenersi dal giudizio — in nome di un’obiettività che però impedisce di affrontare seriamente alcuni passaggi cruciali della storia. Come le responsabilità dirette di Mussolini nel delitto Matteotti; come gli episodi di crudeltà in Etiopia; come la vocazione alla guerra; per non dire delle condizioni di salute del suo “eroe”, che De Felice non sembra granché interessato ad analizzare nel loro deterioramento, quando è noto, da varie testimonianze di chi gli fu più vicino, che Mussolini aveva grossi problemi di personalità, per usare un eufemismo. Il mio giudizio su De Felice è che un’eccessiva vicinanza al proprio oggetto di ricerca gli ha impedito di penetrarne la personalità e l’effettivo ruolo, in termini di responsabilità storiche».

Uno dei più recenti motivi di disaccordo tra lei e De Felice è stato a proposito dei diari di Mussolini, ritrovati per l’ennesima volta, ma apparentemente “spariti” di nuovo…

«Un episodio minore. Io ho sempre sostenuto l’autenticità di quei documenti, da quando ebbi occasione di esaminarli in Svizzera. Una perizia resa qui in Inghilterra su un paio di volumi avvalora la mia tesi. De Felice non ha perso occasione di smentirmi con notevole veemenza — come già fece in altre ben più serie occasioni in passato, ma sospetto per motivi di semplice gelosia…».

Ricorda il primo incontro con De Felice?

«Sì, e ancora oggi con enorme imbarazzo. Fu nel corso di una trasmissione televisiva in Italia, alla quale ero stato invitato a dibattere con lui faccia a faccia. Erano i primi anni Sessanta e io avevo già scritto un paio di recensioni ai lavori di De Felice in cui avanzavo obiezioni circa il metodo e le conclusioni. De Felice si presentò con una pila di libri, decisissimo a stritolarmi: impresa facilissima essendo io privo di appunti e soprattutto non allenato a reggere, nel mio italiano, la sua requisitoria. Fu un’esperienza penosa. Mi sentii uno stupido per non averla prevista; ma complessivamente ne ricavai un’impressione di arroganza. Il problema di De Felice, forse, fu non solo nell’eccessiva vicinanza al proprio soggetto, ma anche nell’incapacità di confrontarsi con la critica».

Daniela Bezzi

L’Espresso, 5 Giugno 1997

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