Barbablù

Il vero Barbablù

I contadini bretoni e vandeani sanno indicare ancora oggi I castelli del mostro di Perrault. Sono quelli di Gilles de Rais, condannato nel 1440 per eresia, stregoneria e infanticidio

Le Radici Storiche di una Favola

di Matei Cazacu

I contadini bretoni e vandeani sanno indicare ancora oggi I castelli del mostro di Perrault. Sono quelli di Gilles de Rais, condannato nel 1440 per eresia, stregoneria e infanticidio

C’era una volta un uomo che aveva case bellissime in città e in campagna, vasellame d’oro e d’argento, suppellettili ricamate e berline tutte d’oro; ma, per sua disgrazia, quest’uomo aveva la barba blu e ciò lo rendeva così brutto e spaventoso che non c’era ragazza o maritata la quale, vedendolo, non fuggisse per la paura. Una sua vicina, dama molto distinta, aveva due figliole belle come il sole. Egli ne chiese una in matrimonio, lasciando alla madre la scelta di quella che avesse voluto dargli. Ma nessuna delle due ne voleva sapere, e se lo rimandavano l’una all’altra, non potendo risolversi a sposare un uomo il quale avesse la barba blu. Un’altra cosa poi a loro non andava proprio a genio: era ch’egli aveva già sposato parecchie donne e nessuno sapeva che fine avessero fatto»1.

Comincia in questo modo una delle favole più famose di tutti i tempi, Barbablù (ma il titolo francese suona La barbe bleue) di Charles Perrault (1628-1703), pubblicata a Parigi nel 1697 in una raccolta intitolata Storie o racconti di un tempo, conosciuta anche sotto il titolo I racconti di Mamma l’Oca. Accanto a Pelle d’asino, a La bella addormentata nel bosco, a Pollicino, a Cappuccetto rosso e Cenerentola, Barbablù è da tempo uscito dal mondo delle favole per indicare un tipo d’uomo volubile, che moltiplica conquiste e matrimoni.

Tutti conoscono il seguito della storia: Barbablù affida alla moglie le chiavi delle stanze della sua casa, proibendole però di entrare in uno stanzino. Ciononostante, durante un’assenza del marito, la moglie apre la porta della stanza proibita per scoprirvi i cadaveri delle mogli assassinate da Barbablù. La chiave le cade però dalle mani, sporcandosi del sangue che ricopre il pavimento e che la tradisce quando il marito gliela chiede indietro. Sul punto di seguire la stessa sorte delle altre, la moglie curiosa è salvata grazie all’arrivo dei fratelli avvertiti dall’altra sorella. Barbablù vien messo a morte e le due sorelle prendono ciascuna un altro marito.

Il libro di Perrault è diventato presto un grande successo, come testimonia il gran numero di riedizioni e imitazioni che si succedono ormai da tre secoli. La sua pubblicazione si inscrive in una corrente letteraria molto in voga alla fine del regno di Luigi XIV, i contes de fées (letteralmente, racconti di fate), le fiabe che sostituirono gli interminabili romanzi cavallereschi quali l’Amadis de Gaule o l’Astrée D’Honoré d’Urfé. Questi racconti fecero il loro ingresso in forza a Versailles con il cambiamento subito dalla personalità del re a partire dal 1680. Dopo la scoperta delle pratiche sataniche che videro coinvolta Madame de Montespan (messe nere, malefici, rapporti con una banda di avvelenatori e di ladri di bambini diretta dall’orribile Catherine Deshayes detta La Voisin), il re ripudiò la bella marchesa, rinunciando alle feste e alle avventure galanti. Luigi XIV trovò allora conforto nella religione e, più prosaicamente, nelle braccia di Madame de Maintenon, governante dei figli che gli aveva dato la Montespan. Era la vittoria del partito dei devoti, il cui aspetto più estremo è rappresentato dalla revoca dell’editto di Nantes nel 1685 e dalle persecuzioni contro i protestanti, cui fu intimato di convertirsi o emigrare.

L’educazione dei bambini divenne da quel momento una preoccupazione centrale per la corte e il seguito del re, che non smettevano di invaghirsi del mondo meraviglioso delle favole. Ovviamente l’offerta tenne dietro alla domanda e si pubblicarono le Novelle spagnole di Madame d’Aulnoy nel 1692, il Viaggio in campagna della contessa de Murat nel 1699 e nel 1702, le Favole meno favole delle altre del signore di Préchat nel 1698, presto seguite dalle Mille e una notte nella traduzione di Antoine Galland e da tutta una serie di favole pseudocinesi, pseudopersiane e pseudoindiane.

Nessuna di queste raccolte ha però beneficiato della celebrità dei Racconti di Mamma l’Oca di Perrault; una fortuna postuma di cui il primo a meravigliarsi sarebbe stato proprio l’autore, quel serio accademico che pensava con esse di far felice suo figlio. Citando le parole di Teresa di Scanno, che ha dedicato loro un’opera importante, ci si può chiedere «com’è possibile che queste opere piacciano sia agli adulti che ai bambini, alla gente semplice come a quella raffinata, e che abbiano fatto parlare di sé ai tempi di Boileau, di Sainte-Beuve, di Anatole France, e ancora ai nostri giorni?».

Un archetipo sorprendente

Una prima risposta sta nel fatto che questi racconti sono, in origine, dei racconti popolari che Perrault registra e che tramandano temi, personaggi e situazioni con un valore di archetipo. Di essi Barbablù è un esempio particolarmente sorprendente, che si ritrova sia in Europa, che in Asia e in Canada. Barbablù è però un racconto tipicamente francese, più precisamente delle regioni della Francia occidentale: ventinove delle trentanove versioni che son giunte fino a noi provengono infatti dalla Bretagna, dalla Vandea e dal Poitou, dove i ricercatori le hanno riscontrate ancora all’inizio degli anni Cinquanta. Le altre dieci versioni sono state registrate invece nei paesi baschi, nel Quebec e in Louisiana dove, senza dubbio, vennero diffuse dai francesi nel XVII e XVIII secolo. Nella stragrande maggioran­za dei casi il nome del protagonista è Barbablù; in un caso è però chiamato Barbaverde e un’altra volta Barbarossa. In tre occasioni si tratta di un bel cavaliere, due volte di un orco, del diavolo o ancora del principe turco Frimelgus, verosimilmente una reminiscenza letteraria.

L’interpretazione di questo racconto — al quale si deve collegare anche la ballata di Renaud l’assassino delle donne — ha fatto versare enormi quantità d’inchiostro. Gli esempi di «curiosità femminile» (Eva e la mela, la moglie di Lot, il vaso di Pandora, la lampada di Psiche) e di «stanza vietata» (i tesori di Issione, la stanza dove Zeus tiene chiuso il fulmine, le terze calende delle Mille e una notte), la «barba blu» del dio indiano Indra e del dio egiziano Bès, sono casi tutti proposti in un primo tempo dai sostenitori dell’origine indoeuropea della mitologia, cara ai fratelli Grimm e a Max Müller. Per gli studiosi della scuola «antropologica» — tra i quali spiccano i nomi di Edward Tylor, Andrew Lang e Paul Kretschmer, tra gli altri — Barbablù non sarebbe altro che il diavolo, oppure Caronte, il dio greco della morte. Altre interpretazioni, infine, vedono nel nostro eroe il sole, oppure un mago che inizia le giovani donne ai segreti del matrimonio, o ancora un malato (lebbroso o altro) che spera di guarire dalla sua malattia attraverso bagni di sangue di vergini o di fanciulli.

D’altra parte c’è un fatto preciso che è stato sottolineato da molto tempo: la diffusione di questo racconto in un triangolo geografico formato dalla valle della Loira inferiore, la Bretagna, la Vandea e il Poitou. In quest’ultima regione — e soltanto lì — il ricordo di Barbablù è associato ai castelli e soprattutto a un personaggio storico fuori del comune: Gilles de Rais (Retz o Rays), barone di Laval e maresciallo di Francia (1404-1440), compagno d’armi di Giovanna d’Arco, condannato per stregoneria, eresia e l’assassinio di circa centoquaranta bambini. Le accuse dì stregoneria e di eresia si riferivano agli esperimenti durante i quali Gilles de Rais, insieme a un prete fiorentino di nome Francesco Prellati, cercava di invocare Satana e trovare la pietra filosofale. Gli storici sono però ancora divisi sulla sua colpevolezza riguardo all’accusa di assassinio di bambini, che egli avrebbe violentato durante le orge descritte dai suoi servitori e complici, ma dei quali non furono mai ritrovati i corpi.

Come era arrivato a tanto questo famoso signore? La sua breve esistenza può esser divisa in due parti: la prima fino al 1431 (anno del processo istruito da Pierre Cauchon a Rouen contro Giovanna d’Arco e della sua condanna al rogo), la seconda da questa data fino alla morte.

Il giovane maresciallo

Durante il primo periodo, Gilles de Rais, erede dopo la morte dei genitori di una delle più grandi fortune di Francia, s’impegnò nella guerra dei cent’anni, prendendo le parti di Carlo VII e sostenendolo nel suo conflitto con gli inglesi. Nel 1429 incontrò Giovanna d’Arco e partecipò al suo fianco ai combattimenti che posero fine all’assedio d’Orléans: un’occasione per lui di battersi con sir John Fastolf, il Falstaff dei drammi di Shakespeare. Durante la consacrazione di Carlo VII a Reims, il 17 luglio 1429, Gilles de Rais venne promosso maresciallo di Francia: aveva appena venticinque anni, l’età media dei marescialli di Francia di Napoleone.

Dopo la cattura e la messa a morte di Gio­vanna d’Arco, Gilles de Rais, che aveva da poco perduto il nonno e tutore Jean de Craon, rinunciò alla guerra per dedicarsi alle pratiche alchemiche e all’invocazione di Satana su consiglio di Francesco Prelatti e di un altro alchimista italiano, certo maestro Antonio di Palerno (o Palermo?). Prelatti era originario di Montecatini in Val di Nievole, vicino a Pistoia, ed era stato ordinato prete dal vescovo d’Arezzo, come dichiarò egli stesso durante l’interrogatorio. Ventitreenne, aveva studiato «la poesia, la geomanzia, e altre scienze e arti, in particolare l’alchimia». Nel 1438 era a Firenze dove frequentava Nicola de’ Medici e un tale Francesco, della diocesi di Castellane (Castellana?) «i quali praticavano, come egli assicurava, l’arte dell’alchimia». Proprio a casa di Nicola de’ Medici, Prelatti incontrò Eustache Blanchet, un prete francese di passaggio a Firenze che lo invitò a recarsi presso Gilles de Rais2.

Gli storici che finora si sono soffermati sul caso di Gilles de Rais non hanno sottolineato abbastanza l’immenso sconforto che gli aveva procurato la morte di Giovanna d’Arco, anch’essa condannata per stregoneria ed eresia dalla Sorbona e dal tristemente noto vescovo Cauchon. Saremmo tentati di credere che l’invocazione a Satana sia l’epilogo del dramma di quest’uomo, credente sincero che aveva visto la Pulzella d’Orléans condannata dalle autorità ecclesiastiche in nome della fede.

Nel 1435 Gilles de Rais fece rappresentare a proprie spese il Mistero dell’assedio d’Or­léans, uno spettacolo in cui egli si metteva in scena insieme a Giovanna d’Arco e a circa seicento attori e comparse; il Mistero fu seguito da altre rappresentazioni che gli costarono un patrimonio. Le sue stravaganze di ogni genere lo costrinsero però a vendere o a ipotecare terre e altri beni, a impegnare manoscritti preziosi e oggetti d’arte, provocando le ire della sua famiglia che finì per farlo interdire. Infine, nel 1440, egli venne arrestato dal duca di Bretagna, giudicato prima da un tribunale ecclesiastico e poi da un tribunale civile, e infine condannato a essere bruciato sulla piazza di Nantes, dove morì, dopo avere fatto onorevole ammenda, il 26 ottobre 1440, insieme con alcuni complici.

Nella memoria collettiva

Bisogna ora riflettere sul modo in cui la figura di Gilles de Rais ha potuto essere identificata, dagli abitanti dì queste regioni, con il mito di Barbablù, visto che, a differenza dell’eroe del racconto popolare, Gilles de Rais non uccise mai delle donne; inoltre, egli si sposò una sola volta e sua moglie, Catherine de Thouars, gli sopravvisse, come pure la loro unica figlia, Marie de Rais. Costoro non furono mai coinvolte in nessuno dei suoi esperimenti e conducevano una vita piuttosto ritirata.

La spiegazione della collisione tra il mito e la storia sembra dunque essere un’altra. La chiave ci è fornita da un contemporaneo di Gilles, lo storico borgognone Enguerrand de Monstrelet, morto nel 1453, che afferma che il signore de Rais uccideva bambini «e donne incinte». Un secolo più tardi, Jean Bodin affermava che il signore de Rais aveva «confessato otto omicidi di bambini, e che ne voleva uccidere ancora un nono e sacrificarlo al diavolo, e quest’ultimo sarebbe stato suo figlio che aveva deciso di uccidere nel ventre della madre». Infine, un contemporaneo di Perrault, Nicolas Baudet de Juilly, autore d’una biografia di Carlo VII, scriveva anche lui che Gilles de Rais aveva ucciso parecchie donne incinte per strappare loro il feto.

Questa evoluzione è molto importante per la storia delle mentalità: esso conferma un principio fondamentale della memoria collettiva come è stato enunciato da Mircea Eliade, vale a dire il carattere astorico di essa. Secondo Eliade, infatti, «il ricordo degli avvenimenti storici e dei personaggi autentici si modifica dopo due o tre secoli per poter entrare nel mondo della mentalità arcaica, che non può accettare l’individuale e conserva solo l’esemplare». È in termini di memoria collettiva che bisogna dunque interpretare l’identificazione di Gilles de Rais con Barbablù. L’assassinio di bambini dopo relazioni sessuali è infatti incompatibile con le categorie della mentalità arcaica per la quale il bambino è un essere asessuato per eccellenza. Si passa allora dai bambini alle donne incinte di Monstrelet e Jean Bo­din per arrivare alle donne e basta di Nicolas Baudet de Juilly e di Charles Perrault: è questo passaggio che ha permesso ai contadini bretoni e vandeani di indicare agli studiosi del folklore e agli storici locali, come l’abate Bossard, i castelli di Tiffauges, di Machecoul e di Champtocé (o Chantocé) — antiche proprietà di Gilles De Rais — come «il castello di Barbablù».

Anche se questa identificazione di Barba­blù non mette tutti d’accordo, rimane pur sempre un elemento sconcertante e cioè la perfetta sovrapposizione di tre ordini di dati: le località da dove erano spariti i bambini uccisi da Gilles de Rais, le sue proprietà e, soprattutto, le ventinove località (su trentanove conosciute) dove è stato registrato in Francia il racconto di Barbablù dal XIX secolo fino al 1950. Un semplice sguardo alla carta geografica permette infatti di constatare che il terreno sul quale si sviluppa la storia di Barbablù coincide con quello dei fatti sanguinosi perpetrati da Gilles de Rais nelle immediate vicinanze delle sue numerose proprietà. O, per citare l’abate Bossard, «è così che per le popolazioni vandeane Barbablù vive a Tiffauge; per le popolazioni angioine a Champtocé; per le popolazioni bretoni a Machecoul. Bisogna creder loro, perché lo sanno meglio di nessun altro, meglio di tutti i libri, meglio di tutte le pergamene: l’hanno imparato dai loro avi, che a loro volta l’avevano imparato dai loro padri; ed è cosi che con pochi tratti vi fanno tornare al XVI e anche al XV secolo, che furono tanto ricchi dei ricordi di Gilles de Rais e delle sue crudeltà. Tali sono le tracce che la belva sterminatrice ha lasciato del suo passaggio tra queste popolazioni! Quale terrore mortale aveva attraversato tutti i cuori! Nei nostri è rimasto un lungo brivido di terrore, che ci è stato trasmesso di generazione in generazione, di padre in figlio, come un male ereditario. Così, questa tradizione identica, universale, dura ancora».

Matei Cazacu
Paris, Centre Nationale pour la Recherche Scientifique

Note

1. Da Charles Perrault, I racconti di Mamma l’Oca, Einaudi, Torino 1957.
2. Dopo il processo del suo maestro, Prelatti riuscì a scappare ma sei anni più tardi venne decapitato al termine di una vicenda che non rientra nel quadro della nostra indagine.

Bibliografia

T. di Scanno, Les contes fées à l’époque classique (1680-1715), Liguori, Napoli 1975;
G. Bataille, Il processo di Gilles de Rais, Guanda, Parma 1982.

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