Rebecca, la prima moglie (1940)

Letture rosa: Rebecca, La prima moglie

Rebecca, di Daphne Du Maurier, è il catalogo generale del romanzo anglo-sassone per letture da caminetto, da parco e da picnic. Tutti gli elementi fissi del romanzo-tipo vi sono ripresi con quel cinismo abile di cui spesso soltanto le donne scrittrici sanno dar prova.

Dei film presentati lo scorso mese sugli schermi italiani, Rebecca o La prima moglie è quello che ha ottenuto il successo più proporzionale alla sua mediocrità, un successo universale e indisturbato. Davanti alle lucide conseguenze della trama di Daphne Du Maurier, davanti alla tecnica corretta e amministrativa del regista Hitchcock non si può azzardare nessun giudizio negativo; la stessa cosa sarebbe voler giudicare su basi estetiche i termosifoni che hanno ricominciato a funzionare: perché certi film, come certe commedie e romanzi, più che al cinema, al teatro e alla letteratura, appartengono verosimilmente al numero delle comodità moderne, delle quali tutti apprezzano ormai la funzione e nessuno vorrebbe privarsi; ma che, d’altra parte, non si discutono nemmeno.

Daphne Du Maurier è seria nello scrivere come una vecchia casa commerciale: non tradisce i suoi lettori. Nei suoi libri ci si trova, acconciato con gli ultimi ritrovati della tecnica letteraria, tutto ciò che si cerca normalmente in un libro, senza volerselo confessare: l’avventura, le belle maniere, personaggi simpatici e personaggi antipatici, consigli amorosi e igiene mentale. Tutti conoscono la curiosa differenza che esiste tra le letterature amene dell’Europa continentale e quella delle isole britanniche. Quest’ultima scopre quasi sempre un mondo convenzionale, ricco e tradizionalista, ma non perciò folcloristico, il mondo della buona società come la si immagina, e su di esso mondo punta esclusivamente le sue ambizioni. Quelli che noi conosciamo come i più grandi scrittori inglesi contemporanei (Lawrence, Joyce, Huxley, lo stesso Shaw) sono per il gran pubblico anglosassone fenomeni curiosi, e quotidianamente poco accostabili. Il lettore medio non prova per costoro quel rispetto naturale, quel timore che, per esempio, il nostro lettore prova, anche se non li legge, per D’Annunzio e Pirandello; a nessun abitante di Manchester (prendiamo una città a caso, Flaubert diceva: «Cosa ci si può aspettare da una città i cui abitanti passano la vita a fabbricare spilli?») a nessun uomo normale che legge il «Punch» passerà mai per la testa che autori come Coward o Priestley valgano meno di quelli citati. Una massa di lettori incredibilmente forte come quella inglese ha bisogno di un nutrimento costante, di curiosità nazionale, un nutrimento ottimista, di fiducia e prevedibile.

Il romanzo medio, quello che si toglie a caso dagli scaffali di un living-room londinese, tratta sempre di amore; ma, attenzione, è amore-standard, senza psicologia, intrugli, delusioni, confessioni intime o altro. L’amore, il rispettatissimo Iddio del buon lettore, come tutte le cose rispettate, guadagna soltanto se attribuito a personaggi di buoni costumi e di ottima condizione economica.

Gli antichi trattatisti d’arte drammatica reputavano che non ci potesse essere tragedia se non originata dal moto di grandi personaggi, re e regine, condottieri e principi. La forza di una tragedia, il suo insegnamento, risiede nel fatto che i personaggi animatori di essa non hanno preoccupazioni materiali, sono cioè simbolici, e possono quindi dedicarsi al loro compito interamente. Obbedendo a questo principio, la maggior parte dei romanzi inglesi (molti ne troverà il lettore tradotti nelle varie collezioni per famiglia) fa dell’Amore un monopolio della buona società. Per innamorarsi e aver diritto a subire le conseguenze di questa passione, il grado richiesto ad un personaggio è spesso quello di baronetto, la sua fortuna privata dev’essere in ogni caso vistosa, e le sue preoccupazioni d’ordine pratico inesistenti. L’amore dei poveri o dei semplici cittadini, per il suo accostarsi all’uso comune, per il suo mischiarsi agli interessi dell’esistenza quotidiana, non potrebbe interessare che un altro genere di lettori: quelli che nel libro non cercano uno svago, ma una verità qualsiasi: genere, per il vero, così poco folto, da non compensare che raramente le spese della stampa.

Tanto bene ha capito queste cose Daphne Du Maurier che il suo romanzo Rebecca è il catalogo generale del romanzo anglo-sassone per letture da caminetto, da parco e da picnic. Tutti gli elementi fissi del romanzo-tipo vi sono ripresi con quel cinismo abile di cui spesso soltanto le donne scrittrici sanno dar prova; ci descrive, cioè: il gentiluomo appartenente alla gentry (alla nobiltà terriera), colpito da un recente dolore; la povera e bella ragazza che ha il dovere di sposare questo gentiluomo (è Cenerentola, state tranquilli!); un castello in riva al mare, con saloni Tudor e squadre di camerieri; una perfida nemica delle felicità altrui; un mistero svelato, eccetera. L’abilità di Daphne è tutta nel suo aver saputo rinnovare questi elementi, nell’averli tradotti nel linguaggio dell’attuale gran mondo. Nessuno altrimenti avrebbe preso sul serio figure che erano da tempo ferme all’inizio del secolo, con le loro passioni genuine e infantili, coi loro matrimoni avversatissimi e le loro candide colpe.

Romanzo e film, per questi meriti d’aggiornamento, per il loro suonare al pubblico dei lettori e degli spettatori vecchie arie giovanili non dimenticate ma, d’altra parte, messe in disparte, hanno avuto quel gran successo che era logico avessero. La signora che oggi si guarderebbe bene dal farsi sorprendere con Elinor Glyn, riversa le sue tenerezze su Daphne Du Maurier: ma non ditele, per carità, che sono la stessa cosa, non vi crederebbe.

Faremo grazia al lettore di questa rubrica di quanto narra il film. Il suo contenuto è ormai preda comune. Periodicamente, con la sua onnivora capacità che lo distingue, il pubblico sceglie i suoi amori: lo scorso anno non si poteva salire in un tram o entrare in un caffè senza sentire le due amichette o i due signorini che si rivolgevano di colpo e contemporaneamente la stessa domanda editoriale: «Hai letto Furore?». Quest’anno è Rebecca che bisogna aver letto.

Documento, gennaio 1942

 

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