Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini: L’intellettuale e la contraddizione

Un discorso da cui oggi più che mai si attendevano nuovi arricchimenti alla vita culturale italiana Da «La meglio gioventù» alle «Ceneri di Gramsci», a «Ragazzi di vita», a «Poesia in forma di rosa»

Un confronto appassionato con la realtà del nostro tempo

 

La morte brutale che ha colpito Pasolini a cinquantatré anni di età tronca per sempre un discorso da cui oggi più che mai si attendevano nuovi arricchimenti alla vita culturale italiana. La tenace fedeltà dello scrittore al nucleo originario delle sue ansie esistenziali appariva sempre più impegnata a misurarsi con le contraddizioni fondamentali del nostro tempo, in uno sforzo appassionato che trova le ultime testimonianze in due volumi apparsi quasi contemporaneamente, i versi di La nuova gioventù e la raccolta di articoli Scritti corsari.

Nato a Bologna nel 1922, Pasolini trascorse l’infanzia e la giovinezza in varie città dell’Emilia e del Veneto, seguendo gli spostamenti del padre, ufficiale dell’esercito. Lungo fu soprattutto il soggiorno a Casarsa. paese materno, tra il 1943 e il ’49; qui avvenne l’incontro decisivo con la vita contadina e assieme, nella frequentazione della «Academiuta di lenga furlana», maturarono i suoi interessi poetici e critici per la dimensione linguistica dialettale. Laureatosi in lettere nell’università bolognese, si trasferisce poi a Roma; una nuova esperienza di vita gli si apre, nel contatto con il sottoproletariato delle borgate, mentre cresce la fama procuratagli da un’attività intensissima, in cui alla poesia e al saggismo si affianca la narrativa. Del 1960 è il primo film, Accattone, che dà avvio a una carriera registica sempre più fortunata, nel corso della quale Pasolini compie nuove aperture d’orizzonte su popoli ed epoche remoti dal mondo borghese.

La formazione letteraria di Pasolini avvenne nel clima dell’aristocraticismo ermetico, avvertibile nel procedimenti simbolici delle poesie friulane composte negli anni quaranta e raccolte in La meglio gioventù (1954). La verginità del dialetto offre motivo non a una descrizione realistica ma ad uno sperimentalismo letteratissimo, in cui prende corpo il vagheggiamento lirico d’un recupero di salute morale attraverso l’immersione nella naturalità innocente di una esistenza immutabilmente ritmata dal flusso delle stagioni: l’impossibilità dell’estasi si converte, a sua volta, in abbandono a una mestizia di morte.

Da questa religiosità connotata in senso decadentistico nasce però e si sviluppa un interesse sempre maggiore per le condizioni oggettive di vita degli strati subalterni, esclusi dalla cultura e dalla lingua nazionale così come sono respinti da ogni partecipazione alla cosa pubblica. Il soggettivismo lirico cede a forme più distese di poesia narrativa, che richiedono una nuova organizzazione di riferimenti intellettuali. Pasolini scopre il marxismo: lo scopre sulla via di un risentimento populistico per cui il mondo contadino, pur continuando a incarnare il mito d’innocenza d’una infanzia perduta, diviene anche il luogo d’un dramma collettivo la cui intollerabilità va rinfacciata alle classi dirigenti del vecchio mondo borghese, cercando di provocarne sino allo scandalo la spenta coscienza civile.

La storia personale di Pasolini diviene a questo punto l’alto emblema del travaglio con cui un intellettuale «tradizionale» si accosta e cerca di appropriarsi l’ideologia delle classi […] la resistenza del vecchio io, elegiacamente chiuso nella sua passione individuale, si scontra con le spinte della razionalità consapevole; la crisi è sofferta tanto più autenticamente in quanto lo scrittore rifiuta le scorciatole d’una soluzione volontaristica, deciso a scontare dentro di se sino in fondo il significato del contrasto da cui si sente lacerato. Nasce Le ceneri di Gramsci (1957); Pasolini adibisce tutte le sue mature risorse di continuatore della maggior tradizione poetica novecentesca, da Carducci a Pascoli a D’Annunzio, per sceneggiare i termini del suo dibattito interiore, proiettato sullo sfondo di una società affaticata da grandi processi di trasformazione: «È necessità Liberarsi soffrendo, ma Lottando soffrire la storia».

La protesta contro l’ingiustizia sociale e la rivolta dinanzi alla legge dolorosa dell’esistenza si intrecciano in un groviglio esibito con candida spudoratezza: tale è la personalissima forma di impegno militante che si definisce in quegli anni, anche attraverso la collaborazione alla rivista bolognese Officina, di cui Pasolini fu gran parte. I romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959) si propongono entrambi come documento della vitalità disperata e del tragico abbandono in cui versano gli abitanti del suburbio romano; il nuovo impasto linguistico italo-dialettale adottato dallo scrittore mira a riconoscere, nella sua tensione espressionistica, il patrimonio di umanità custodito da personaggi che pur nel loro abbrutimento sanno aprirsi a impulsi di casta solidarietà morale, ignoti al mondo borghese da cui sono esclusi. Ma solo la morte è il vero termine dell’itinerario lungo il quale il protagonista di Una vita violenta patisce, al di là dei suoi peccati, le colpe della società in cui è nato.

In seguito Pasolini collocherà soprattutto fra le plebi del Terzo Mondo gli ulteriori miti e simboli cui attingere energia per liberarsi dai suoi personali peccati e colpe, di intellettuale borghese condannato all’incapacità di aderire senza sforzo al procedere della storia e delle sue rivoluzioni. Un solo motivo di certezza lo soccorre. ma di tipo negativo: l’ordine borghese rappresenta un errore, appunto della storia, che va cancellato per riprendere il corso di una evoluzione diversa, su misura d’uomo. Ecco La religione del mio tempo (1961), Poesia in forma di rosa (1964), Trasumanar e organizzar (1971); ed ecco, meglio, lo apologo cinematografico e letterario di Teorema (’68), dove prende corpo suggestivo l’appello a rinnegare la tranquilla inerzia del vivere borghese per abbandonarsi all’onda del desiderio di totalità che un regime meschino può aver soffocato ma non distrutto.

L’inquietudine e l’intransigenza di Pasolini trovarono nuovi spunti polemici davanti alle proposte della neoavanguardia, che durante gli anni sessanta esperì un sovvertimento dell’assetto istituzionale delle forme letterarie: la accusa rivolta loro fu di ridurre la protesta antisociale a protesta antiletteraria, per risolvere anche questa in una protesta antiverbale. Ancora più drastico fu l’atteggiamento di rifiuto verso i grandi moti della contestazione sessantottesca, giudicati sostanzialmente come un fatto interno al sistema borghese che, giunto a uno stadio avanzato di sviluppo, suscita in sé e da sè un fremito ribellistico che svolgerà un’utile funzione di svecchiamento e sarà poi riassorbito, così da rendere ancora più impenetrabile il dominio dei ceti dirigenti.

Le modalità mutevoli del progresso storico mascherano la conferma perenne d’un gioco delle parti immutabile fra maggioranze detentrici del potere o minoranze di esclusi. La «vera tragedia» della nostra epoca sta nell’assolutizzazione di tale potere, che non solo ha pervaso totalitariamente la realtà ma sta ormai occupando anche l’ultima area di libertà della speranza, il sogno del futuro; tale è lo empito di oltranzismo pessimistico consegnato alle eleganze sinuose del poema in forma drammatica Calderòn (1973).

Negli anni più recenti, Pasolini ha svolto un’ampia divulgazione giornalistica delle sue tesi, martellando con tenacia, sulle più varie occasioni di cronaca, la requisitoria contro uno sviluppo economico che gli appariva pagato con una perdita irrimediabile di umanità. La evidente unilateralità degli acri paradossi che sostenevano il discorso pasoliniano non poteva non suscitare perplessità e repliche, spesso tutt’altro che infondate. Nondimeno, proprio da questo furore di negazione l’ultimo Pasolini traeva stimolo per operare una revisione dei valori stessi cui si era da sempre ispirato, lasciando spazio a una nuova, positiva assunzione di responsabilità di fronte al mondo moderno.

Se il suo interlocutore primario era pur sempre il lettore borghese, la stessa vastità della fama raggiunta collaborava a porlo in colloquio con altri strati d’un pubblico in via di rinnovamento. E da costoro il problema non soltanto sociale ma propriamente politico gli veniva riproposto con una urgenza di cui Pasolini si rendevo ben conto. Certo, egli non rinunziava al suo atteggiamento di intellettuale «diverso» e solitario, esaltandosi anzi a una funzione di vate. Ma cresceva in lui la consapevolezza della necessità di separarsi dai miti regressivi dell’infanzia così come da quelli della civiltà preborghese. La nuova gioventù riprende le immagini della poesia giovanile in dialetto friulano, ma per sconsacrarle definitivamente. Un presagio di fiducia nel divenire collettivo accennava a prendere vita nello scrittore; presagio collocato sotto il segno dell’umanesimo socialista.

Vittorio Spinazzola, l’Unità, lunedì 3 novembre 1975

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