Caduta del Fascismo - 26 luglio 1943 - Prima pagina - La-Stampa

25 Luglio 1943: La fine del Duce

Nel luglio 1943 la caduta di Mussolini e il crollo del regime che aveva tenuto in pugno l'Italia per 21 anni rappresentarono per molti italiani la fine di un incubo. Per altri, cresciuti nel mito dell'Impero e del «genio italico», fu una tragedia. Indro Montanelli ricostruisce in questo lungo articolo quei giorni fatali.

Ricostruzione controcorrente di un giorno fatale

a cura di Mario Lombardo

Nel luglio 1943 la caduta di Mussolini e il crollo del regime che aveva tenuto in pugno l’Italia per 21 anni rappresentarono per molti italiani la fine di un incubo. Per altri, cresciuti nel mito dell’Impero e del «genio italico», fu una tragedia. Nell’uno o nell’altro dei casi c’era da riscrivere il passato: i primi volevano cancellare per sempre il «deprecato ventennio»; i secondi pur rimettendo in discussione quel lungo periodo di storia non volevano dimenticare quanto di buono era stato fatto.

Non erano operazioni facili con le passioni ancora accese, la guerra che dilagava nel territorio nazionale, le mille ferite aperte. Ma appena finito il conflitto su quella vicenda si cominciarono a scrivere migliaia di pagine con altrettante interpretazioni, spiegando come e perché erano andate le cose, raccontando la parte avuta dai «congiurati», da Mussolini, da Vittorio Emanuele III. Dei pochi sopravvissuti all’ultima e drammatica seduta del Gran Consiglio nessuno voleva aggiungere la propria verità alle mille versioni che si andavano stampando. Ma uno, quel Dino Grandi che aveva addirittura presentato l’ordine del giorno fatale, parlò a lungo con un famoso giornalista, spiegando le cose, svelando i retroscena. Chiedendo però a Indro Montanelli, ch’era appunto il suo interlocutore, di non pubblicare nulla senza autorizzazione.

E così tenendolo vincolato al segreto, gettando Montanelli in quello che lui stesso definisce «un piccolo dramma professionale» combattuto com’era tra la spinta a scrivere quanto di nuovo c’era da aggiungere alle storie altrui e l’impegno nel rispettare la parola data.

Grandi e Montanelli s’erano conosciuti agli inizi degli anni Quaranta, durante la guerra in Albania. Appena dopo la Liberazione Montanelli fu inviato in Spagna dal Corriere della Sera, e lì a Madrid, ricevette una telefonata di Grandi che da Cascais, in Portogallo, gli chiedeva di raggiungerlo. E fu a Cascais, che per due intere giornate Grandi raccontò tutto. Ma poi partì per San Paolo, in Brasile, alla ricerca di un lavoro e di là non mandò più il telegramma che avrebbe autorizzato la pubblicazione delle sue rivelazioni.

Solo nel 1963 Montanelli si sentì sciolto dal vincolo e scrisse per il Corriere della Sera, in due puntate, la sintesi di quel lungo colloquio.

La notte che portò Gran Consiglio

di Indro Montanelli

Il 24 luglio del ’43, Roma visse una delle sue giornate più afose. La temperatura non superava i 32 gradi, ma lo scirocco la rendeva plumbea e greve, e i gelati autarchici non offrivano sollievo. La città aveva perso il suo abituale carattere spensierato e godereccio da quando, cinque giorni prima, il bombardamento di San Lorenzo le aveva tolto la fiducia nella propria immunità. Gli effetti psicologici dell’incursione erano stati più gravi di quelli materiali, ma non nel senso che Mussolini aveva sperato. Invece di un’ondata di furore vendicativo, era sopravvenuta la depressione. Invano su ordine del ministro della Cultura popolare, Polverelli, i giornali avevano intonato il coro del mostruoso oltraggio alla Città Eterna, capitale della Cristianità, La gente non leggeva i giornali, non li comprava nemmeno. Oramai la sua fonte d’informazione era Radio-Londra. L’ascoltavano anche i Gerarchi.

C’erano varie notizie, quel giorno, e almeno una avrebbe dovuto interessare parecchie persone: la mobilitazione in massa delle classi comprese fra il 1907 e il ’22. E invece quasi nessuno ci badò, come se fosse una corrispondenza dall’estero. Tanto, dove sarebbero andati a combattere quei richiamati? Il bollettino di guerra segnalava vagamente che in Sicilia «la difesa ha dovuto spostarsi su posizioni arretrate». Non si diceva quali, ma tutti sapevano che si trattava dello sgombero di Catania. Per addolcire la pillola si citava, con un gran titolo su cinque colonne, il solito «eroico episodio» che immancabilmente fa da contrappunto alle disfatte italiane: la tenace resistenza dei marinai di Augusta. «Fino all’ultimo uomo» dicevano i giornali con una sorta di macabro tripudio. C’era anche l’eco ingigantita di un messaggio di protesta dei cattolici americani a Roosevelt contro «la sacrilega impresa di Roma».

Nessun accenno, invece, all’avvenimento del giorno: la riunione del Gran Consiglio che doveva aver luogo alle 5 del pomeriggio. Strano. Nella liturgia fascista queste assise avevano sempre assunto un tono di alta solennità. E invece stavolta venivano indette quasi sotto banco: n’erano al corrente solo gli interessati e alcuni giornalisti di stretta fiducia. Ma fino ad ora si è ignorato il vero motivo che indusse Mussolini a quella convocazione. Vediamo di ricostruirlo.

Per tonificare l’atmosfera del Paese sfiduciato e stanco, il segretario del partito fascista, Scorza, aveva deciso di scatenare una campagna oratoria, e aveva officiato tredici fra i più alti esponenti del regime a riscaldare, con «oceaniche adunate» in tutta Italia, gli spenti entusiasmi. Ma Grandi, interpellato per telefono a Bologna, rifiutò. «Dal ’24» disse «Mussolini mi ha proibito di parlare nella mia città. Mi attengo agli ordini.» E buttò giù il ricevitore. Bottai, convocato da Scorza insieme agli altri designati, disse: «Va bene, ma a un patto che il Duce ci suggerisca gli argomenti perché io, nella mia fantasia, non ne trovo». Il Duce, sollecitato da Scorza, si decise a ricevere, il 16, i recalcitranti, meno Grandi e Federzoni. E si dice che in quell’udienza fu decisa la convocazione del Gran Consiglio. Invece non è così.

Il Duce in difficoltà.

Con Scorza, andarono a palazzo Venezia Bottai, Farinacci. De Bono, Terrazzi, Bastianini, De Cicco, Biggini, Cianetti, Giuriati. Acerbo. Mussolini li ricevette con queste parole: «Sia anzitutto ben chiaro che io mi trovo di fronte semplicemente degli oratori che domandano istruzioni, e non dei membri del governo e del partito». Ma ben presto dalle istruzioni si passò a una discussione abbastanza vivace. Farinacci fece una carica a fondo contro i sabotatori in generale e contro Grandi in particolare, chiamandolo «traditore» e «uomo degli inglesi». Bottai disse che era molto comodo, ma un po’ tardivo, chiedere una sunzione di corresponsabilità ad uomini ch’erano ormai estromessi da ogni effettivo potere, e di cui non si era chiesto il parere nemmeno per la dichiarazione di guerra.

Il Duce rimase interdetto: aveva perso l’abitudine di vedere discussi e contestati i propri ordini da un pezzo, forse da quel lontano 30 dicembre del ’24, in cui i consoli della Milizia irruppero nel suo ufficio e l’obbligarono ad affrontare l’affare Matteotti con quel discorso del 3 gennaio che segnò praticamente l’inizio della vera dittatura. Forse quello sgradevole ricordo gli rifrullò nella memoria, perché sporse i labbri in fuori da bambino imbronciato com’era solito fare quando qualcosa lo contrariava. E, raccogliendo l’allusione di Bottai, rispose: «Il Gran Consiglio? Riunirlo ora, significa autorizzare amici e nemici a credere che si voglia discutere di capitolazione. Ma, visto che lo volete, lo avrete». Fece una pausa, e poi aggiunse: «Lo avrete, signori, dopo la vittoria». Quindi non è esatto che la riunione del Gran Consiglio fu «strappata» a Mussolini dai «congiurati» il 16 luglio. Essa fu decisa, di sua spontanea volontà, da Mussolini tre giorni dopo, e di congiura non c’era nemmeno l’ombra.

Temeva solo Farinacci.

In quei tre giorni accaddero due cose importanti: Mussolini andò a Feltre per incontrarsi con Hitler e, mentre parlava col suo potente e prepotente alleato, gli aerei anglo-americani bombardavano Roma.

Che cosa si siano detti il Duce e il Fuhrer, lo si sa solo in parte: la parte che fu udita da alcuni testimoni, come il generale Ambrosio, capo dello Stato Maggiore. Questi, durante tutto il viaggio, aveva istigato Mussolini a esporre la situazione italiana con estrema chiarezza e a esigere i necessari aiuti militari sotto minaccia di «sganciamento» dall’alleanza e di capitolazione. Mussolini aveva promesso. Ma Hitler non gli concesse nemmeno la parola. Recitò, a cateratta, uno dei suoi soliti monologhi, alternando rampogne e minacce: gl’italiani non si battevano, i loro generali erano inetti, il fascismo non sapeva imporre al popolo i necessari sacrifici, ma la Germania avrebbe vinto egualmente la guerra perché aveva in tasca un’arma segreta di micidiale potenza. Questo miraggio fu l’unico aiuto che il Fuhrer porse al Duce, il quale tacque sempre. Poi, però, i due si ritirarono a parlare a quattr’occhi.

Le accuse di Hitler.

Sul contenuto di quel colloquio confidenziale, non ci sono documenti né testimonianze. Ma lo si può desumere a posteriori da alcuni elementi. Nel suo discorso del 10 settembre sul «tradimento» italiano, Hitler disse: «…Il fatto saliente di tutta la crisi che portò al colpo di Stato fu la domanda del Duce di pieni poteri per condurre la guerra sino in fondo. Si trattava di prendere le misure più dure contro i sabotatori che operavano di nascosto, contro la guerra…». Ora, da un ufficiale di Stato Maggiore italiano, presente all’incontro, Federzoni aveva saputo (e Bastianini, presente anche lui, ha confermato) che Hitler aveva chiesto e imposto a Mussolini di rinunziare al comando militare, che il Duce esercitava come capo supremo delle Forze Armate italiane, e di rimetterlo ai tedeschi. «Voi» gli aveva detto «non siete circondato che da generali incapaci e ministri traditori.»

Mussolini non aveva reagito perché Hitler lo dominava e intimidiva. Oltre tutto, non aveva mai voluto confessare che non conosceva abbastanza il tedesco per potergli rispondere. Ma comunque era deciso a non ingoiare quel boccone e a dimostrare al suo alleato che anche lui era un dittatore abbastanza autorevole per tenere a bada i «traditori» e metterli a posto. Ecco come gli nacque nella testa l’idea di riunire il Gran Consiglio. Esso gli avrebbe dato il pretesto di mettere alla frusta i suoi indocili gregari e di dimostrare al Fuhrer che il padrone, in Italia, era sempre lui. Oltre tutto, non ignorava che Farinacci si stava dando un gran daffare coi tedeschi per persuaderli che Mussolini era un debole, che la sua dittatura era finita, anzi non era mai esistita. E infine la notte del Gran Consiglio Farinacci disse proprio questo, in sostanza: che in Italia non c’era più posto per un duce, ma solo per un Gauleiler. E il Gauleiter era lui.

Ecco il motivo per cui Mussolini si decise a indire la riunione. Egli solo, in quel momento, congiurava. Congiurava per riaffermare la propria posizione di fronte a Hitler e difenderla contro Farinacci, ch’era il suo vero nemico, l’unico che in quel momento temesse. Non credeva al complotto di Grandi e Bottai, che infatti non c’era. Ma voleva umiliarli, costringerli a un rinnovo d’illimitata fiducia, e dare al Fuhrer la prova della loro docilità.

Grandi parla al Re.

La mattina del 21, Scorza disse a Grandi; «II Duce mi ha dato ieri sera l’ordine di convocare il Gran Consiglio per sabato 24 alle 17». E ne era stupito egli stesso. «Dici sul serio?» chiese Grandi, incredulo. «E cos’è successo?» Scorza si strinse nelle spalle. «Non lo so» rispose. «È tornato da Feltre con questa idea». La grande congiura, della quale poi il Duce si proclamò vittima e per la quale fece fucilare a Verona tanti innocenti, partì da lui e fu sua esclusiva iniziativa.

Grandi era arrivato a Roma la sera del 20, all’indomani del bombardamento. C’era venuto unicamente per parlare col Re, che gli sembrava la chiave della situazione. Fino a quando aveva ricoperto la carica di ministro Guardasigilli, cioè fino al 5 febbraio, lo aveva visto due volte la settimana, e gli aveva confidato le sue angosce di fronte all’incalzante disfatta. Mussolini dovette saperlo o sospettarlo, perché d’improvviso gli tolse quel pericoloso ministero per affidargli soltanto la presidenza della Camera, che non consentiva quegli incontri. Grandi rivide il Re ancora due volte. La prima fu il 25 marzo, per il conferimento del Collare dell’Annunziata. «Scelga» gli disse il Re, offrendogliene due: «il primo è quello di La Marmora, il secondo di Giolitti». Grandi scelse quello di Giolitti. «Lo sapevo» disse il Re.

Grandi profittò ancora una volta di questo incontro col Re per esprimergli con franchezza la situazione. «Maestà» disse «siamo alla vigilia di Novara, bisogna agire subito prima che sia troppo tardi.» «Non esageri» rispose il Re piuttosto stizzito, ma lo lasciò parlare. Poi disse: «Se le cose stanno come dice lei, perché non mi fomite il mezzo costituzionale per agire?».

A dire il vero, Vittorio Emanuele non aveva mostrato questi scrupoli costituzionali nel ’15, quando aveva dichiarato guerra all’Austria contro la volontà del Parlamento e nel ’22, quando aveva accettato la marcia su Roma. Ora esigeva il voto di una Camera che in pratica non esisteva più come organo deliberativo.

Prima di congedarlo il Re disse a Grandi: «La ringrazio di avermi sempre parlato con franchezza. Si ricordi che la considero un devoto servitore del Paese e un fedele della mia Casa. I tempi sono difficili. Cerchi di stare in buona salute, perché presto avrò bisogno di lei». Grandi uscì dal Quirinale non sapendo quale senso preciso egli dovesse dare alle parole del sovrano. Si recò dal principe ereditario Umberto. Questi fu molto più esplicito: «Ella ha perfettamente ragione. Si è perduto già molto tempo prezioso. Bisogna agire prima che sia troppo tardi. Ma come? Ma in che modo? Che cosa ella ritiene che io debba fare? Sono pronto ad assumere tutti i rischi». La sera stessa Grandi ricevette a Montecitorio la visita del ministro della real casa, il quale gli disse in modo duro e freddo: «Tu stai montando la testa al principe Umberto. Il Re non gradisce questa tua iniziativa e mi ha incaricato di dirtelo».

Grandi rivide di nuovo il Re il 3 giugno successivo. Questa volta Vittorio Emanuele fu meno ermetico del consueto. «Sono d’accordo con lei. Le cose non possono continuare cosi. Occorrono dei mutamenti sostanziali. Si ricorda quando nel luglio 1939 ella giurò nelle mie mani come ministro Guardasigilli ed io la pregai di fare tutto il possibile per salvare la costituzione e lo statuto? Si avvicina il momento in cui lo statuto dovrà ritornare a funzionare. Sul quando e sul come dovrò pensarci io e soltanto io, perché esclusivamente mia è la responsabilità. Lei, come presidente della Camera, faccia tutto il possibile per facilitarmi il compito ed abbia fiducia nel suo Re.»

Poi, prima di congedarlo, quasi pentito di aver parlato troppo, aggiunse vivacemente: «Non parli e non accenni con anima viva di quanto le ho detto». «Neppure col duca Acquarone?», Grandi domandò. Rispose il Re: «Con nessuno, neppure col ministro della real casa».

La famosa «congiura».

Grandi partì per Bologna con l’animo turbato e, in fondo, ancora una volta deluso. Da Bologna scrisse al generale Puntoni, aiutante di campo del Re, ricordando l’esempio e il coraggio di Carlo Alberto. Seppe più tardi che il duca Acquarone, ministro della real casa, si era seccato che Grandi non si fosse rivolto a lui, e che anche il Re non aveva gradito l’accenno, in realtà un po’ pesante. Ma Grandi seguitava a pensare che solo il Re poteva far qualcosa. E, arrivando a Roma, aveva in tasca la bozza di una lettera, che non fu mai recapitata, rinunziò a mandarla il 21 mattina, quando Scorza gli diede l’insperata notizia della convocazione del Gran Consiglio. Di colpo, Grandi intravide la possibilità di fornire al Re il «mezzo costituzionale» che questi richiedeva per agire. Ma subito rifletté che non si poteva compromettervi la Corona. La famosa «congiura» cominciò con questa rinuncia a qualsiasi collusione con la monarchia. II Gran Consiglio doveva fare da sé. Tanto è vero che giunto di lì a poco a Montecitorio e trovatovi un messaggio di Acquarone che voleva vederlo, gli fece rispondere che in quel momento preferiva non incontrare nessuno dell’ambiente di corte.

Il Duce in difficoltà.

Due ore dopo il colloquio con Scorza, Grandi era dal presidente dell’Accademia d’Italia, Federzoni, il più intimo e fidato dei suoi amici. Sebbene membro anche lui del Gran Consiglio, non sapeva ancora nulla della riunione e ne trasecolò. Nella discussione, cui assistette il senatore Rotigliano, furono esaminati tutti gli aspetti della situazione, che si presentava estremamente complessa. Nessuno dei tre sapeva nulla di un complotto di militari orchestrato da Acquarone. Sapevano, sì, che tra i generali serpeggiava la fronda e che nei loro conciliaboli si parlava della necessità di deporre Mussolini e il fascismo. Erano cose che si ripetevano in tutti gli ambienti italiani, perfino nei salotti. Ma tutti aspettavano il «via» dal Re. Il quale era al corrente di queste macchinazioni, ma finora non si era mai sbilanciato, sempre in attesa del «mezzo costituzionale» che gliene fornisse il pretesto. Ma la prima incognita era appunto questa: se una decisione del Gran Consiglio poteva essere considerata «mezzo costituzionale». Per strano che possa sembrare, dopo vent’anni di fascismo, ancora non si sapeva con certezza che cosa fossero le mansioni di questo supremo organo del regime, ne fino a che punto fossero vincolanti. Secondo la legge che lo aveva istituito nel ’28, queste mansioni erano «prevalentemente consultive, essendo quelle deliberative limitate a determinata materia di particolare importanza». Non c’era dubbio che la materia su cui Grandi intendeva impiantare la discussione, di «particolare importanza» ne aveva a josa. Ma per far valere delle conclusioni che mettessero il Re nella possibilità, anzi nella necessità di agire, bisognava che si concretassero in un «voto». Ora, sebbene il regolamento gliene desse facoltà, di fatto il Gran Consiglio non aveva mai «votato». Mussolini, che non voleva sentirsi vincolato da nulla e da nessuno, aveva introdotto questa prassi: egli presiedeva la seduta, l’apriva con qualche parola d’occasione, dava la parola agli altri, ascoltava più o meno benevolmente, poi riassumeva e concludeva il dibattito presentando una deliberazione da lui preparata o fatta preparare in precedenza. Era accaduto qualche volta che il Gran Consiglio non fosse d’accordo con lui: non lo fu, per esempio, nel 38, sul problema delle leggi razziali, ma non poté esprimere la propria divergenza in un voto, e Mussolini non ne tenne nessun conto.

La prima difficoltà da superare era dunque quella di rovesciare la prassi, imponendo al dittatore il rispetto del regolamento. E questo era possibile solo che, a volerlo, ci fosse una maggioranza non solo quantitativamente schiacciante, ma anche agguerrita e decisa. E qui stava la tremenda difficoltà, perché l’idea di Grandi non era di facile digestione per qualsiasi stomaco. Egli chiedeva nientemeno questo: che i membri del Gran Consiglio, riconosciuto il fallimento del regime, ne assumessero in proprio tutta la responsabilità sgravandone il Paese, invitassero il Duce a rimettere tutti i poteri al Re e s’impegnassero a uscire dall’agone politico, tenendosi a disposizione solo per il pagamento dei conti nei confronti del vincitore. Gli anglo-americani avevano sempre detto, e negli ultimi giorni avevano formalmente ripetuto, ch’essi facevano la guerra al fascismo, non all’Italia. Ci credessero o no, ormai erano prigionieri di questo slogan. Bisognava approfittarne, sacrificando loro, a pagamento dei guasti, i capi del regime.

Gran Consiglio di kamikaze.

Era una nobile idea, ma che richiedeva lo spirito di sacrificio del kamikaze. Dei 28 membri del Gran Consiglio, su quanti si poteva contare? Grandi e Federzoni fecero rapidamente un calcolo preventivo. E conclusero che gli unici sicuri erano, con loro due, Bottai, Bastianini, De Stefani, Albini e De Marsico; sette in tutto. Certamente e irriducibilmente ostili sarebbero stati: Farinacci, Polverelli, Scorza, Galbiati, Buffarini-Guidi, Tringali-Casanova, Frattari, Marinelli: otto in tutto. Incerti, erano gli altri 13, cioè la maggioranza. E sul loro atteggiamento potevano influire molte cose.

Anzitutto, la paura. La guerra, è vero, era persa. Ma Mussolini aveva ancora in mano tutte le leve del potere. Era capo del partito e del governo, ministro della Difesa e dell’Interno, comandante supremo delle Forze Annate: cioè aveva a disposizione esercito, polizia, carabinieri e camicie nere. Per di più Roma era stretta nella morsa delle divisioni corazzate del maresciallo Kesselring, che aveva il suo quartier generale a Frascati. Nulla e nessuno, neanche il Re, avrebbe potuto impedire a Mussolini, se si fosse visto stretto alle corde, di fare appello ai tedeschi: e in tal caso, per i suoi avversari, sarebbe stata finita.

Poi, c’era la fedeltà, mescolata con la gratitudine. Molti degli uomini che formavano il Gran Consiglio, se non ci fossero stati Mussolini e il fascismo, non sarebbero stati nulla, e nel nulla sarebbero piombati dopo la caduta del regime. Grandi e Federzoni si rendevano conto di essere in una situazione abbastanza privilegiata, nei confronti del vincitore e della democrazia ch’esso avrebbe instaurato in Italia. Avevano ricoperto cariche importanti, ma godevano fama di persone moderate e perbene, che non si erano sporcate le mani nei delitti del regime e anzi avevano spesso assunto atteggiamento di dissenso: di fronte a nessun tribunale sarebbero comparsi come criminali di guerra. Ma per molti altri questa incertezza sulla propria sorte personale c’era.

I timori di Grandi.

Infine, bisognava fare i conti col fascino di Mussolini, che ne aveva, e con la ventennale abitudine dei suoi collaboratori a dargli ragione. Grandi e Federzoni ignoravano che cosa il Duce avrebbe detto il 24. Ma erano sicuri che avrebbe saputo parlare, come al solito, con autorità e abilità. Non si poteva escludere che anche fra coloro che avessero dato una preventiva adesione alla proposta Grandi, ci potessero essere delle resipiscenze.

Credo che siano stati tutti questi motivi a rendere particolarmente laboriosa la redazione dell’ordine del giorno, di cui Grandi aveva già in tasca la bozza. Si trattava di dirvi non soltanto ciò che bisognava dire, ma di dirlo in modo da smontare i timori per le conseguenze che dovevano scaturirne. Anche Bottai, subito convocato da Federzoni, fu di questo avviso e diede un sostanziale contributo alla compilazione del testo. Suggerì di premettere un saluto alle truppe combattenti e di sottolineare che la decisione da prendere era quella di restituire alla monarchia non tanto i suoi poteri, quanto le sue responsabilità, come per coinvolgerla ancora di più nel regime. Ma soprattutto, per prevenire ogni sospetto di congiura, fu deciso di agire alla luce del sole, di non fare nulla di nascosto e di mostrare a tutti, scopertamente, il testo della mozione. Infatti vennero chiamati Albini, sottosegretario agli Interni, e Bastianini, sottosegretario agli Esteri. Il primo si dichiarò subito d’accordo. Il secondo mostrò qualche perplessità perché frattanto aveva mandato a Lisbona un suo fiduciario a prendere contatto con gl’inglesi e avrebbe preferito conoscere prima il risultato. Ma poi approvò anche lui. Si divisero i compiti. Ognuno avrebbe pensato ad avvicinare e a convincere i propri amici. Grandi si sarebbe incaricato di Bignardi, De Bono e De Marsico. Bottai di Cianetti eccetera. Ma a questo punto saltò fuori il caso Ciano. Bottai si disse certo che anche lui avrebbe dato la sua adesione. Ma Grandi obiettò che non era il caso di chiedergliela: la partecipazione di Ciano non gli piaceva e avrebbe potuto sembrare a molti un gesto di slealtà familiare e sortire effetti controproducenti. Grandi inoltre non si fidava troppo di Ciano perché lo conosceva fatuo, incostante, mutevole. Così fu deciso di non informarlo.

«È ora che se ne vada».

Uscendo da quel convegno, Grandi volle, di propria iniziativa, tentare il test più impegnativo, anche se più pericoloso. Col suo ordine del giorno in tasca, andò da Scorza e glielo mostrò. Scorza era un «duro», o almeno per tale passava. Da qualche mese, Mussolini gli aveva affidato le redini del partito appunto perché lo considerava un «fedelissimo» deciso a tutto, intransigente e coraggioso. Letto il testo. Scorza disse: «Ma sì, è ora che se ne vada […]». Poi aggiunse: «Tu aprirai la discussione. Io la chiuderò proclamando, come segretario del partito, decaduta la dittatura».

Grandi uscì da quel colloquio trasecolato e sollevato. Informò subito Federzoni e Bottai, che si mostrarono non meno trasecolati e sollevati di lui. Ma intanto egli maturava un progetto ancora più audace che, se fosse riuscito, avrebbe risolto tutto: perché non parlarne addirittura a Mussolini e convincerlo a prendere egli stesso l’iniziativa?

L’indomani 22, a mezzogiorno, Mussolini sapeva già quello che Grandi aveva in animo di dirgli. Glielo aveva rivelato Scorza, mostrandogli la bozza dell’ordine del giorno, di cui si era fatto lasciare la copia. Lo racconta, nella sua Storia di un anno, Mussolini stesso: «Alle ore 12 di mercoledì 22, Scorza presentò a Mussolini l’ordine del giorno Grandi. Mussolini lesse il documento, lo definì inammissibile e vile, e lo pose nella sua cartella. Scorza parlò di un grave tradimento che si sarebbe verificato, ma Mussolini non vi diede molta importanza». Quale «grave tradimento» avrà mai segnalato Scorza? Quello a cui aveva egli stesso, poche ore prima, aderito?

Il Re promette.

La tranquillità del Duce aveva i suoi motivi. Il giorno prima aveva visto il Re che aveva chiuso il colloquio con queste parole: «Se, per ipotesi, tutti dovessero abbandonarla, io sarei l’ultimo a farlo. So quanto l’Italia e la dinastia le debbono…». Accolse quindi con scetticismo Farinacci, che era venuto subito dopo a palazzo Venezia a metterlo in guardia contro Grandi e la monarchia. Farinacci era proprio l’unico di cui non si fidava. Lo sapeva al servizio dei tedeschi, di cui il giorno prima aveva detto a Morgagni, presidente dell’agenzia Stefani: «Vogliono il comando effettivo di tutto il fronte italiano, anche di quello interno. E questa è una condizione che né il popolo italiano, né il Re, né il sottoscritto potrebbero mai accettare». Era l’eco dell’incontro di Feltre. Insomma Mussolini in quel momento aveva paura solo di Hitler e di Farinacci, e col Gran Consiglio voleva premunirsi contro di loro.

Quando seppe che Grandi chiedeva un colloquio, glielo fissò per il giorno stesso alle 16.30.

Quella mattina Grandi era stato al Senato a parlare col presidente Suardo, che, forse senza ben comprenderne il senso, aderì all’ordine del giorno. Poi, rientrando a Montecitorio, incontrò Farinacei che gli disse: » Sento in giro che state facendo qualcosa». Grandi trasse di tasca una copia della mozione e gliela consegnò. Farinacci la lesse e, a sua volta intascandola, disse: «Sarei d’accordo se non ci fosse quella clausola della restituzione dei poteri al Re». Pochi minuti dopo, quella copia era sul tavolo dell’ambasciatore tedesco von Mackensen.

Nella Sala del Mappamondo.

Arrivando a palazzo Venezia, Grandi vide che stavano già disponendo i tavoli per la seduta del Gran Consiglio, nella grande sala contigua a quella «del Mappamondo», ufficio personale del Duce. Era la sala del famoso balcone.

L’usciere Navarra aveva in mano un foglio su cui erano segnate le udienze col tempo predisposto per ognuna. C’era scritto: «S. E. Grandi, dalle 16,30 alle 16,40. Maresciallo Kesselring, dalle 16,40 alle 18».

Ma, invece di dieci minuti, il colloquio con Grandi durò un’ora e mezzo. Grandi non rivedeva Mussolini dal 26 marzo e sapeva che, comunque fossero andate le cose, quella era probabilmente l’ultima volta in cui sarebbero stati a tu per tu. C’erano, tra i due, rapporti complessi. Mussolini vedeva in Grandi il suo collaboratore più intelligente, ma anche il più pericoloso, che poteva diventare un rivale. E Grandi vedeva in Mussolini (lo disse a me a Lisbona nel ’46) «un padrone prepotente e vanitoso, che imponeva l’obbligo dell’adulazione e il dovere della disobbedienza». Una volta, appunto a una seduta del Gran Consiglio, Grandi si era divertito a disegnare la Torre degli Asinelli di Bologna, altissima, circondata da piccoli paracarri. Il Duce aveva voluto vedere il disegno e ne era rimasto molto lusingato. Ma poi, a quattr’occhi. Grandi gli aveva detto: «Bada, però: guardandoli dall’alto della torre, vien fatto di credere che i paracarri siano eguali. Ma è un errore: ce ne sono di più piccoli e di meno piccoli…».

L’illusione dell’arma segreta.

Del colloquio Grandi-Mussolini manca il testo e non ci sono testimonianze. Ma il fatto che durò un’ora e mezzo invece dei preventivati dieci minuti, convalida l’asserzione di Grandi che vi furono pronunziate «cose grosse». Mussolini lo aveva ricevuto in piedi, fissandolo con sguardo ostile. Gli disse che il partito esigeva severi provvedimenti contro di lui per il suo «atteggiamento oscuro e ambiguo di fronte alla guerra» e citò a riprova il rifiuto dell’ordine di parlare a Bologna e un telegramma precedentemente spedito da Grandi a Scorza, per invitarlo a citare, nei proclami al Paese, il Piave e Vittorio Veneto, invece degli stupidi motti del partito. «Il telegramma» rispose Grandi «era indirizzato a Scorza, ma diretto a te. Mi fa piacere che sia giunto a destinazione». Come sempre gli capitava quando mordeva il duro, Mussolini si smontò. Prese sul tavolo un foglio che Grandi riconobbe subito: era il suo ordine del giorno, certamente consegnategli da Scorza. Questo gli fece nascere il primo dubbio sulla lealtà del segretario del partito. Ma non ne rimase disorientato perché aveva già deciso di mostrargli il testo e illustrarglielo. Mussolini lo lasciò parlare, senza interromperlo nemmeno quando Grandi disse: «Non adunare nemmeno il Gran Consiglio. Va’ dal Re, restituiscigli «potere e suggeriscigli di formare un governo di coalizione nazionale, che dica al popolo di rimandare a dopo i conti coi responsabili perché per il momento bisogna salvare la casa che brucia. E tutti alle pompe, compresi noi». «Ho capito: una unione sacra da Orlando a Miglioli», ridacchiò Mussolini. «Esattamente», rispose Grandi; e gli anticipò gli argomenti che avrebbe addotto a difesa della sua mozione. Mussolini lo ascoltò con attenzione, poi concluse: «Forse avresti anche ragione, se la guerra fosse perduta. Ma non lo è. Tra poco i tedeschi ne rovesceranno le sorti con la loro arma segreta. Ne riparleremo posdomani sera in Gran Consiglio».

Kesselring seccato.

Uscendo, Grandi vide i tavoli ormai sistemati a ferro di cavallo nella grande sala. Ci stava seduto, con aria seccata, un maresciallo della Wehrmacht, che Grandi non conosceva. Era Kesselring, che aspettava da più di un’ora. Egli era stato il primo ad assidersi al tavolo del Gran Consiglio che doveva proclamare la fine della dittatura fascista.

Che Grandi abbia detto a Mussolini ciò che ho riferito, lo so dallo stesso Grandi, ma non è attestato da nessun documento e quindi si potrebbe dubitarne se non ci fosse, a provarlo, un particolare indubitabile. Poco dopo il colloquio a palazzo Venezia, Grandi incontrò Farinacci che gli disse: «Torno ora dal Duce, che mi ha detto della tua visita. Cosa sei andato a raccontargli?». «Esattamente quello che gli ripeterò dopodomani». «Non è vero» esclamò Farinacci trionfante. «Mussolini mi ha dichiarato che non gli hai detto nulla». «Ah, no?» ribatté Grandi. «Allora dopodomani comincerò il mio discorso ricordando al Duce di avergli già detto quello che dirò. Delle due, l’una: o lui mi smentisce, e allora vuol dire che io sono un bugiardo; o non mi smentisce, e in tal caso è bugiardo lui, o sei un bugiardo tu».

Morso dal dubbio, Grandi tornò da Scorza per indagare ancora le sue intenzioni. Lo trovò più deciso che mai a firmare il suo ordine del giorno. «Sta tranquillo» gli disse «ti appoggerò fino in fondo». Grandi gli chiese di far mettere alla seduta uno stenografo per fissare il dibattito. Scorza rispose di averlo già proposto al Duce, che si era rifiutato.

La parte di Ciano.

Intanto, il gruppo dei favorevoli si allargava. Bottai portò l’adesione di Balella e di Cianetti, sebbene quest’ultimo mostrasse qualche perplessità. Bignardi garantiva per De Bono, ma Grandi consigliò di informare il vecchio maresciallo solo poche ore prima del dibattito: impulsivo come era, poteva prendere qualche iniziativa pericolosa.

Poi si ripresentò il caso di Ciano su insistenza di Bottai, che, sebbene lo negasse, doveva avergliene già parlato e ad ogni modo gli aveva dato appuntamento in casa propria. Sia pure a malincuore, Grandi andò. Fra i due non c’era buon sangue. Come diplomatico e ministro degli Esteri, Ciano non aveva mai raggiunto l’alto rango di Grandi e la sua posizione di prestigio e di stima nel campo internazionale. Anche il suo Diario rivela gelosia e ostilità verso il rivale. Il colloquio tuttavia fu cordiale, Ciano diede la sua adesione e l’indomani portò anche quella dell’ambasciatore Alfieri, convocato da Berlino. «Badate però» disse Alfieri «che i tedeschi non ce la perdoneranno. La loro vendetta sarà spietata».

Così si era arrivati al 24, e non tutti i ventotto membri erano stati interpellati. A parte gli otto di cui era previsto il diniego, non c’era stato il tempo di avvicinare alcuni di coloro che potevano dare l’adesione, come Acerbo, Rossoni, De Stefani, Pareschi, Gottardi. Per di più, anche l’adesione di coloro che l’avevano data era rimasta generica e «di massima», senza formale impegno. Ma c’era anche un’altra cosa da segnalare, a smentita della leggenda del «complotto» che poi doveva costare la vita agli imputati del processo di Verona: che nessuno di coloro che si preparavano alla battaglia aveva cercato e avuto contatti con l’ambiente di corte e coi militari. Soltanto Ciano era stato informato del complotto militare da Castellano, che gliene aveva mostrato il piano (e questo dica con che leggerezza agivano questi generali di Mussolini). Ma non ne aveva parlato con nessuno. Tant’è vero che, solo pochi minuti prima che la seduta del Gran Consiglio si aprisse, Grandi scrisse questo biglietto ad Acquarone:

«Caro Acquarone, desidero che S. M. il Re conosca questo ordine del giorno che in questo momento mi reco a sottoporre al Gran Consiglio a palazzo Venezia. Non soltanto come presidente dell’assemblea legislativa, ma come italiano e come soldato, oso supplicare sua maestà in questa ora così grave e decisiva per le sorti della nazione e della monarchia, di non abbandonare la patria. Questo domando al re del 24 maggio, del convegno di Peschiera, del Piave e di Vittorio Veneto».

Però, prima di spedirlo, si assicurò ch’esso fosse recapitato dopo che la seduta era già iniziata. Dov’era dunque il «complotto»? Il Re ne era stato tenuto rigorosamente al di fuori; e se qualcosa aveva saputo, la aveva saputo da indiscrezioni che non lo impegnavano a nulla. Nessun militare era stato interpellato. Gli uomini che alle diciassette del giorno 24 varcarono il portone di palazzo Venezia erano soli, agivano in proprio senza poter aspettare nulla da nessuno, e il dittatore che stavano per affrontare era esattamente informato delle loro intenzioni, aveva da due giorni il testo della mozione e conosceva perfino gli argomenti con cui il suo ispiratore l’avrebbe illustrata e sostenuta. Tutto si può dire degli uomini del 25 luglio, meno ch’essi abbiano agito a tradimento. Tant’è vero che Bottai, varcando la soglia di palazzo Venezia e vedendone l’androne e le scale formicolanti di militi armati fino ai denti (ce n’era un battaglione), disse a Grandi: «Bell’affare hai fatto a parlargliene. Ora, eccoci in trappola!».

Generali «traditori».

Poco dopo le 17 di sabato 24 luglio 1943, Mussolini entrò nella sala dove lo attendevano i ventotto convocati, tutti in sahariana nera, meno De Bono che non rinunciava mai alla sua divisa di Maresciallo d’Italia. Anche lui era in uniforme di comandante generale della milizia, e aveva una cartella nera sotto il braccio. Scorza diede il «saluto al Duce», e questi invitò tutti a prendere posto. La disposizione delle precedenze era regolata da un rigido protocollo. Mussolini stava al centro del tavolo di vertice, su un podio rialzato. Alla sua destra sedevano i due superstiti quadrumviri (De Bono e De Vecchi); alla sua sinistra il segretario del partito e il presidente del Senato, Suardo. Poi, tutti gli altri, scaglionati sui lunghi tavoli laterali del ferro di cavallo. Il podio rialzato del Duce era la traduzione in termini scenografici della posizione che Mussolini aveva sempre mantenuto e voleva conservare in questi consessi: quella di un arbitro al di sopra di una mischia in cui non si era mai fatto coinvolgere e di cui si riserbava il finale regolamento. Grandi mi ha detto che questo particolare fece sentire il suo peso durante la discussione. Da vent’anni Mussolini non era più allenato ad affrontarne. Faceva discutere gli altri. Li ascoltava. Poi decideva. E cosi si preparava a fare anche stavolta, dopo avere impostato il dibattito sul tema cui evidentemente intendeva circoscriverlo: la situazione militare.

Pantelleria come Stalingrado.

Ne parlò per tre quarti d’ora, con franchezza. Riconobbe che le cose andavano male (poche ore prima era caduta Palermo), ma aggiunse che andavano male perché si era disobbedito ai suoi ordini. «Pantelleria» disse «poteva essere la Stalingrado del Mediterraneo. Purtroppo, solo Stalin e il Mikado dispongono di generali pronti anche a morire». Di qui passò a una severa requisitoria contro il comando italiano, lo chiamò «un pugno di traditori», tacciò di viltà anche Graziani. E a mo’ di contrappunto, intonò l’elogio dei tedeschi, capi e gregari, di cui esaltò l’eroismo e la lealtà.

Mentre parlava. Grandi e Federzoni si scambiarono sguardi allarmati. Mussolini si preparava a far approvare dal Gran Consiglio la decisione di consegnare il nostro esercito a Kesselring, come Hitler gli aveva suggerito a Feltro? Ancora oggi c’è qualche ragione di sospettarlo.

Dopo il Duce, prese la parola De Bono in difesa dei nostri soldati. Il quasi ottantenne Maresciallo aveva dato un’adesione di massima a Grandi. Ma forse fu l’indignazione per le parole di Mussolini a dargli il suggerimento decisivo. Disse che i nostri soldati si battevano male perché non avevano armi per farlo, che la colpa delle loro sconfitte andava attribuita soltanto a chi li aveva scaraventati nella guerra in quelle condizioni (cioè il Duce) e che, quanto ai tedeschi, ci avrebbero aiutati solo finché gli avesse fatto comodo. Dopodiché, si addormentò e si svegliò solo dieci ore dopo, al momento della votazione. Le sue parole però avevano scatenato la reazione di Farinacei che rinnovò ancora più violento l’attacco ai generali italiani e ai sabotatori dell’alleanza con la Germania. «Bisogna» disse «chiarire una volta per sempre questa ambigua situazione». E propose di convocare davanti al Gran Consiglio il capo di Stato maggiore, generale Ambrosio.

La proposta cadde per l’opposizione di Federzoni, ma la seduta stava prendendo una piega che Grandi non aveva previsto. Tutti sentivano che ora toccava parlare a lui, ma egli non voleva farlo, prima che la discussione fosse disincagliata dai problemi militari. Ci fu una pausa. Tutti guardavano Grandi, che guardò Bottai. Questi capì a volo, e chiese la parola. Disse che il Gran Consiglio non si era adunato per giudicare la condotta dei generali: ciò non faceva parte delle sue competenze. Queste erano soltanto politiche, e sul piano politico il dibattito doveva tornare. Questa fu una delle svolte decisive della seduta. Se Mussolini e Farinacei fossero d’accordo nell’indirizzarla su un’analisi della situazioni militare e basta, non si è mai saputo. Comunque, agirono come se Io avessero effettivamente concertato e Farinacci tentò di insistere rinnovando la sua proposta di convocare Ambrosio, ma inutilmente.

Requisitoria con due bombe in tasca.

Si alzò a parlare Grandi, erano già trascorse due inutili ore. «Ciò che sto per dire» cominciò «non è rivolto a te. Duce, che già lo sai per avertelo io stesso ampiamente illustrato l’altro ieri…». E, fissando Farinacci, fece pausa, per dare tempo a Mussolini di smentirlo. Ma Mussolini non smentì, e Grandi continuò: «E rivolto a voi, camerati…». Parlò un’ora e mezzo, senza nemmeno consultare appunti, tanto aveva maturato quello che doveva dire. Di scritto, aveva solo l’ordine del giorno, che lesse subito. Poi cominciò a svilupparlo punto per punto. Sapeva che questa era l’operazione più pericolosa. Più d’uno forse aveva aderito alla sua mozione senza rendersi esatto conto di cosa significasse e implicasse. Ora che bisognava dirlo senza reticenze, forse qualche alleato certo sarebbe diventato incerto; e qualche incerto, avversario. «E possibile» gli aveva detto poco prima Bottai «che rimaniamo in tre soli: tu, io e Federzoni. Ma andremo ugualmente fino in fondo». Perciò, prima di andare a palazzo Venezia, Grandi si era messo in tasca due bombe Breda. Se fossero rimasti in tre soli, quelle bombe sarebbero state probabilmente l’ultimo argomento. Ma, mettendosi a sedere, ne aveva passata sotto il tavolo una a De Vecchi, che l’aveva presa dicendo: «Ma sì, dammela. Mi ricorda il mio passato di ardito».

Grandi fu di una veemenza corretta soltanto dall’abilità. Fece una sottile distinzione fra regime e dittatura. Disse che il primo si poteva salvare solo sacrificando la seconda, e contrappose Mussolini a Mussolini, invitandolo a strapparsi la greca di Maresciallo e a ridiventare solo il primo ministro del Re. «Che noi vogliamo tradire il nostro Duce» disse fissando negli occhi Farinacci «è soltanto l’interpretazione di qualche pretoriano ignorante. Noi rivogliamo soltanto il Mussolini che eleggemmo nostro capo nel ’19, quello che ci disse: “Periscano tutte le fazioni, anche la nostra, purché la Patria sia salva!”. È l’ora di tener fede a questo impegno». L’unico modo di farlo, disse, era che il supremo organo del regime, il Gran Consiglio, assumendo tutte le responsabilità della disfatta, proclamasse decaduta la dittatura e restaurasse la costituzione. «E l’ultimo servigio, ma anche il più grande, nobile e disinteressato che possiamo rendere al Paese». Che cosa sarebbe accaduto dopo, concluse, non lo sapeva nemmeno lui. Ma non c’erano alternative e bisognava avere fiducia nella saggezza del Re e nel patriottismo degli italiani.

Carte sul tavolo.

Ci fu silenzio. Ora le carte erano sul tavolo, ben scoperte. Nessuno poteva più equivocare sul significato dell’ordine del giorno di Grandi. Non poteva più equivocare nemmeno Mussolini, che per la prima volta dopo vent’anni si vedeva direttamente tratto in causa e costretto ad affrontare di persona la lotta. Furono in pochi a prendere posizione prima che egli si fosse pronunciato. Lo fece Farinacci, per ribadire il suo punto di vista. Lo fecero Federzoni e De Marsico, per appoggiare Grandi, Lo fece Biggini, per contestare che il Gran Consiglio avesse competenza a decidere in materia costituzionale. Biggini era ministro della Pubblica Istruzione, e Grandi sperava che si sarebbe schierato dalla sua parte. Invece se lo trovò contro, e armato dell’argomento più insidioso. Chissà quanti altri su cui si faceva assegnamento, lo avrebbero seguito. Gli rispose De Marsico, con molta pertinenza, e chiese a tutti di avere il coraggio della propria responsabilità. Poi prese la parola Ciano. Grandi non contava su di lui. Sebbene avesse dato la sua adesione, era convinto che all’ultimo momento l’avrebbe ritirata. Invece, con pacatezza e con molta deferenza verso il suocero, ma con altrettanta fermezza. Ciano disse che non c’era ragione di restare fedeli a una alleanza, di cui il vero traditore era sempre stato Hitler.

Ed enumerò, documenti alla mano, gli impegni diplomatici e militari cui la Germania aveva contravvenuto. Il suo intervento forse fa decisivo per la sorte di Gottardi e di Pareschi che, partecipando per la prima volta al Gran Consiglio, dovettero pensare: «Be’, se anche il genero del Duce è d’accordo…».

Ci furono ancora altri interventi: De Stefani per Grandi, Polverelli contro. Poi prese la parola Galbiati, capo di Stato Maggiore della Milizia. La sua fu un orgia di retorica sul popolo italiano «smanioso di combattere e vincere agli ordini del Duce», ma si concluse con un ricattatorio accenno ai militi che bivaccavano nell’anticamera. Parlarono Bignardi in favore di Grandi, Frattari contro.

Noi discutiamo e i soldati muoiono.

Ma tutti ormai aspettavano la replica di Mussolini. Questi aveva ascoltato con insolita pazienza e senza dare il minimo segno di dispetto o di disprezzo. Non è vero che aveva voltato le spalle di tre quarti a Grandi. Al contrario, gli aveva sempre tenuto gli occhi negli occhi, ma senza intenzione intimidatorie. Ora però guardò l’orologio, vide che erano le undici e mezzo, vergò qualche parola su un foglio e lo passò a Scorza, che lesse e fece col capo un cenno affermativo. «Data l’ora tarda» disse «il segretario del partito propone che la seduta venga sospesa e rinviata a domani». Era invece lui a chiederlo, e tutti avevano visto la manovra. Grandi intuì il pericolo. In ventiquattr’ore poteva succedere di tutto: anche che il Gran Consiglio venisse sciolto. Si alzò di scatto e disse con violenza: «Mentre noi discutiamo, vi sono soldati italiani che muoiono. Dovessimo restare qui una settimana, non ci muoveremo prima di aver preso una decisione». Come al solito, Mussolini gli aveva tenuto gli occhi negli occhi. Rifletté un poco, poi disse: «Va bene. La seduta è sospesa per venti minuti, dopodiché la discussione riprenderà, e passeremo ai voti». Si alzò, scomparve nel suo ufficio, seguito da Scorza.

Nessuno ha mai capito che cosa pensasse e quali decisioni avesse maturato. Aveva subito senza reagire critiche violente. Ora non aveva insistito per il rinvio rinunziando a contestare il diritto del Gran Consiglio a esprimere un voto. Solo su questo, se voleva, poteva impiantare una discussione interminabile e senza costrutto, in cui l’ordine del giorno Grandi si sarebbe fatalmente insabbiato. Qual era dunque il suo piano? Su cosa contava?

Se entrano i miliziani.

Qualcuno, vedendolo uscire così senza lotta, pensò che non sarebbe più rientrato in sala, che al suo posto sarebbero venuti a sgombrarla i militi di Galbiati. Doveva pur essersi accorto che le sorti del dibattito erano, a dir poco, incerte. Ma, forse, dopo venti anni di dittatura assoluta, non riusciva più nemmeno a immaginare che un’opposizione avrebbe potuto resistergli. Questo aveva detto, del resto, al generale Chierici, capo della polizia, che era venuto a metterlo sull’avviso contro Grandi: «Non datevi pensiero. Chierici. Sono uomini scarsi d’intelligenza e di coraggio, che ricondurrò all’ovile come e quando voglio…». La più grande gioia che il potere aveva sempre procurato a Mussolini era quella di disprezzare chi gli obbediva. E nemmeno in quell’emergenza riusciva a rinunziarci. Eppoi, era sicuro del Re, che tre giorni prima gli aveva detto quello che gli aveva detto.

Quando rientrò. Grandi aveva raccolto le firme sul suo ordine del giorno. Erano venti. Nel momento in cui Ciano stava per apporre la sua, Grandi lo aveva fermato: «No» gli disse «tu no, non farlo…». Ma Ciano l’aveva apposta ugualmente, quasi con rabbia. Aveva sempre avuto il «complesso del genero», il timore che gli uomini della vecchia guardia lo considerassero un parvenu per ragioni di famiglia e basta. Una volta che, in sua presenza. Grandi aveva detto scherzando a Balbo: «Noi che siamo due vecchi arnesi del regime…», era insorto: «E io? Forse che io non lo sono?». Ora, ci saranno state anche altre ragioni a ispirargli quel gesto che doveva costargli la vita. Ma certamente ci fu quella di essere stavolta fra «quelli della prima ora». Un’altra firma che aveva stupito Grandi era quella di Marinelli, l’ex- segretario amministrativo del partito. L’aveva apposta senza esserne nemmeno richiesto. Venti firme, dunque. Cinque più del necessario. Ma molte erano state vergate da mani esitanti, e il Duce doveva parlare.

Egli parlò dopo brevi interventi di De Stefani, Bastianini. Albini. E fu il Mussolini stregone di una volta, suadente, autoritario e patetico insieme. Non è vero che tenne sempre una mano sulla borsa di cuoio come per minacciare tacitamente i convenuti di produrre documenti che provavano loro responsabilità e debolezze. Di documenti, ne produsse uno solo, per dimostrare che il comando supremo non lo aveva voluto lui: glielo aveva offerto, e quasi imposto, il maresciallo Badoglio, con una lettera servile che suscitò il disgusto di tutti.

“Sono l’uomo più odiato d’Italia».

Messo a segno quel colpo, passò a discutere la questione politica, negando che vi fosse frattura fra popolo e regime. Solo le classi alte borghesi, disse, sono ostili al fascismo. Era la sua fissazione, in cui rispuntava la mitologia del suo vecchio socialismo massimalista. Nella sua Storia di un anno affermò di aver detto: «So di essere in questo momento l’uomo più odiato d’Italia». Non è vero. Disse anzi il contrario: che il popolo, «il vero popolo», era con lui. D’altra parte, disse, i vascelli ormai sono bruciati: Italia, regime, dittatura e Mussolini sono inseparabili, e tali li considera anche il nemico. Per questo, disse, devo restare al mio posto. Se fosse per me, potrei anche andarmene. «Fra pochi giorni compirò sessantanni, e potrei chiudere questa “bella avventura” ch’è stata la mia vita. Ma sarebbe una diserzione oltre tutto gratuita, perché noi vinceremo la guerra.» Fece questa affermazione in tono di tranquilla sicurezza. Disse che non poteva rivelare i segreti militari che il Fuhrer gli aveva confidato; ma ch’essi non lasciavano adito a dubbi. Dopodiché enunciò le due ipotesi che si potevano verificare, se la mozione Grandi veniva approvata. «Il sovrano», disse (era la prima volta che pronunciava questa parola. Lo aveva sempre chiamato «Vittorio Emanuele» e, quando ne parlava fra intimi, «Sciaboletta») «il Sovrano può accettare anche lui la mozione Grandi: e in tal caso nascerebbe il mio caso personale, perché io non sono affatto disposto a lasciarmi iugulare (e con la mano fece il segno di chi si sgozza). Ma il sovrano non lo farà: proprio tre giorni orsono si è impegnato a restare con me, fino in fondo. E allora nasce il caso vostro. Quale sarà la vostra posizione? Fate attenzione, signori!».

Questo fu il punto critico della seduta. Alle parole di Mussolini seguì uno sgomentato silenzio. Come al solito, egli aveva parlato da maestro, dosando alla perfezione lusinghe e minacce e appellandosi con uguale efficacia ai sentimenti migliori e a quelli peggiori: la lealtà e la paura. Forse non tutti credettero alla promessa della vittoria..Ma gli anglo- americani erano ancora in Sicilia; a Roma c’erano Kesselring e il Re. Se anche il Re era con il Duce, a cosa avrebbe condotto la ribellione?

L’estremo ricatto.

Grandi tentò di diradare quell’atmosfera di intimidazione. «Ponendoci alla scelta tra la fedeltà alla patria e la fedeltà a lui» gridò «il Duce esercita un ricatto. Ma noi non possiamo esitare: siamo fedeli alla Patria». E con lo sguardo invitò Scorza a prendere posizione. Il segretario del partito era in quel consesso la più alta autorità, dopo il dittatore. E tutti sapevano che, dopo aver dato l’adesione a Grandi, l’aveva confermata. Ma in mezzo al generale sbigottimento. Scorza pronunciò una violenta requisitoria contro i «traditori», dai quali la rivoluzione, disse, aveva il diritto di difendersi e si sarebbe difesa. Dopodiché lesse un suo ordine del giorno per il conferimento di maggiori poteri al Duce e invitò l’assemblea ad approvarlo all’unanimità. De Marsico, che sedeva accanto a lui, vide che sul testo c’erano correzioni a matita rossa di Mussolini. I due lo avevano preparato di comune accordo durante l’intervallo.

Gli effetti di quell’intervento furono catastrofici. Con le lacrime agli occhi, come quando aveva dato la sua adesione a Grandi, Suardo dichiarò che la ritirava. E uno, Cianetti, disse che in quell’ora grave e solenne c’era bisogno anzitutto di concordia, e per raggiungerla propose che i due ordini del giorno fossero frisi, cioè invitassero nello stesso tempo il Duce ad andarsene e a restare. E due. Ciano caldeggiò subito l’idea di quell’assurdo peteracchio, all’italiana. E tre. La frana sembrava inarrestabile. La fermò Bottai prevenendo altri interventi. «Voterò l’ordine del giorno Grandi» disse «dovessi rimanere il solo a farlo. Non ritirerò una sola parola di quanto ho detto. Sentirei, facendolo, solo disprezzo verso me stesso.» Era un disperato appello alla dignità e al coraggio di quanti avevano già firmato, e ottenne il suo effetto.

Una discussione si accese che degenerò in alterco e diede modo agli oppositori di rianimare il loro ardore polemico. Galbiati ne approfittò per abbandonare la sala. Rientrandovi poco dopo, chiese teatralmente a Mussolini il permesso di fare entrare i militi che bivaccavano per le scale. Il Duce lo fermò con un gesto. Stava parlando in quel momento Tringali-Casanova, presidente del tribunale speciale: «I membri del Gran Consiglio» disse «ponderino bene le loro responsabilità prima di dare il voto». Era il preannunzio del processo di Verona, e Mussolini dovette ritenere che avesse dato il colpo di grazia alle residue esitazioni. A qualificarsi come oppositori decisi erano stati pochi, in fondo: Grandi, Bottai, Federzoni. De Marsico, De Bono, De Stefani, Albini, Bastianini, Bignardi. I più non avevano interloquito, e il duce non dubitava di averli ormai in pugno. Anche Grandi ne era convinto, quando riprese la parola per dire, in sostanza, che a un certo punto nella vita bisogna anche saper morire per guadagnarsi il rispetto delle generazioni successive. «Il partito è defunto, la dittatura è sconfitta. Solo chiudendo i suoi conti con un gesto di coraggio, il fascismo potrà salvarsi da un giudizio soltanto negativo e mettere al sicuro ciò che ha fatto di bene». Era un invito al sacrificio. Lo raccolsero i soliti Federzoni, Bottai, De Marsico, De Stefani. Lo contestarono violentemente Scorza, Farinacci, Polverelli, Frattari. Ma coloro che avevano taciuto seguitavano a tacere, ed erano la maggioranza. Con lo sguardo, Scorza interrogò Mussolini, che gli fece un gesto di assenso. Il segretario del partito era così sicuro della vittoria che indisse la votazione sull’ordine del giorno Grandi: non perché era stato presentato per primo, forse, ma perché su di esso si poteva meglio accertare la prova del «tradimento». Lo rilesse ad alta voce, sottolineandone i passi decisivi. Poi, invece di interpellare anzitutto i due quadrumviri, com’era nella prassi, interpellò se stesso, si rispose con uno stentoreo: «No!», e fissò in volto tutti i presenti. Seguitando a sovvertire la regola, chiamò poi Suardo, che avrebbe dovuto essere il quarto. «Mi astengo», confermò il presidente del Senato. Ora però non poteva fare a meno di rivolgersi a De Bono che,dopo il suo iniziale intervento, aveva saporitamente dormito.

De Bono si sveglia.

Il vecchio Maresciallo spalancò occhi e ugola per pronunciare con voce tonante: «Sì». De Vecchi gli fa eco. Gli fanno eco Grandi, Federzoni e De Marsico. Biggini dice: «No». Ma la sua voce è coperta da quella di Acerbo, che dice: «Sì». Dicono «sì» anche Cianetti e Pareschi, che sembravano fra i più tentennanti. Che succede? Succede che, al conto finale, su ventotto votanti, ci sono diciannove «sì», sette «no», un’astensione (Suardo), e un voto di Farinacci al proprio ordine del giorno, cui ha aderito solo lui. Mussolini, più che sbigottito, sembra incredulo. Si fa ripetere il conteggio. Poi chiede dopo una pausa: «Chi porterà al Re quest’ordine del giorno?». «Tu», rispose Grandi. Mussolini fissa gli astanti come se stentasse a riconoscerli. Poi, alzandosi con fatica, pronuncia lentamente: «Avete provocato la crisi del regime». E con un gesto arresta Scorza che sta per lanciare il rituale «saluto al Duce».

Se ne andò così, lentamente, seguito dai pochi che avevano votato per lui, in mezzo a un gran silenzio, che nessuno turbò nemmeno dopo la sua uscita. I vittoriosi erano rimasti soli, in quella grande sala dove nessuno di loro sarebbe mai più entrato. Ma non ci furono tra loro né congratulazioni né commenti. Si salutarono senza parole, con una stretta di mano, la prima che si scambiavano da quando Starace ne aveva bandito l’uso. Sapevano benissimo che la loro vittoria era un suicidio riuscito. Scendendo le scale da soli o a piccoli gruppi, dovettero scavalcare i corpi dei militi addormentati sui gradini.

Inutili consigli al Re.

Non so cosa fecero, nelle ore successive, i protagonisti di quella notte. So solo che Farinacci si precipitò dall’ambasciatore tedesco von Mackensen a informarlo dell’accaduto e a chiedergli rifugio; Bottai, Bastianini e Bignardi si riunirono in casa Federzoni per ricostruire la seduta sulle note e gli appunti che avevano preso; Grandi era impegnato in un’altra battaglia.

Rientrato a Montecitorio mentre albeggiava, il suo segretario Talvacchia gli disse che Acquarone non aveva fatto che tempestare al telefono durante l’intera notte. Grandi gli diede appuntamento in casa di Mario Zamboni, con cui era già d’accordo, e che fu testimone del colloquio dalle quattro alle sei del mattino. Grandi riassunse rapidamente il dibattito, consegnò perché fosse rimesso al sovrano il secondo esemplare dell’ordine del giorno firmato dai diciannove, e pregò Acquarone di riferire al Re quanto segue:

1) Il Gran Consiglio, come organo supremo del regime, era costituzionalmente qualificato a proclamare la fine della dittatura, e lo aveva fatto restituendo alla Corona i pieni poteri.

2) Dalla discussione era emerso che Mussolini, Scorza e Farinacci non accettavano il fatto compiuto, quindi non c’era un’ora da perdere per impedire ch’essi preparassero qualche sorpresa, magari d’accordo con i tedeschi.

3) In ogni caso, una reazione della Gennania era inevitabile e perfino desiderabile. Aggrediti, gl’italiani si sarebbero trovati automaticamente in guerra con essa, e ciò avrebbe reso assurda e insostenibile la pretesa degli Alleati di una «resa incondizionata». Gli anglo-americani, in luogo di combattere contro di noi, si sarebbero trovati automaticamente costretti ad accorrere per sostenerci e combattere al nostro fianco contro il nemico comune.

4) Bisognava stabilire con gli Alleati un contatto immediato: e ciò imponeva la formazione di un governo che non prestasse il fianco ad accuse di fascismo. Grandi proponeva di affidarlo al Maresciallo Caviglia, glorioso soldato, che non era mai sceso a compromessi con il regime, e come ministro degli Esteri suggeriva Alberto Pirelli, che gli inglesi conoscevano e stimavano. Quanto a sé stesso, offrì i propri servigi come agente di collegamento (ma senza apparire) con Sir Samuel Hoare, ambasciatore britannico a Madrid, suo vecchio amico. Non poteva e non doveva fare di più. Grandi mise inoltre in guardia sopra i pericoli di un colpo di mano militare, che avrebbe abbassato l’Italia al livello del Nicaragua e si dichiarò pronto a convocare le Camere per il giorno seguente, allo scopo di dare legittimità al nuovo governo che sarebbe stato nominato dal Re, evitando così che si determinasse una pericolosa soluzione di continuità nella nostra vita costituzionale.
Queste proposte furono fatte davanti a Mario Zamboni, e dimostrano come gli uomini del Gran Consiglio fossero del tutto all’oscuro di ciò che i militari stavano tramando e purtroppo avevano già deciso. Grandi ne ebbe il sospetto quando Acquarone gli obiettò che forse Badoglio era meglio di Caviglia. Grandi gli riferì il contenuto della lettera servile di Badoglio che Mussolini aveva letto in Gran Consiglio e dalla quale risultava che era stato Badoglio a prendere l’iniziativa perché fosse tolto al Re il comando delle Forze Armate, secondo l’articolo 5 dello Statuto, e attribuito a Mussolini; e gli ricordò tutte le sostanziose prove di docilità e complicità che il Maresciallo aveva dato al regime. Acquarone non insisté. Ma, alzandosi, disse: «Be’, speriamo che finalmente il Re si decida ad agire».

Come poi abbia agito, purtroppo lo abbiamo visto tutti. Il Re non tenne nessun conto di ciò che Grandi aveva raccomandato ad Acquarone, ammesso che costui glielo abbia riferito; anzi il Re fece esattamente il contrario.

Il dramma della «guerra continua».

Il «piano» di Grandi tendeva a far uscire l’Italia dalla guerra col minor danno possibile: era un piano temerario, ma il solo che nelle condizioni in cui l’Italia era venuta a trovarsi nel luglio 1943 poteva funzionare. Se il Re l’avesse accolto e adottato coraggiosamente, l’Italia avrebbe evitato la vergogna dell’8 settembre. Si trattava di resistere all’aggressione tedesca che si sarebbe indubbiamente manifestata e che infatti si manifestò fin dal 26 luglio, giorno in cui i primi rinforzi della Wehrmacht attraversarono le nostre frontiere.

La nazione non avrebbe evitato il suo calvario, ma sarebbe rimasta unita e il suo schieramento automatico coi vincitori avrebbe avuto luogo combattendo: il che avrebbe reso assurda e inoperante la richiesta di resa incondizionata. Era quello che aveva fatto la Jugoslavia nel marzo-aprile 1941, acquistando con ciò automaticamente il diritto di venire considerata, a guerra finita, tra le potenze vincitrici.

Invece il Re nominò Badoglio, il quale cominciò con il suo proclama: «La guerra continua e l’Italia rimane fedele alla parola data…», addossando in tal modo alla nazione una responsabilità che la nazione non aveva, che lo stesso Mussolini aveva sempre rivendicato a sé e della quale i diciannove firmatari dell’ordine del giorno Grandi avevano inteso liberare l’Italia operando così come fecero in Gran Consiglio. Nessun errore più deleterio per l’Italia e più gravi, disastrose conseguenze poteva avere, così come ebbe, quel disgraziato proclama, il quale ebbe il risultato immediato di «liberare» non il popolo italiano bensì gli anglo-americani dall’impegno solenne di considerare il fascismo e non la nazione italiana responsabile della guerra disastrosa.

Badoglio si rivelò dunque una vera disgrazia nazionale e invece di assumere subito una posizione chiara per disarmare le pretese di «resa incondizionata», tentò il doppio giuoco, illudendosi di fare della penisola una specie di Città del Vaticano allargata, coi tedeschi confinati al Nord, e gli anglo-americani in Sicilia. Certo, era difficile, in quella situazione, far bene le cose. Ma era materialmente impossibile farle peggio di come furono fatte. E questo Io si deve al duca Acquarone e ad alcuni militari, con cui è tempo di regolare i conti, almeno in sede storica.

Non vorrei trovarmi qui in polemica col mio amico e collega Paolo Monelli, cui si deve la più bella ricostruzione di quegli avvenimenti. Il suo libro Roma ’43 è un modello di grande réportage, e fa ancora premio, come ricchezza d’informazione e equilibrio di giudizio, sui mille « memoriali» che Io hanno seguito.

Purtroppo, fu scritto in un momento in cui non c’era altra fonte d’informazione che quella dei generali di palazzo Vidoni, che erano poi i generali di Mussolini. Monelli se ne servì col suo abituale acume e la sua sagacia, vagliando tutti i dati e non accogliendone nessuno che non fosse esatto, ma la tesi ch’essi servivano era parziale e tendenziosa. Essa mirava a togliere qualsiasi valore alla seduta del Gran Consiglio, anzi a farla apparire quasi come un elemento di disturbo nel piano tipo messicano ordito da alcuni generali per liquidare il regime e licenziare Mussolini. Badoglio proibì addirittura che la notizia del voto di palazzo Venezia fosse diramata alla stampa, e Grandi dovette rivolgersi agli ambasciatori di Spagna e di Svizzera per portarla a conoscenza del pubblico internazionale. Pur di appropriarsi il merito dell’abbattimento del fascismo, i generali non vollero ammettere ch’esso si era volontariamente suicidato, senza capire che il suicidio avrebbe avuto sugli Alleati un effetto molto più rassicurante e persuasivo di un colpo di Stato, ispirato dalla paura di un dittatore e di una dittatura, di cui il fascismo stesso aveva decretato la fine. E da quel momento cominciò la lotta delle indiscrezioni e dei memoriali per soffocare la verità.

Così si è accreditata la leggenda che la sorte di Mussolini era già stata decisa prima che il Gran Consiglio si riunisse; che tutto fosse già pronto per arrestare il Duce il 26; che Grandi e i suoi alleati abbiano agito precipitosamente per «inserirsi» nella manovra e nella nuova combinazione ministeriale che ne sarebbe derivata, e che l’unico risultato della loro mozione sia stato quello di far anticipare di un giorno il colpo a sorpresa contro il Duce.

Il piano dei militari.

Ristabiliamo la verità dei fatti. È vero che da parecchio tempo Acquarone complottava con alcuni generali, i quali poi erano soltanto tre: Ambrosio, Castellano e Carboni, i cosiddetti generali di palazzo Vidoni. A questa congiura l’intero esercito italiano colle sue gerarchie rimase estraneo e lontano. E vero anche che questi generali avevano preparato un piano per arrestare Mussolini e che avevano già parlato con alcuni di coloro che dovevano assumere il potere: per esempio, con l’ex-capo della polizia Senise. È vero altresì – ce lo conferma nel suo diario lo stesso generale Puntoni, aiutante di campo del Re – che due di questi congiurati, i generali Castellano e Carboni, si erano addirittura autonominati nel futuro governo militare, il primo ministro degli Esteri, il secondo ministro per la Stampa e Propaganda, e dovette essere proprio il Re, il 26 luglio, a cancellare i loro nomi dalla lista dei nuovi ministri che Badoglio si recò al Quirinale a sottoporgli. Però, al complotto, mancava ancora la cosa più importante: il «via» del Re, in nome del quale io si era ordito. Il Re sapeva di quella congiura e non aveva fatto nulla per impedirla. Ma non aveva mai fatto nulla nemmeno per mandarla avanti. Non esiste un solo elemento di fatto da cui si possa desumere che egli vi abbia dato un esplicito consenso e fissato delle date. Fino al 24, a chiunque era venuto a parlargliene, aveva invariabilmente risposto; «Datemene il mezzo costituzionale, e io interverrò». In attesa di questo mezzo, i generali avevano seguitato a complottare, ed è vero che il loro piano prevedeva l’arresto di Mussolini all’uscita di una delle sue consuete visite a Villa Savoia. Ma che ciò dovesse avvenire il 26, era solo nelle speranze dei congiurati, come già lo era, da vari mesi, alla vigilia di ognuna di quelle visite. Tutto era pronto per quel giorno, è vero, compresa l’autoambulanza che doveva trasportare il prigioniero. Ma lo era da un pezzo. Seguitava a mancare la cosa principale: la decisione del Re.

Che questa decisione il Re l’abbia presa solo la mattina del 25, cioè dopo l’esito del Gran Consiglio, lo dimostrano i seguenti fatti. Primo: l’ansia di Acquarone, che per tutta la notte aveva seguitato a telefonare al segretario di Grandi, Talvacchia, per avere notizie, e da Grandi si precipitò alle quattro del mattino in casa di Zamboni. Perché tutta questa trepidazione, se il Re aveva già preso la risoluzione di far arrestare il Duce? Secondo: le parole dello stesso Acquarone, a commento del rapporto di Grandi: «Be’, speriamo che finalmente il Re si decida ad agire». Il che significa che fino a quel momento (ore quattro del mattino del 25) non si era deciso. Terzo: le dichiarazioni di Badoglio alla stampa angloamericana nell’ottobre successivo, in cui affermò dì essere stato del tutto all’oscuro di quanto avveniva fino alle ore dodici del 25 luglio, quando il Re lo chiamò per affidargli il governo. Non è del tutto vero. Badoglio era già in contatto con Acquarone attraverso Castellano. Però, dal Re, fu effettivamente convocato solo il 25. E non crediamo che se la data fosse già stata da tempo fissata al 26, il Re avrebbe aspettato tanto a consultarlo. Quarto: Castellano, nelle sue memorie, dice che il permesso di arrestare Mussolini fu «strappato» al Re alle dodici del 25 luglio. Quinto: il «diario» dell’aiutante dì campo del Re, generale Puntoni, trascrive una frase del sovrano: «Aspettavo da giorni l’occasione buona…».

Sesto: la testimonianza di Mussolini, che nella sua Storia di un anno riferisce ciò che gli disse il Re in quell’ultimo incontro: «Dopo il voto del Gran Consiglio, non potete più restare capo del governo». Il che trova conferma nel «diario» di Puntoni, che traudì parte di quella conversazione. Lo stesso generale Ambrosio, intervistato l’undici marzo 1955, a precisa domanda rispose: «L’azione di Grandi e il verdetto del Gran Consiglio fornirono al Re l’arma costituzionale per la sostituzione di Mussolini». Nel suo «diario» Bonomi scrive a pagina 17: «… Il Re ha ricevuto Badoglio il 25 luglio, ma non ha aderito al suo disegno. Ha eccepito che i colpi di Stato a data fissa non hanno possibilità di riuscita». Racconta ancora Badoglio (Badoglio risponde, pagina 86): «Ambrosio mi fece sapere il 23 luglio che “il 24-25 vi sarà il Gran Consiglio. Credo che Mussolini sarà fatto fuori”. Mi pregò di non muovermi da Roma…». E più oltre: «A dare la spinta definitiva fu la convocazione del Gran Consiglio». Badoglio – egli stesso ce lo racconta – continuò a giocare a bocce presentendo che da un giorno all’altro poteva accadere qualche cosa di grosso.
Scrive per tutti Mussolini (Storia di un anno, pagina 83): «Che la crisi sarebbe scoppiata anche senza nessun Gran Consiglio è assai probabile, ma la storia non tiene conto delle ipotesi. Ciò che si è verificato, si è verificato dopo la seduta del Gran Consiglio».

La forza della ribellione.

Non ci possono dunque essere dubbi sulla importanza risolutiva ch’ebbe quella famosa seduta. Nessuno può dire se, senza di essa, il Re avrebbe trovato egualmente il coraggio di agire. Ma nessuno può onestamente negare che a darglielo furono gli uomini del Gran Consiglio, e non certo le meschine ragioni che sono state loro attribuite. Essi sapevano di cadere col regime che stavano per abbattere, e lo dimostra il fatto che nessuno di loro si fece avanti per ottenere cariche o incarichi. Non è vero, anzi non è nemmeno verosimile, che aspirassero, in quelle condizioni, a succedere a Mussolini. Uomini come Grandi, Bottai e Federzoni erano abbastanza intelligenti per non desiderarlo neppure. Grandi partiva dall’idea che per negoziare con gl’inglesi occorrevano uomini non compromessi col fascismo, sebbene Winston Churchill nelle sue Memorie di guerra (parte V volume I, pagina 68) riproduce una nota da lui scritta in data 25 novembre 1942: «II popolo italiano dovrà scegliere un governo sotto qualcuno come Grandi per negoziare una pace separata».

Quanto ai motivi che ispirarono l’azione in Gran Consiglio, può darsi che fra alcuni dei diciannove firmatari del famoso ordine del giorno ci sia stata anche la paura. Ma il rischio più grave lo corsero certamente facendo quel che fecero, e lo corsero coscientemente, perché Farinacci, Scorza, Tringali-Casanova e lo stesso Mussolini avevano parlato chiaro; e che le loro non fossero vane minacce lo dimostrò la sorte poi toccata a Ciano, De Bono, Marinelli, Gottardi e Pareschi.

Un coraggio non riconosciuto.

Purtroppo, a sminuire l’importanza del gesto del Gran Consiglio, cospiravano troppi interessi. Anzitutto quello di alcuni militari, che volevano rivendicare a se stessi l’esclusivo merito della liquidazione del regime. Poi, quello di un antifascismo che non ha mai saputo consolarsi del fatto di aver dovuto aspettare, per liberare l’Italia dal fascismo, che il fascismo si suicidasse. Questo antifascismo sognava, per Mussolini, una fine alla Masaniello o alla Cola di Rienzo. E infatti gliela fece dare. Ma solo due anni più tardi, dopo il poscritto della repubblica di Salò e l’arrivo degli Alleati a Milano. Infine, le requisitorie dei neo-fascisti contro i «traditori» del 25 luglio, per accreditare la versione che il regime fu vittima di un complotto ordito alle spalle del Paese e contro la sua volontà. Insomma, contro gli uomini del Gran Consiglio c’è una strana coincidenza d’interessi opposti, ma concordi nello svilirne il gesto. Esiste un documento che antifascisti e neo-fascisti hanno cercato sempre di coprire col silenzio, e cioè la lettera che Mussolini, poche ore dopo il suo arresto a Villa Savoia nel pomeriggio del giorno 25, inviò al maresciallo Badoglio, nuovo capo del governo: «Desidero assicurare il Maresciallo Badoglio, anche in ricordo del lavoro comune svolto in altri tempi, che da parte mia non solo non gli verranno create difficoltà, ma sarà data ogni possibile collaborazione. Faccio voti che il successo coroni il grave compito al quale il Maresciallo Badoglio si accinge per ordine e in nome di Sua Maestà il Re, del quale durante ventun anni sono stato il servitore e tale rimango. F.to Mussolini».

Mentre Mussolini inviava quella lettera. Scorza, segretario del partito fascista, si metteva a disposizione del maresciallo Badoglio per immobilizzare il partito e altrettanto faceva il capo di Stato Maggiore della milizia fascista Galbiati.

Le colpe di Badoglio.

Né Grandi, né Federzoni, né Bottai fecero nulla di simile. Anzi, Grandi, il mattino del 29 luglio, apostrofò il maresciallo, a palazzo Vicinale con queste parole: «Tu sarai il Kerensky dell’Italia». Ce lo conferma lo stesso Badoglio a pagina 82 del suo libro L’Italia nella seconda guerra mondiale. Gli unici che si misero immediatamente a disposizione del nuovo governo antifascista furono pertanto Mussolini, Scorza, Galbiati. Tutto ciò sembra paradossale, ma è così. Un acuto e documentato scrittore inglese, F. W, Deakin, a pagina 531 del suo libro La repubblica di Salò, scrive: «II significato della lettera inviata dal Duce a Badoglio è stato trascurato sinora. Il tono di questa lettera è identico a quello delle analoghe missive inviate a Badoglio da Galbiati e da Scorza e dimostra l’accettazione dell’atto compiuto dal Re, destituendo Mussolini e ponendo fine a venti anni di regime fascista. La lettera di Mussolini assolve implicitamente da ogni responsabilità coloro che avevano votato contro di lui in Gran Consiglio».

La «notte del Gran Consiglio» (così rimarrà nella storia la drammatica vicenda di palazzo Venezia, dalle ore diciassette del 24 luglio alle ore tre del 25 luglio) rimane oltre a tutto a testimoniare che nel fascismo convissero sempre due anime; e che se quella peggiore ebbe quasi sempre il sopravvento, quella migliore trovò, sia pure «in extremis», la forza di una ribellione coraggiosa e responsabile. Si può dire che per vent’anni erano stati troppo deboli e docili nelle mani del dittatore. Si può dire tutto quello che si vuole di coloro che la incarnarono. Si può dire che aspettarono troppo ad affrontarlo e abbatterlo. Ma purtroppo questo è l’effetto che i totalitarismi, di qualsiasi colore, sortono sulla coscienza e sulla resistenza morale di coloro che hanno la sventura di viverci dentro. Il nazismo non conobbe dissidenze interne. Solo un pugno di ufficiali tentarono di abbatterlo. E nemmeno ne conoscono i regimi comunisti, che le inventano solo per giustificare le epurazioni.

Bene o male, dentro il fascismo erano sopravvissuti degli uomini capaci di uccidere il fascismo. Lo fecero quando gli anglo-americani erano già in Sicilia, ma anche quando i tedeschi erano tuttora a Roma e nessuno dei capi antifascisti aveva dato ancora segno di voler uscire all’aperto per rischiare la vita. E alcuni pagarono con la vita. Rispettiamo il loro coraggio e, a 20 anni di distanza, rendiamo al loro gesto almeno l’onore delle armi.

(Dal Corriere della Sera del 23 e 24 luglio 1963)

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