Contestare il sistema o lavorare per migliorarlo?

Davanti ai giovani ci sono due strade: dire di no a tutto condannandolo in blocco, oppure accettare la propria parte di uomo fra gli altri uomini e rimboccarsi le maniche per fare andare le cose che non vanno con un impegno quotidiano. La prima via è certamente quella più facile, ma la via più facile non è mai quella del dovere

La stanza di Montanelli

Ancora qualche considerazione sui giovani. Me la suggerisce una corrispondenza da Stoccolma in cui ho letto il resoconto di un singolare episodio di contestazione. Alcune centinaia di studenti montati su motorette hanno intasato le strade principali della città paralizzandone il traffico per distribuire agli automobilisti, dopo averli obbligati a fermarsi, dei volantini. Non si trattava di propaganda politica. Era un semplice invito, redatto in termini molto civili, a parcheggiare le macchine in periferia e a servirsi della metropolitana in modo che il centro venisse decongestionato e disintossicato dai gas.

Da quanto si legge sui giornali, non era una protesta improvvisata, un colpo di mano, uno scoppio di collera, né tanto meno un pretesto per far chiasso e confusione. Da un pezzo, nei principali centri universitari della Svezia, si sono costituiti dei gruppi di giovani che hanno preso a cuore il problema degl’inquinamenti dell’ambiente e messo allo studio le soluzioni da proporre. Cominciarono a farlo una diecina d’anni fa, quando risultò che nel pesce dei laghi — una delle principali fonti di alimentazione del Paese — c’erano forti tracce di mercurio che rappresentavano un pericolo per chi se ne cibava. Chiesero al governo il divieto di pesca, e l’ottennero. Subito dopo affrontarono la questione degli scarichi dei motori e indussero i dirigenti a nominare un apposito commissario con ampi poteri decisionali. Sotto il loro pungolo, il commissario non perse tempo a svolgere inchieste e redigere rapporti. Essendo già stato appurato che gli scarichi avvelenano l’aria, egli convocò i responsabili delle maggiori case automobilistiche e li sollecitò ad adottare dei sistemi di carburazione che riducano al minimo il tasso di anidride carbonica. Spaventate dai costi che l’innovazione comporta, le industrie opposero resistenza accampando vari pretesti fra cui quello, abbastanza valido, che essendo la Svezia un Paese molto vasto — molto più vasto dell’Italia — con una popolazione di appena otto milioni di abitanti, e ricchissimo di boschi, il ricambio naturale dell’aria era più che sufficiente a contenere l’inquinamento entro limiti di assoluta sicurezza per la salute dell’uomo. Gli studenti rifiutarono l’eccezione dicendo che, se il tasso di popolazione era basso, altissimo era invece quello della motorizzazione, che c’era da aspettarsene un ulteriore aumento e che, Siccome una giudiziosa terapeutica deve consistere più nel prevenire che nel rimediare, si doveva ricorrere a misure drastiche, e subito. La stampa si mise al servizio di queste tesi e con una campagna tambureggiante stimolò la pubblica opinione a far sentire il suo peso. La polemica è tuttora in pieno svolgimento. Le case automobilistiche obiettano — non senza ragione — che i sistemi di carburazione non si possono modificare da un giorno all’altro, che il farlo comporterà un aumento di costi di produzione destinato a riflettersi sui prezzi e quindi sulla capacità d’acquisto degli utenti. Ma gli studenti hanno tenuto duro. « Voi — hanno detto — fate i vostri calcoli per oggi, ed è naturale, data la vostra età. Noi li facciamo per domani. Non vogliamo morire dei vostri veleni. Vogliamo salvare la nostra aria, i nostri mari, i nostri laghi, i nostri fiumi, i nostri boschi. Quindi: o voi impedite gli scarichi, o noi impediamo alle vostre automobili di circolare».

A quanto sembra, questi ragazzi non fanno complimenti. Pur senza ricorrere alla violenza, la vita delle città svedesi la mettono a soqquadro, ed è probabile che parecchia gente ne sia indignata o almeno infastidita. Però l’opinione pubblica non è contro di loro, o comunque non osa dirlo, e gli stessi custodi dell’ordine si guardano bene dal ricorrere ad azioni repressive. Perché? Perché tutti capiscono che questa conte-stazione è ispirata non dall’odio, ma dall’amore per la società, non dal desiderio di distruggerla, ma dalla volontà di renderla migliore per le generazioni future.

Credo che.il lettore abbia già capito cosa voglio dire. Qualcuno obietterà: «Ma la gioventù svedese opera in una società ricettiva alle loro proteste e pronta ad accoglierle». È vero. La Svezia ha una classe dirigente di collaudata esperienza democratica, sensibile ai richiami della pubblica opinione e pronta a concretarli in riforme. Ma questa classe dirigente non gliel’ha data il Padreterno in un momento di buonumore. È il Paese che, oltre a ben selezionarla, la mette in grado di funzionare con una contestazione che in realtà è una sollecitazione al meglio, anche quando si esercita con metodi piuttosto risoluti.

Ora, fra il contestatore italiano che nega genericamente il cosiddetto «sistema», cioè il tipo di società in cui vive, e si rifiuta di collaborarvi, e quello svedese che cerca di guarirlo delle sue malformazioni, io non so chi abbia più ragione. O meglio lo so, ma riconosco che la mia opinione può essere viziata dal fatto che di questo sistema io sono, nel mio piccolo, un corresponsabile, e quindi il mio giudizio non fa testo. Ma, se fra i miei lettori ce qualche giovane, vorrei chiedergli: «Secondo te, che cosa è più difficile: dire di no a tutto condannandolo in blocco, oppure accettare la propria parte di uomo fra gli altri uomini e rimboccarsi le maniche per far andare le cose che non vanno, cimentandosi con esse sul piano concreto, approfondendo i problemi e cercando con un quotidiano sforzo di realizzarne le soluzioni?». Mi si risponderà: «Chi nega il sistema non può scegliere che la prima alternativa». D’accordo. Io stesso ho già detto che considero puramente soggettivo il mio giudizio sulla validità del sistema, e con ciò ho ammesso che qualcuno può anche considerarlo invalido e da distruggere. Ma vorrei una risposta alla domanda specifica: quale dei due atteggiamenti è più facile?

Lo chiedo perché ormai, per quanto riguarda le regole di vita e di condotta morale, la mia credo di averla trovata. Non l’ho attinta nei libri di filosofia, di cui del resto non sono un profondo conoscitore, ma in un passaggio di una lettera di Tommaso Moro che, a quanto pare, l’aveva a sua volta derivata da Seneca. È una regola semplicissima, elementare, alla portata di tutti. Dice: «Quando sei in dubbio sulla via del dovere, scegli la più difficile ». Vorrei che anche i contestatori l’adottassero come bussola. Essi diranno che pure questa fa parte del «sistema» che bisogna affondare. E così, per trarsi d’imbarazzo, avranno scelto la risposta, cioè, la via più facile.

Domenica del Corriere, 23 Giugno 1970

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