La resa di Vercingetorige secondo Lionel-Noël Royer (Le Puy-en-Velay, Museo Crozatier, 1899)

Indro Montanelli racconta… Caio Giulio Cesare

Caio Giulio Cesare raccontato da Indro Montanelli nel fascicolo numero 1 della collana "I Protagonisti", pubblicata a puntate dal quotidiano Il Giornale nel 1993

Allo scadere del secondo secolo avanti Cristo, la Roma repubblicana fu percorsa da torbidi che portarono alla guerra civile. Si contendevano il potere due fazioni: quella democratica e popolare guidata da Caio Ma­rio e quella conservatrice che faceva capotti Lucio Cornelio Silla.

Gli schieramenti dell’uno e dell’altra parte scesero in campo e sulla prima prevalsero i democratici di Mario. Silla reagì marciando su Roma e cacciando i mariani.

Ne seguì una «purga». Decine di senatori e migliaia di sostenitori di Mario furono condannati a morte e giustiziati. Nella lista c’era anche un giovanotto di nome Caio Giulio Cesare che, nipote di Mario per parte della moglie di costui, si rifiutò di rinnegare lo zio e le sue idee. Venne condannato alla pena capitale, poi alcuni amici si interposero e Silla lo lasciò andare in esilio.

Nel firmare l’atto di clemenza, Silla disse: «Commetto una sciocchezza». Correva l’anno 81 a. C.

Caio Giulio Cesare veniva da una famiglia aristocratica povera che faceva risalire le sue origini ad Anco Marzio e a Venere, ma che, dopo questi opinabili antenati, non aveva più dato alla storia di Roma personaggi di grido. C’erano stati dei Giuli pretori, questori, e anche consoli. Ma di ordinaria amministrazione. La loro casa sorgeva nella Suburra, il quartiere popolare e malfamato di Roma, e qui egli nacque chi dice nel 100, chi nel 102 avanti Cristo.

Non sappiamo nulla della sua infanzia, se non ch’ebbe come precettore un gallo, Antonio Grifone, il quale, oltre al latino e al greco, gl’insegnò forse qualcosa di molto utile sul carattere dei suoi compatrioti. Pare che nella pubertà fosse afflitto da mali di testa e attacchi di epilessia, e che la sua ambizione fosse allora quella di diventare uno scrittore. Fu calvo molto presto e, vergognandosene, cercò di rimediarvi coi «riporti», tirandosi i capelli dalla nuca alla fronte. Perdeva molto tempo ogni mattina in questa complicata operazione.

Svetonio dice ch’era alto, piuttosto grassottello, di pelle chiara, d’occhi neri e vivi. Plutarco dice ch’era magro e di mezza taglia. Forse hanno ragione ambedue. L’uno lo descrive da giovane, l’altro da uomo maturo, quando di solito ci si appesantisce un po’. I lunghi periodi di vita militare dovettero irrobustirlo. Fu sin da ragazzo un eccellente cavaliere, e usava galoppare con le mani incrociate dietro la schiena. Ma camminava molto anche a piedi alla testa dei suoi soldati, dormiva nei carri, mangiava sobriamente, il suo sangue si serbava sempre freddo e il suo cervello lucido. Di viso non era bello. Sotto quel cranio pelato e un po’ troppo massiccio, c’erano un mento quadrato e una bocca arcuata e amara, incorniciata da due rughe dritte e profonde, e col labbro di sotto che sporgeva su quello di sopra. Tuttavia fu sempre fortunato con le donne. Ne sposò quattro e ne ebbe infinite altre come amanti. I suoi soldati lo chiamavano moechus calvus, l’adultero calvo e, quando sfilavano per le vie di Roma in occasione di un trionfo, gridavano: «Ehi, uomini, chiudete in casa le vostre mogli: è tornato il seduttore zuccapelata!». E Cesare era il primo a riderne.

Contrariamente a una certa leggenda che lo riveste di una seriosa e sussiegosa solennità, Cesare era un perfetto uomo di mondo, galante, elegante, spregiudicato, ricco di umorismo, capace di incassare i frizzi altrui e di rispondervi con mordente sarcasmo. Era indulgente coi vizi degli altri, perché aveva bisogno che gli altri lo fossero coi suoi. Curione lo chiamava «il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti». E una delle ragioni per cui gli aristocratici l’odiarono tanto era ch’egli seduceva regolarmente le loro spose, le quali a dire il vero facevano a gara per essere sedotte. Fra esse c’era anche Servilia, sorellastra di Catone, che anche per questo gli fu irriducibilmente ostile. Servilia gli era così devota che gli sacrificò anche la figlia Terzia, cui lasciò il suo posto quando gli anni l’obbliga­rono a ritirarsi.

Lo stesso Pompeo, per quanto più bello, ricco e, in quel momento, famoso di Cesare, si vide portar via la moglie da lui e la ripudiò. Cesare se ne fece perdonare, dandogli in sposa la figlia sua.

Questo straordinario personaggio era dunque, quanto a moralità, figlio dei suoi tempi. E infatti debuttò in un modo che non lasciava presagire nulla di buono. Finiti gli studi sui sedici anni, parti al seguito di Marco Termo che andava in Asia a farvi una delle tante guerre. Ma, invece che un bravo soldato, diventò un favorito di Nicomede, re di Bitinia, che aveva un debole per i bei ragazzi. Tornato a Roma diciottenne, sposò Cossuzia, perché così voleva suo padre. Ma quando costui morì, la ripudiò e rimpiazzò con Cor­nelia, figlia di Cinna. E così venne a rinsaldare i vincoli che già lo legavano al partito democratico.

Silla, quando instaurò la dittatura, gli ordinò di divorziare. Cesare, sebbene abituato a cambiare moglie come si cambia vestito, spavaldamente rifiutò. Venne condannato a morte e la dote di Cornelia fu confiscata. Poi, comuni amici si interposero, e Silla lo lasciò andare in esilio. Aveva capito benissimo la «sciocchezza» che stava facendo: ma forse aveva per lui una segreta simpatia.

Quando il dittatore si fu ritirato, Cesare tornò a Roma. Ma, trovandola ancora in balìa dei reazionari che lo detestavano come nipote di Mario e genero di Cinna, ripartì per la Cilicia. Una barca di pirati lo catturò in mare e chiese per il suo riscatto venti talenti. Cesare rispose insolentemente ch’era un prezzo troppo basso per il suo valore e che preferiva dargliene cinquanta. Mandò i suoi servi a procurarli e ingannò l’attesa scrivendo versi e leggendoli ai suoi rapitori che non li gustarono punto. Cesare li chiamò «barbari» e «cretini», e promise loro d’impiccarli alla prossima occasione. Tenne la parola, perché appena liberato, corse a Mileto, noleggiò una flottiglia, inseguì e catturò quei filibustieri, riprese i suoi quattrini, cioè quelli dei suoi creditori (cui non li restituì) e, manifestazione di clemenza, prima di impiccarli, tagliò loro la gola.

Era un ragazzaccio chiacchierone, arrogante e dissipato che quando, rientrato a Roma nel 68, si presentò candidato al posto di questore, era già carico di debiti. Li aveva contratti con Crasso dopo aver sedotto anche a lui la moglie Tertulla. Con quei soldi comprò i voti, fu eletto, ebbe un governatorato e un comando militare in Spagna, combatté contro i ribelli, e tornò a Roma con la fama di bravo soldato e di accorto amministratore.

Nel 65 si ripresentò alle elezioni, fu eletto edile e ringraziò i suoi sostenitori finanziando spettacoli mai visti. Tre anni dopo fu nominato propretore in Spagna, sottomise gli iberici quasi completamente, e riportò a Roma un tale bottino che il Senato gli accordò il trionfo.

Voleva essere il padrone

I conservatori detestavano Cesare e potevano benissimo impedirgli il successo opponendogli un uomo del prestigio di Pompeo, che invece delusero perché erano gelosi delle sue vittorie e delle sue ricchezze. Cesare ci vide una buona occasione per attirarlo dalla parte sua e di Crasso, e questo capolavoro di diplomazia si saldò con un accordo tripartito: il primo triumvirato. Pompeo e Crasso mettevano la loro influenza, ch’era grande, e le loro ricchezze, ch’erano immense, al servizio di Cesare per farlo eleggere console. Questi, assunto il potere, avrebbe distribuito le terre ai soldati di Pompeo e concesso a Crasso gli appalti cui questi aspirava. Cesare mantenne gl’impegni che aveva assunto con gli alleati. Propose subito la distribuzione delle terre e la ratifica delle misure adottate da Pompeo in Oriente. Il Senato si oppose. E allora Cesare portò i disegni di legge davanti all’Assemblea. I progetti furono approvati a grande maggioranza. Pompeo diventò il genero di Cesare, sposandone la figlia Giulia, borghe­si e proletari si strinsero in un grande abbraccio, e per mesi e mesi si divertirono a spese dei triumviri, che offrirono magnifici spettacoli nel circo. Concluse l’anno facendo eleggere come suoi successori per il 58 Gabinio e Pisone, del quale sposò la figlia Calpurnia dopo regolare divorzio dalla sua terza moglie Pompea, che stava per essere processata per oltraggio al pudore e alla religione: l’accusavano di aver introdotto il suo amante Clodio, travestito da donna, nel recinto sacro della dea Bona, di cui Pompea era sacerdotessa. Cesare s’infischiava dell’onore coniugale. Clodio, con tutta quella faccenda, gli aveva dato il pretesto di liberarsi di una sposa che non gli serviva più a nulla e di rimpiazzarla con un’altra che gli serviva molto con la sua parentela. Con Gabinio e Pisone a guardargli le spalle come consoli; con un avventuriero facilmente ricattabile come Clodio alla testa della plebe; con l’amicizia di Pompeo e il sostegno finanziario di Crasso; col Senato imbrigliato e costretto a rendere conto delle sue decisioni, Cesare ora poteva allontanarsi anche da Roma per procurarsi quello che tuttavia gli mancava: la gloria militare e un esercito fedele.

Campagne temerarie e folgoranti

Quando Cesare vi giunse nel 58, la Francia era per i romani soltanto un nome: Gallia. Essi non ne conoscevano che le province meridionali; quelle che avevano sottoposto a vassallaggio per assicurarsi le comunicazioni terrestri con la Spagna. Cosa ci fosse più a nord, lo ignoravano.

Cesare non aveva le forze necessarie a una conquista. Gli avevano dato solo, per tutto quel po’ po’ di territorio, quattro legioni, neanche trentamila uomini. E proprio nel momento in cui ne assumeva il comando, quattrocentomila Elvezi straripavano dalla Svizzera sulla Gallia Narbonese, minacciando di sommergerla, e centocinquantamila Germani traversavano il Reno per rinforzare nelle Fiandre il loro confratello Ariovisto che già vi si era stabilito tredici anni prima. Tutta la Gallia impaurita chiese protezione a Cesare che, senza neanche avvertirne il Senato, arruolò a proprie spese altre quattro legioni e ingiunse ad Ariovisto di venire a discutere un accomodamento con lui. Ariovisto rifiutò e Cesare, per affermare il suo prestigio agli occhi dei suoi nuovi sudditi, non ebbe altra scelta che la guerra contro di lui e contro gli Elvezi.

Lo scontro con Vercingetorige

Furono due campagne temerarie e folgoranti. Battuti, nonostante la loro enorme superiorità numerica, gli Elvezi chiesero di poter ritirarsi nella loro patria, e Cesare glielo consenti purché accettassero il vassallaggio a Roma. I Germani furono addirittura annientati presso Ostheim. Lo scapestrato e indebitato donnaiolo si rivelava, sul campo di battaglia, un formidabile generale.

Rinominato proconsole e governatore della Gallia per altri cinque anni, Cesare tornò nelle sue province dove frattanto si profilava una nuova invasione germanica. Massacrò gli intrusi respingendoli oltre il Reno; poi attraversò con un piccolo distaccamento la Manica, e per la prima volta con lui i romani calpestarono il suolo inglese. Non si sa con precisione perché ci andò: forse solo per vedere cosa c’era. Ma l’anno dopo ritentò l’avventura con forze maggiori, batté un esercito indigeno guidato da Cassivelauno, si spinse fino al Tamigi, e forse sarebbe andato anche più in là, se non gli fosse giunta la notizia che tutta la Gallia era in subbuglio, per la prima volta unita agli ordini di un abile capo, Vercingetorige.

Giocando tutto per tutto, Cesare mosse su Alesia, dove Vercingetorige aveva ammassato l’esercito, e vi mise l’assedio. Subito, da tutte le parti i Galli accorsero per liberare il loro capitano. Erano duecentocinquantamila quelli che si concentrarono contro le quattro legioni romane. Dopo una settimana di disperata resistenza i romani erano al­la fame, ma i Galli erano a loro volta nell’anarchia; e cominciarono a ritirarsi in disordine. Cesare racconta che, se avessero insistito ancora per un giorno, avrebbero vinto. Vercingetorige in persona uscì dalla città stremata a chiedere grazia. Cesare la concesse alla città, ma i ribelli diventarono proprietà dei legionari che li rivendettero come schiavi e ci fecero il loro gruzzolo.

Roma non si rese conto della grandezza del dono che il suo proconsole le aveva fatto. Essa vide nella Gallia soltanto una nuova provincia da sfruttare, grande due volte l’Italia e popolata di cinque milioni di abitanti. Certo, non poteva supporre che Cesare vi avesse fondato una nazione destinata a perpetuare e diffondere la civiltà e la lingua di Roma in tutta Europa. Eppoi, in quel momento non aveva tempo di occuparsi di queste faccende, impegnata com’era nelle sue discordie. Crasso, dopo il consolato, era partito per la Siria, nella sua smania di gloria militare aveva mosso guerra ai Parti, ne era stato sconfitto a Carre e, mentre trattava col generale vincitore, questi lo aveva ucciso e ne aveva mandato la testa mozza a decorare in teatro una scena di Euripide. Pompeo, invece, fattosi dare un esercito per governare la Spagna, era rimasto con esso in Italia in un atteggiamento che non lasciava presagire nulla di buono. Sapendo che il proconsolato di Cesare sarebbe finito nel 49, si fece protrarre il proprio fino al 46. Così sarebbe rimasto il solo, fra i due, ad avere un esercito e ripropose la legge che esigeva la presenza in città per concorrere al consolato. L’Assemblea, presidiata dalle sue truppe, approvò. Era l’esclusione di Cesare. Come ringraziamento per la conquista della Gallia, non c’era male.

Il passaggio del Rubicone

Le esitazioni di Cesare prima di scatenare la guerra civile hanno fatto la gioia di molti scrittori e la fortuna di un fiumiciattolo, di cui altrimenti nessuno conoscerebbe il nome: il Rubicone. Esso marcava, presso Rimini, il confine tra la Gallia Cisalpina, dove il proconsole aveva diritto di tenere i suoi soldati, e l’Italia vera e propria, dove la legge gli vietava di condurli; e fu sulle sue sponde che gli storici descrivono Cesare meditabondo e roso dai dubbi. Ma il fatto è che quando Cesare giunse li, la decisione l’aveva già presa.

Cesare adunò la sua legione favorita, la tredicesima; e parlò ai suoi soldati, chiamandoli non milites, ma commilitones. Poteva farlo. Oltre che il loro generale, egli era stato davvero anche il loro compagno. Erano dieci anni che li conduceva di fatica in fatica e di vittoria in vittoria, alternando sapiente- mente l’indulgenza al rigore. Quei veterani erano veri e propri professionisti della guerra, se ne intendevano, e sapevano misurare i loro ufficiali. Per Cesare, che di rado era dovuto ricorrere alla propria autorità per affermare il proprio prestigio, avevano un rispettoso affetto. E quando egli ebbe spiegato loro come stavano le cose e chiese se se la sentivano di affrontare Roma, la loro Patria, in una guerra che, a perderla, li avrebbe qualificati traditori, risposero di sì all’unanimità. Erano quasi tutti Galli del Piemonte e della Lombardia: gente a cui Cesare aveva dato la cittadinanza che il Senato si ostinava a disconoscerle. La loro Patria era lui, il Generale.

Cesare entrò in Roma il 16 marzo, lasciando l’esercito fuori della città. Si era ribellato allo Stato, ma ne rispettava i regolamenti. Chiese il titolo di dittatore, e il Senato rifiutò. Chiese che fossero mandati messi di pace a Pompeo, e il Senato rifiutò. Chiese di poter disporre del Tesoro, e il tribuno Lucio Metello oppose il veto. Cesare disse: «Tanto mi è difficile pronunciare minacce, quanto mi è facile eseguirle». Subito il Tesoro gli venne messo a disposizione. Cesare, prima di vuotarlo per impinguare le casse dei suoi reggimenti, vi versò tutto il bottino accumulato nelle ultime campagne. Il furto, sì; ma, prima, la legalità. I conservatori preparavano la riscossa ammassando tre eserciti: quello di Pompeo in Albania, quello di Catone in Sicilia, e un altro in Spagna. Contavano di far capitolare Cesare e l’Italia per fame, senza bisogno di una battaglia che paventavano.

Farsalo: il capolavoro di Cesare

Contro la Spagna andò Cesare in persona per assicurarsi i rifornimenti di grano. Credeva che i pompeiani vi fossero meno forti e si trovò di fronte a impreviste difficoltà. Ma Cesare dava il meglio di sé nei momenti di pericolo. Un giorno, assediato, dirottò un fiume e divenne assediante. Il nemico capitolò, e la Spagna fu di nuovo sotto il controllo di Roma. Il popolo, liberato dallo spettro della carestia, lo acclamò; e il Senato gli diede il titolo di Dittatore. Ma ora fu Cesare a rifiutarlo: gli bastava quello di console, che gli conferirono gli elettori.

Con l’abituale speditezza, rimise ordine nelle faccende interne dello Stato, ma senza processi, né bandi, né confische. Poi radunò l’esercito a Brindisi, imbarcò ventimila uomini sulle dodici navi che aveva a disposizione, e li sbarcò in Albania sulle tracce di Pompeo, che raggiunse nella piana di Farsalo. Aveva cinquantamila fanti e settemila cavalieri; Cesare, ventiduemila fanti e mille cavalieri.

Farsalo fu il capolavoro di Cesare, che perse solo duecento uomini, ne uccise quindicimila, ne catturò ventimila; ordinò di risparmiarli, e celebrò la vittoria consumando, sotto la sontuosa tenda di Pompeo, il pranzo che i cuochi avevano preparato a costui per celebrarne il trionfo. Lo sventurato generale s’imbarcò alla volta dell’Africa, probabilmente col proposito di mettersi alla testa dell’ultimo esercito senatoriale: quello che erano venuti organizzando a Utica Catone e Labieno. La nave gettò l’àncora nelle acque d’Egitto, Stato vassallo di Roma, che lo amministrava attraverso il suo giovane re, Tolomeo XII. Era un signorotto mezzo degenerato e mezzo citrullo, in balìa di un vizir, cioè di un Primo Ministro eunuco e canaglia: Potino. Costui sapeva già di Farsalo, e credette di assicurarsi la gratitudine del vincitore assassinando il vinto. Pompeo fu pugnalato alle spalle sotto gli occhi della moglie, mentre sbarcava da una scialuppa. E la sua testa fu presentata a Cesare che storse la propria con orrore, quando arrivò e la vide.

Oramai ch’era lì, Cesare volle, prima di tornare a Roma, mettere a posto le faccende di quel Paese, che da tempo stava andando in malora. Tolomeo avrebbe dovuto, secondo il testamento di suo padre, dividere il trono con sua sorella Cleopatra, dopo averla sposata (questi amori tra fratelli in Egitto sono rimasti frequenti fino a Faruk: fanno parte del colore locale). Ma Cleopatra, quando Cesare giunse, non c’era: Potino l’aveva confinata e rinchiusa per poter fare il suo comodo. Cesare la mandò a chiamare di nascosto. Per raggiungerlo, essa si fece nascondere tra le coltri di un letto che il servo Apollodoro doveva portare negli appartamenti dell’illustre ospite a palazzo reale. Questi la trovò al momento di coricarsi: un momento particolarmente propizio a una donna di quella fatta.

Una vivente preda bellica

Non bellissima, ma piena di sex appeal, bionda, serpentina, maestra sapiente di ciprie e di cosmetici, con una voce melodiosa che non corrispondeva affatto, come spesso capita, al suo carattere avido e calcolatore, intellettuale quanto bastava per tenere in piedi con brio una conversazione, e assolutamente ignara di tutto quel che potesse rassomigliare al pudore; era proprio quel che ci voleva per un donnaiolo spregiudicato come Cesare dopo tutti quei mesi di trincea e di astinenza. Perché in fatto di femmine Cesare era rimasto quello di prima e di sempre: per lui, quel ch’era lasciato era perso.

Il naso di Cleopatra

Rimase nove mesi con lei, quanti le occorsero per mettere al mondo un bambino che fu chiamato, perché non ci fossero dubbi sulla sua paternità, Cesarione. Dovett’essere un grande amore, per rendere Cesare sordo agli appelli di Roma, caduta preda in sua assenza delle «squadre» di Milone, tornato da Marsiglia. Finalmente, alla notizia ch’egli stava per intraprendere con lei un lungo viaggio sul Nilo, i suoi stessi soldati si ribellarono; fra loro era corsa voce che il generale volesse sposarla e restare in Egitto, come re del Mediterraneo.

Allora Cesare si scosse, si rimise alla testa dei suoi, accorse in Asia Minore dove «venne, vide e vinse» a Zela, contro Farnace, il ribelle figlio di Mitridate.

Poi s’imbarcò per Taranto, dove Cicerone e altri ex conserva- tori gli vennero incontro con la testa coperta di cenere. Con la consueta magnanimità, Cesare troncò loro in bocca le parole di contrizione e tese la mano. Tutti ne furono talmente felici, che non ebbero né il tempo né la voglia di scandalizzarsi per il fatto che il padrone tornasse in una Roma piena di stragi e di lutti, portandosi al seguito una donna vestita e truccata come una sciantosa che si spingeva avanti la carrozzella con dentro un marmocchio piagnucoloso.

Con questa vivente «preda bellica» egli si ripresentò all’Urbe e alla propria moglie Calpurnia, che non batté ciglio perché c’era abituata. Essa tuttavia fu l’unica, probabilmente, ad accorgersi che Cleopatra aveva il naso un po’ lungo. E siamo sicuri che la cosa le fece molto piacere.

La situazione a Roma non era allegra. Il grano non arrivava più dalla Spagna, dove il figlio di Pompeo aveva organizzato un altro esercito, né dall’Africa, dove Catone e Labieno erano ormai padroni del campo. Così, dovette ancora una volta imbarcare la truppa e con essa sbarcò in Afri­ca nell’aprile del 46, a Tapso, e trovò ad aspettarlo ottantamila uomini al comando di Catone, Metello Scipione, il suo ex luogotenente Labieno, e Giuba, re di Numidia.

Ancora una volta si trovò a lottare uno contro tre. Ancora una volta perse il primo scontro. Ancora una volta vinse la battaglia decisiva, che fu terribile. Dopo una breve sosta a Roma, andò a dare il colpo di grazia all’ultimo esercito pompeiano, quello di Spagna. Lo sbaragliò a Munda, e finalmente poté dedicarsi interamente all’opera di riorganizzazione dello Stato. Ne aveva ormai i poteri perché il Senato gli aveva concesso il titolo di Dittatore dapprima per dieci anni, poi a vita. Cesare aveva capito che non c’era più nulla da sperare dai romani di Roma, ormai ammolliti, imbastarditi e incapaci di fornire altro che degl’intrallazzatori e dei disertori. Egli sapeva che il buono era solo in provincia, dove la famiglia era rimasta salda, i costumi sani, l’educazione severa. E con questi provinciali di origine contadina o piccolo borghese intendeva riformare i quadri della burocrazia e dell’esercito.

Le Idi di marzo

Senza tralasciare nuove imprese militari: vendicare Crasso contro i Parti, estendere l’impero sulla Germania e la Scozia. Nel febbraio di quell’anno 48 stava già redigendo i piani per quelle campagne, quando Cassio sì mise alla testa della cospirazione e cercò di attrarvi Bruto, che Cesare seguitava ad amare come un suo figlio, forse sapendo che lo era.

Ai primi di marzo, dopo averlo ben bene lavorato, Cassio venne a dirgli che ai prossimi Idi, cioè il 15, Cesare avrebbe fatto il gran colpo. Il suo luogotenente Lucio Cotta avrebbe proposto all’Assemblea, già decisa ad approvare, di proclamare Re il Dittatore, perché la Sibilla aveva predetto che solo da un Re potevano essere battuti i Parti, contro cui si stava preparando la spedizione. Sull’opposizione del Senato non c’era da sperare; la sua recente riforma aveva dato la maggioranza ai cesariani. Non restava quindi che il pugnale, prima che fosse troppo tardi. Cesare, quella sera, pranzava in casa con alcuni amici. Secondo il costume degli anfitrioni romani, propose un tema di conversazione: «Che morte preferireste?». Ognuno disse la sua. Cesare si pronunciò per una fine rapida e violenta. L’indomani mattina Calpurnia gli disse di averlo sognato coperto di sangue e lo pregò di non andare in Senato. Ma un amico che apparteneva alla congiura venne invece a sollecitarlo, e Cesare lo seguì mancandone di poco un altro a lui fedele che veniva a informarlo del complotto. Per strada un chiromante gli gridò di guardarsi dagl’Idi di marzo. «Ci siamo già» rispose Cesare. «Ma non sono passati» ribatté l’altro. Nel momento di entrare in aula, qualcuno gli mise in mano un papiro arrotolato. Cesare credette che si trattasse di una delle solite suppliche e non lo svolse. Lo aveva ancora in pugno quando mori: era una circostanziata denunzia. Era appena entrato nell’aula, che i congiurati gli furono tutti addosso col pugnale. L’unico che poteva difenderlo, Marc’Antonio, era stato trattenuto in anticamera da Trebonio. Cesare, dapprima, cercò di ripararsi col braccio, ma smise quando vide, fra gli assassini, anche Bruto. È molto probabile che abbia detto effettivamente: «Anche tu, figlio mio?», come ha raccontato Svetonio. E una frase che avrebbe pronunciato qualunque padre, in quelle condizioni.

Cadde trafitto di colpi ai piedi della statua di Pompeo, che aveva fatto egli stesso installare lì e cui usava inchinarsi quando vi passava davanti.

Fonte: Fascicolo numero 1 della collana “I Protagonisti”, pubblicato a puntate dal quotidiano Il Giornale nel 1993

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ELENCO DEI PERSONAGGI:

1. CAIO GIULIO CESARE
2. TEODORICO
3. FEDERICO II DI SVEVIA
4. DANTE ALIGHIERI
5. FRANCESCO DATINI
6. I BORGIA
7. PAPA GIULIO II
8. NICCOLÒ MACHIAVELLI
9. PIETRO ARETINO
10. BENVENUTO CELLINI
11. GALILEO GALILEI
12. GLI ULTIMI MEDICI (Cosimo e Gian Gastone)
13. GIACOMO CASANOVA
14. UGO FOSCOLO
15. GIUSEPPE GARIBALDI
16. PAPA PIO IX
17. BETTINO RICASOLI
18. FERDINANDO II DI BORBONE
19. CAMILLO BENSO DI CAVOUR
20. GIUSEPPE VERDI
21. FRANCESCO CRISPI
22. GIOVANNI GIOLITTI
23. VITTORIO EMANUELE III
24. IL PROTO-DUCE

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