Mao 1966-1996: Il vero volto della rivoluzione culturale che illuse una generazione

Uno sconvolgente dossier-verità sulla rivoluzione culturale, sul mito del maoismo e sulle illusioni di una generazione

di Luigi Offeddu

Un pomodoro pesava trentacinque chili. In una comune agricola, nacquero pulcini due volte più grandi di un tacchino comune. E un uomo, in fin di vita per un tumore al fegato, guarì dopo aver letto le opinioni personali di un altro uomo su come incrementare la produzione industriale.

Era l’anno 1968. La notizia di questi e altri portenti giunse dalla Cina in Occidente insieme con l’annuncio che un miliardo di persone, negli ultimi due anni, aveva costruito il paradiso in Terra. Trovandogli anche un nome: «Grande rivoluzione culturale proletaria». L’Occidente ascoltò. E rimase abbacinato. Non poteva controllare il peso di quel pomodoro, né le dimensioni di quei pulcini. Ma aveva una gran sete arretrata di terre promesse. Così, le sue generazioni più giovani sentirono profondamente il fascino, anzi la fascinazione, della palingenesi annunciata a Oriente. Laggiù, dall’altra parte della Terra, era nato l’uomo nuovo: giusto, altruista, e anche sazio, liberato dal bisogno; perché non sarebbe stato possibile dargli vita anche a Parigi, a Berkeley, o a Sesto San Giovanni?

Il sogno cambiò menti, vite, storie personali. E ben pochi, alla fine, poterono dire di essere rimasti a guardare. Nelle università e nelle fabbriche, nella politica, nella letteratura, nell’arte, nel cinema e nei costumi: l’onda di risacca passò dovunque. Poi si dileguò, stemperandosi in una pigra schiuma, molti anni dopo aver abbandonato il suo paese d’origine. Ma qualche segno lasciò sulle rive, qui e laggiù, che ancor oggi si vede.

Sono passati trent’anni. Gli storici di tutto il mondo, pur nelle diverse sfumature, hanno raggiunto un giudizio concorde sulla Rivoluzione culturale: non fu un fenomeno di massa, ma uno scontro dì potere ai vertici del regime cinese, allargato per motivi strategici a tutte le fasce della società. Su almeno altri due punti, da anni, non si discute più. Primo: lo scontro ebbe alle origini il fallimento del «Grande balzo in avanti», la riforma che dal 1958 – così aveva promesso Mao Zedong – avrebbe dovuto raddoppiare in un anno la produzione dell’acciaio; e che invece portò, nel 1960-61, a una carestia gravissima, con un numero di morti compreso fra 30 e 42 milioni. Secondo, fu proprio Mao, in difficoltà dopo quel fallimento, a escogitare nel 1966 la riscossa contro i suoi rivali: quel Liu Shaoqi al quale aveva lasciato la presidenza della repubblica; e quel Deng Xiaoping, segretario del partito, che aveva avviato una timida riforma, concedendo qualche terra in affitto e aprendo le porte al piccolo commercio.

In quella primavera del ’66, può anche darsi che Mao volesse sinceramente colpire i burocrati di partito, e tentare ancora di dar compimento alla sua rivoluzione. Questa è una possibilità. È una certezza, invece, la sua volontà di assestare un colpo decisivo a Liu e Deng.

Mao li considera i Kruscev cinesi. E lui, che si è spesso paragonato a Stalin, reagisce come avrebbe fatto Stalin, con una «cistka», o purga, a tutti i livelli. Ma in maniera molto più sottile, molto più orientale. Stalin aveva usato negli anni Trenta la polizia segreta, la Nkvd, progenitrice del Kgb; Mao si appella direttamente ai popolo, contro il partito che egli stesso ha creato, e fa del popolo il suo Kgb.

Esaurita la purga ai vertici, il popolo-Kgb la continua su se stesso, di fascia in fascia e di generazione in generazione, a cerchi sempre più ampi e sempre più insanguinati, in una vera psicopatia di massa, o in un delirio collettivo di persecuzione. Prima le guardie rosse contro gli intellettuali e i funzionari di partito; poi i «ribelli», cioè le «nuove» guardie rosse, contro le «vecchie» (e i quindicenni contro i ventenni); poi le varie fazioni di ribelli in lotta fra loro, e ancora l’esercito contro tutti, fino alle soglie della guerra civile totale. Tutta la società viene coinvolta. E alla fine parrà che nessuno possa restare innocente: neppure i bambini, apparsi fra i più solerti denunciatori dì padri, madri e nonni nei processi popolari.

Dietro il palcoscenico imbrattato di rosso su cui si affollano protagonisti e comparse, un solo fondale resta ben saldo: la divinizzazione di Mao, che accomuna in un solo culto tutti i contendenti in campo. Lui, il grande timoniere, assiste. Al massimo indica i bersagli. Ma non agisce mai in prima persona, non firma una sola condanna, concede solo il suo «mo-xu», il tacito consenso.

Proprio come gli imperatori che lo avevano preceduto nei millenni, con uguali poteri. E Mao farà anche meglio di loro. Riuscirà a cambiare il senso della parola «yi wu», importantissima nell’etica confuciana: per millenni ha significato «dovere, obbligo» e con Mao diventerà «servizio volontario». Tanto che, nel 1976, l’articolo 6 della costituzione cinese dirà: «Il diritto e il dovere di ogni cittadino è di essere favorevole alla direzione unica del partito». Diritto e dovere, sostantivi sinonimi: George Orwell non avrebbe saputo inventare di meglio.

Documento segreto

Il 1976 è anche l’anno in culla Rivoluzione culturale finisce con la morte della «Grande guida» e l’arresto della moglie, l’imperatrice rossa Jiang Qing, con la sua Banda dei quattro. Bilancio finale, citato nei primi anni Ottanta in un documento segreto del partito: 100 milioni di vittime fra morti ammazzati e suicidi, feriti, arrestati, deportati (la guerra cino-giapponese del 1937-45 aveva causato 12 milioni di morti).

«Sono stato io ad appiccare l’incendio» disse un giorno Mao. «Per anni ho pensato al sistema migliore per dare una scossa. Poi ho avuto quest’idea». Era sincero, a ripensarci ora: la Rivoluzione culturale fu anche e soprattutto un allucinato gioco di specchi, o meglio di ombre cinesi, in cui ciò che apparve spontaneo spesso non lo fu. E viceversa.

Per anni, per esempio, gli storici hanno definito come «prima scintilla» il gesto del professorino Nieh Yuanzi, che il 25 maggio 1966 affigge all’università di Pechino il primo tazebao in cui si invitano gli intellettuali a combattere «radicalmente, totalmente, risolutamente, contro i revisionisti». Fu una scintilla, è vero, ma sprigionata, come si sa oggi, da un acciarino ben congegnato. Cioè da Kang Sheng, lo spettrale e temutissimo capo dei servizi segreti: che aveva dettato il testo del tazebao, e che lo ripubblicò 24 ore dopo sul Quotidiano del popolo.

Questo, proclama Mao, è «il primo colpo di cannone della Rivoluzione culturale». Il resto è valanga. Il 13 giugno vengono sospesi esami e lezioni nelle scuole e università, ma con l’obbligo per gli studenti della «presenza militante» 24 ore su 24. E il Quotidiano del popolo incita a far piazza pulita dei «diavoli bue e demoni serpente», vale a dire dei «seguaci del capitalismo»: e cioè – infine lo si dirà apertamente – degli intellettuali e dei funzionari di partito non allineati. Di intellettuali borghesi, attacca Mao, è formata «la maggioranza degli insegnanti». Segnale ricevuto: all’università di Pechino si sfasciano i banchi e cominciano i pestaggi.

Ancora qualche giorno e Mao sentenzia: «La ribellione è giustificata. Bisogna distruggere il vecchio mondo per crearne uno nuovo». 115 agosto, gli fa eco il più celebre dei tazebao: «Bombardate il quartier generale». Non c’è bisogno di altro. Da anni, dopo il fallimento del Grande balzo in avanti, si respira nell’aria la sensazione di grandi eventi imminenti. Nasce da molti fattori diversi: le privazioni causate dalle carestie, il tabù imposto su ogni dibattito politico, il divieto di qualunque forma di associazione al di fuori del partito unico, la consapevolezza di una rivoluzione mai compiuta, l’evidenza del privilegio in cui rive ogni «mandarino rosso», i rancori e le paure lasciati da cinque campagne di epurazione nell’arco di 17 anni. Tutto questo ha avuto un solo effetto: far lievitare la tensione, una tensione febbrile e sfuggente che serpeggia in tutta la società. L’intera Cina, nell’estate 1966, è come un pentolone ribollente, pieno fino all’orlo, con un vecchio coperchio pieno di buchi posato di sghimbescio.

Distruggere i «quattro vecchi»

Intorno a questo pentolone, semisoffocati dai suoi vapori, attendono milioni di giovani. Sono in buona fede, pieni di ragioni anche personali per ribellarsi. Per esempio, sanno bene come i meccanismi di ammissione alle università siano inquinati dalla burocrazia di partito. E poi sono cresciuti imparando come affrontare il «nemico di classe»: che forse non c’è ancora ma che certo un giorno verrà, così hanno sempre promesso insegnanti e attivisti dipartito.

Ecco, quel giorno è venuto. I giovani non hanno più neppure impegni di studio: li ha liberati Mao, chiudendo le scuole. Hanno davanti lunghi mesi vuoti, in cui sfogare tutta la loro energia. Sono militanti ideali: coraggiosi, irruenti, manovrabili. Sono, in una parola, le prime guardie rosse. Tutte con i galloni: nelle brigate c’è solo il grado di generale, non esiste quello di soldato semplice. Già a fine luglio, le guardie giurano: «Ci impegniamo a combattere una guerra sanguinosa contro chiunque osi opporsi al presidente Mao». E Mao non le lascia senza risposta: l’1 agosto, assicura loro il suo «più caloroso appoggio».

Il 18, 1 milione di questi giovani è radunato in piazza Tienanmen. Lin Biao, ministro della Difesa, li chiama a distruggere «i quattro vecchi»: «Vecchie idee, vecchia cultura, vecchie tradizioni, vecchie abitudini». La folla sventola i libretti di Mao, primi di quei 3 miliardi di copie che verranno stampati in sette anni. Volano i berretti. Si inneggia al «Sole rosso, rosso, rosso», cioè a Mao. E Lin Biao punta lentamente il pugno chiuso contro il cielo, come in un gesto rituale. Poi, file di autocarri stracarichi partono per i quattro angoli della città. Accade, nelle stesse ore, anche a Canton e Shanghai, a Nanchino e a Wuhan. La grande ondata è partita.

Nella cronaca di quei mesi, turbinano sempre le stesse immagini che ormai fanno parte della storia. I saccheggi delle scuole e dei musei, le incursioni nelle case, gli antichi vasi imperiali scagliati contro i muri, i falò di libri e di quadri («erbe velenose» cioè opere borghesi), i professori che sfilano con i lunghi cappelli di carta a forma di cono e i cartelli al collo con la scritta «demone»; e le teste deturpate a metà dalla rasatura «yin e yang», «buio e luce». Poi le sessioni di lotta: il nemico di classe «niu-shi-ge-da», «sterco inutile anche come letame», inginocchiato fronte a terra, e le cinture con le fibbie d’ottone che gli roteano sulla schiena, prima dell’inevitabile autocritica.

La danza macabra è scandita dalle periodiche riflessioni di Mao. Quando egli dice: «Misericordia per il nemico è crudeltà per il popolo», al posto delle fibbie d’ottone compaiono pistole e fucili. E viene reintrodotta ufficialmente la tortura, distinta dal «tormento» (semplici botte, o pratiche umilianti come lo shampoo nel secchio degli escrementi).

Nien Cheng, moglie del direttore della Shell in Cina, incarcerata e torturata dal 1966 al 1973 come «spia britannica», descrive così le vie della città natale, viste dalla jeep che il 27 settembre 1966 la porta in prigione: «Le strade di Shanghai brulicavano di umanità. Sui palchi improvvisati, eretti ovunque, giovani attivisti invitavano la gente a unirsi alla rivoluzione o celebravano processi lampo contro persone colpevoli di non avere con sé il libretto rosso… A ogni cantonata, gli alto-parlanti rimandavano inni e slogan. Lungo i marciapiedi si allineavano camion carichi di masserizie confiscate. Nell’aria, l’odore del fumo dei libri che le guardie rosse continuavano a bruciare».

Ma la Rivoluzione culturale non è solo tumulto di piazza. È anche e soprattutto tumulto nelle anime, nei caratteri, nei costumi: nulla – questo è l’ordine – deve restare di personale, di intimo, di privato. «Cancello il mio individualismo come il vento d’autunno spazza via le foglie» canta il soldatino-poeta Lei-Feng, citato a esempio da Mao. Ecco così, già nel 1965, gli inviti a eliminare erba, aiuole, animali domestici, come relitti di «costumi borghesi». Più tardi, vengono uccisi pesci rossi e uccellini nei parchi. Calpestati i fiori. Spezzati i rami delle magnolie, perle tradizionali del paesaggio cinese. E spezzate anche le dita dei pianisti, e le gambe di alcuni acrobati, esempi di individualismo. Proibite le storie di spettri: l’aldilà non esiste. E le fiabe di Andersen, troppo sdolcinate.

Proibiti Dickens, Beethoven, Goethe, criticato Antonioni nel 1974: non hanno mitra, ma – avverte Mao – «hanno le pallottole di zucchero della borghesia». Nemico è tutto ciò che è tradizione: a Pechino vengono distrutti 4 mila libri della dinastia Ming, 500 quadri della dinastia Qin, e i 120 Tredici classici, prima opera rilegata a costa nella storia del libro. Nel 1975 Shih Yunfeng, operaia di 28 anni, chiede in un volantino il ritorno dell’opera cinese: arrestata, fucilata due anni dopo.

Paradossalmente, la guerra alla tradizione coincide con la rivalutazione dell’antichità nei suoi aspetti più rozzi. Torna il millenario puritanesimo cinese: molte coppie sorprese a baciarsi sotto un lampione finiscono ai lavori forzati. È proibito, già nel 1966, guardarsi allo specchio in pubblico. Vengono rasate per strada le donne con le trecce. I tacchi alti vengono segati sul posto. E ce un’unica vera moda: avere vestiti senza forma. Molti si cuciono finte toppe sui pantaloni per sembrare più proletari.

Nasce la mistica delle cattive maniere. Ogni buona guardia rossa non parla: urla. E scrive, volontariamente, a sgorbi: la bella calligrafia è bollata come voluttà di decadenza. Sputare è un’antica abitudine cinese, ma ora diviene un dovere; lo stesso per il rutto e altre funzioni corporali, che si crede appropriato svolgere in pubblico. Chiuse le case da tè e i circoli degli scacchi, sbarrate le biblioteche, anche il tempo libero diviene reato: ma il reato più grave, bollato come «distacco dalle masse», è cercare la solitudine, starsene in disparte.

All’inizio del ’67, Mao annuncia che i «ribelli», cioè le «nuove» guardie rosse, hanno preso il potere a Shanghai. E invita tutti i cinesi a imitarli, attaccando i seguaci del capitalismo: «duo-quan», prendere il potere, come se questo fosse lì, a disposizione di tutti. Ma chi sono ora i seguaci del capitalismo? Mao non lo dice. E questo è il suo capolavoro: poiché tutta la popolazione è da anni organizzata in unità, ciascuna con un suo responsabile, nelle fabbriche come nei condomini ogni numero due viene incitato al «duo-quan» contro il suo numero uno. Mao ha scoperto la sorgente mai arida dell’invidia, del risentimento personale, e la sfrutta fino in fondo.

Seguaci del capitalismo possono essere gli «you-du bu-fang», «i destristi che hanno il veleno in corpo ma non lo sputano»; oppure i «ce-suo-you-pai», «i destristi del gabinetto» (denunciati perché andarono al bagno durante un’assemblea); o ancora i «chou-qian you-pai», «i destristi del testa o croce» (tirano a sorte per sapere con chi schierarsi). «Quando c’è la volontà di condannare c’è anche la prova» diceva un antico proverbio manciù; che ora ritorna in voga.

Si compie la frattura tra parole e significati, il «zi-qi-qi-ren» (mentire a se stessi mentendo agli altri), che spiega anche quei pomodori da 35 chili; schizofrenia linguistica che porta a un diffuso senso di irrealtà. E all’adorazione pagana delle forme: alla stazione di Pechino, sotto un immenso ritratto di Mao, è nella calligrafia di quest’ultimo che sono tracciati i tre ideogrammi della parola «stazione».

Nelle città, i rivoluzionari sì chiedono perché i semafori segnalino lo stop con il rosso, il colore che dovrebbe sempre indicare il progresso. E perché il traffico circola sulla destra? Meglio invertire tutto. Mentre si discute, con i semafori disattivati, le città piombano nel caos. Alla fine si decide, tutto come prima: così si va contro la decadente Gran Bretagna, dove le auto marciano a sinistra. Nello stesso periodo, altoparlanti e pali del telegrafo divengono «oggetti da difendere con la propria vita» poiché divulgano il verbo di Mao.

Nelle case si accumulano pacchi di vecchi giornali: hanno il ritratto di Mao in prima pagina, come buttarli via? Ma anche tenerli per sempre è pericoloso, i topi potrebbero rosicchiarli. Una volta, una ragazza si siede su una pila di questi giornali ingialliti: denunciata, arrestata, condannata. Un uomo usa una pagina come carta igienica, raro tesoro dell’epoca: denunciato e torturato (era già accaduto a Mosca, nel 1938, per una Pravda trovata nel bagno di un ministero). In certe fabbriche non si usino più le macchine perché solo il lavoro a mani nude esprime la fedeltà al Grande timoniere. Molto tempo dopo, il 23 agosto 1978, il Quotidiano del popolo racconterà di un tecnico che aveva disegnato con il gesso su un muro lo schema di una caldaia; su quel muro era inciso il nome di Mao, e il tecnico lo copri per sbaglio: 7 anni di carcere.

Il distacco dalla realtà si alimenta anche con la dislocazione spazio-temporale: fanno parte di questo le assemblee improvvise a mezzanotte, chiamate «rapporto serale con danza di lealtà» poiché si balla roteando il libretto rosso: e le riunioni all’alba, o «richieste mattutine di istruzioni al presidente». Ma anche le deportazioni: in sette giorni, Nanchino perde un terzo dei suoi abitanti.

Estate 1967, i «ribelli» combattono fra loro con i cannoni. Interviene l’esercito. E fino al settembre 1971, quando muore misteriosamente Lin Biao, è il terrore. Nei 1975, c’è l’ultima campagna, «La nostra patria socialista è il paradiso». Nell’aprile ’76, ai funerali di Zhu Enlai, scoppia la protesta. Il 9 settembre muore Mao.

Della Rivoluzione culturale restarono le statue abbattute, i templi distrutti, i campi sconvolti; le vite devastate. E il mistero di Mao: dell’uomo che aveva causato tutto, ma che aveva anche restituito un orgoglio nazionale ai cinesi, ramificandoli, dando loro un’identità statuale negli anni Cinquanta, e una bomba atomica nel 1964. Per tutto ciò aveva chiesto molto in cambio.

Ma non era stato il primo a farlo. Un altro uomo, nel secondo secolo dopo Cristo, aveva unificato la Cina. Poi aveva sotterrato vivi 460 intellettuali confuciani, aveva spedito tutti gli altri a costruire la Grande muraglia, e bruciato i loro libri. Spettava anche a lui l’appellativo di «ta-lao-ren-jia», «grande, venerabile e reverendissimo». Lui, però, non era un capo del partito comunista. Era Qin Shehuang, primo imperatore della dinastia Ts’in. E con tutta la sua potenza, mai era riuscito ad ammaliare altri milioni di uomini che vivevano dalla parte opposta del globo, in Occidente. Mai il suo viso era comparso sulle loro bandiere, sulle loro magliette, o sulle pareti delle loro stanze da letto.

Giugno ’67, Harbin, alcuni tecnici agrari vengono portati davanti al plotone di esecuzione e fucilati per aver manifestato simpatie sovietiche ed essersi opposti al presidente Mao Zedong. [Photo di Li Zhensheng]

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E il chirurgo troppo bravo andò a finire nel porcile

I pescatoli decapitati per non aver partecipato a una riunione di partito. Il cattolico «convertito» col fuoco. E poi… Queste notizie filtravano. Ma pochi ci credevano.

di Giancarlo Politi

Padre Giancarlo Politi, missionario del Pime (Pontificio istituto missioni estere), è uno dei migliori conoscitori italiani della realtà cinese. Per 23 anni, dai tempi della Rivoluzione culturale, ha fatto la spola fra Hong Kong, dove aveva una sua parrocchia, e tutte le regioni della Cina, mantenendo i contatti con i cattolici locali; e diventando testimone delle persecuzioni da essi subite. Oggi, Politi dirige la rivista Mondo e Missione e l’agenzia di stampa Asianews. Anche in questi giorni si trova in Cina: prima di partire, ha inviato a Panorama questa testimonianza sulla sua prima missione, in piena era di Mao.

Nell’estate 1970, quando arrivai per la prima volta a Hong Kong (e vi restai poi fino al chiudersi del 1993), ciò che accadeva al di là della «cortina di bambù« era, e restava, un mistero sommamente attraente. Personalità eminenti della rivoluzione cinese – come Chen Boda, segretario di Mao Zedong dai tempi di Yen’an, e il terribile Kang Sheng, che aveva distrutto una serie interminabile di vite umane in qualità di capo dei servizi segreti – stavano sparendo dai primi piani della ribalta cinese. Era in ascesa rapida Lin Biao, a sua volta destinato a scomparire l’anno seguente, in un misterioso, incidente aereo accaduto nei cieli della Mongolia.

L’atmosfera che mi trovai a respirare appena giunto a Hong Kong era notevolmente politicizzata. Due fronti contrapposti: chi vedeva l’esperimento socialista cinese come il modello ideale sul quale costruire la convivenza civile dell’immediato futuro, e chi invece ne sottolineava solo gli aspetti negativi, e veniva – per questo – allineato con il regime «reazionario» di Taiwan. In mezzo stava l’amministrazione coloniale, preoccupata di mantenere un difficile equilibrio, in alcuni momenti pagato a ben caro prezzo.

Il primo fronte, il più incandescente, attirava con tutta la sua forza ideale soprattutto i giovani, compresi quanti arrivavano dall’Europa (e senza escludere i missionari). La (dis)informazione a senso unico e l’impegno militante per cambiare il mondo rendevano possibile quello sguardo «tutto simpatia» che seguiva le vicende cinesi.

Il territorio di Hong Kong è separato dalla Repubblica popolare da poche decine di chilometri di confine, per un buon tratto lungo il corso del fiume Sham Chun, e dalle due grandi baie, Deep Bay a Sud e Mirs Bay a Nord-est. Percorrere quei tratti era emozionante: il sapersi così vicini fisicamente alla «nuova Cina» portava memorie, e fantasie, di un mondo enigmatico; di una situazione ammirata attraverso le fumose cortine della lettura fatta da altri in Occidente. Ma proprio da quella sessantina di chilometri di confine, filtravano lentamente gli elementi che hanno aiutato molti ad acquisire una visione più concreta della realtà.

Per me, il primo grande shock fu l’incidente di Lau Fau Shan, che allora era un piccolo villaggio di pescatori a una mezz’oretta di barca da Shekou, sulla riva opposta. Un mattino, i corpi decapitati di alcuni pescatori, non troppo inclini a partecipare alle lunghe sessioni di studio organizzate dalla comune rossa, furono fatti trovare su una barca lungo la costa inglese della baia.

Altri fatti misteriosi erano accaduti a 30 chilometri di distanza, nel villaggio di Sha Tau Kok, la cui stradina principale era attraversata dalla linea di confine: parecchie persone erano sparite nel nulla, dopo essere state trascinate dal marciapiede in territorio di Hong Kong a quello sotto la sovranità cinese. Per giorni, i quotidiani della colonia diedero molto risalto all’evento.

Qualche tempo dopo, assegnato dal vescovo all’allora unica parrocchia di Tsuen Wan (oltre 600 mila abitanti) e ancora pressoché «balbettante» nella lingua cinese, ebbi per la seconda volta il mio scontro con la realtà. Non ne ricordo il nome, ma la sua figura l’ho ancora impressa nella mente, distinta: era un giovane di 34 anni, arrivato clandestinamente dall’entroterra cinese, da poche ore. A quel tempo, gli immigrati clandestini che riuscivano a raggiungere la città godevano del diritto d’asilo. Era cattolico, sposato con due figli. Il volto era sfigurato: «dal fuoco» mi disse. Era stato definito «reazionario ed elemento retrogrado» perché credente: e per convincerlo a rinunciare alla sua fede, gli avevano sfigurato il volto. Moglie e figli erano morti per le violenze subite durante una «sessione di lotta», come venivano chiamati gii ingiusti processi popolari che avevano sconvolto l’intero tessuto sociale cinese.

Poi arrivarono Antonio e Lucia, entrambi medici. Lui, primario chirurgo in una delle facoltà della grande scuola di medicina a Wuhan; lei, cattolica, esercitava la sua professione in un altro ospedale della città. Nel 1967, Antonio perse il suo posto, perché definito intellettuale e «insolentemente esperto» nel suo campo: per mesi, venne trascinato per le strade della città vestito da giullare, e poi costretto a lavorare in un porcile. La moglie fu invece inviata a lavorare in campagna, per «imparare dai contadini». Giunti a Hong Kong, la prima cosa in cui Antonio volle impegnarsi fu di diventare cattolico: la fede della moglie gli aveva dato la speranza e la forza necessarie per andare avanti. Il racconto della sua dolorosa esperienza, in una serie di incontri settimanali che durò anni, mi fece scoprire non «i costi» di una rivoluzione vista asetticamente (Mao, a chi aveva avuto il coraggio di fargli notare le enormi sofferenze che la rivoluzione stava provocando tra i suoi compatrioti, aveva risposto che essa non era proprio un picnic), ma la profonda e tremenda ingiustizia che aveva colpito così tante persone innocenti, nel loro fondamentale diritto di vivere.

Il 1979 apri finalmente il confine: i frutti di quella follia – «la catastrofe nazionale», come chiamò quel decennio un documento del Comitato centrale del Partito, due anni dopo – si vedevano anche nei negozi: scaffali vuoti e nulla da comprare, una miseria diffusa ed equamente distribuita fra tutti gli strati della popolazione, nelle campagne e nelle città. Le abitazioni, i negozi e la gente erano lo specchio di un fallimento colossale, il cui prezzo continuava a essere pagato da persone ormai rassegnatesi al loro ruolo di vittime.

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’68 E DINTORNI. QUELLI CHE INNEGGIAVANO ALLA RIVOLUZIONE CULTURALE

Compagni miei, maoisti immaginari

Da Godard a Bellocchio, da Fortini alla Rossanda: ecco perché molti artisti e intellettuali, oltre a migliaia di studenti, si sono lasciati ipnotizzare dall’icona del Grande timoniere. Ma al risveglio…

di Giampiero Mughini

Di tutti gli intellettuali occidentali che negli anni Settanta ebbero a che fare con il mito di Mao, Andy Warhol è quello che seppe andare più a fondo, proprio lui che si vantava di essere ammaliato soltanto dalla superficie delle cose. Erano gli anni in cui registi di valore come il francese Jean-Luc Godard o l’italiano Marco Bellocchio, economisti di rinomanza internazionale come l’inglese Joan Robinson, giornalisti adusati come il polacco K. S. Karol o l’italiano Alberto Jacoviello, intellettuali carismatici come Simone de Beauvoir o Franco Fortini o Charles Bettelheim, eretici della sinistra come Rossana Rossanda o Aldo Natoli, erano tutti come abbagliati dalla luce del volto sicuro e suadente del Presidente Mao.

Partendo dalla gigantografia di quel volto, da quel volto che era di per sé un’icona, Warhol fece oli e serigrafie che fungevano da ritratti tanto sgargianti di colori quanto enigmatici. Ogni volta chiazzava la gigantografìa di colori i più diversi e messi a caso, in modo da dare un rilievo sempre diverso agli occhi, alle labbra, alle guance, al lembo della casacca. Tante mescolanze di colori, tante serigrafie, tanti Mao i più diversi, tante icone ribaltate di segno. Una volta Mao poteva apparire come il padre di tutti i poveri e diseredati del mondo; un’altra come il capo misterioso di una polizia segreta e temibile; un’altra ancora come il quinto della «banda dei quattro», proprio quel che i suoi concittadini lo accuseranno di essere stato al tempo in cui venne rovesciata la leadership maoista; una volta poteva apparire dolce e mite, un’altra spietato e senza scrupoli.

In realtà Warhol ne era perfettamente consapevole e ci giocava da maestro: Mao non esisteva, o comunque non era il Mao capo reale di una Cina reale quel che s’era impossessato di così gran parte dell’immaginario occidentale degli anni Settanta. Il Mao che così tanto aveva ipnotizzato i Bellocchio, i Bettelheim, le Rossanda, non era mai esistito né era mai esistita quella Cina che sembrava divenuta il presepe di ogni virtù, e dove invece cozzavano a morte le fazioni e dove la violenza politica di massa raggiungeva uno degli apici di questo secolo. Il Mao poeta, nuotatore, incitatore di studenti idealisti, nemico di burocrati di partito impigriti, se l’era inventato per intero la cultura occidentale, una cultura che su quelle immagini aveva proiettato le sue insicurezze e le sue contraddizioni. Di tutto questo sragionare Warhol se ne beffava alla grande, e il tempo darà ragione a lui, il grande scettico e il grande superficiale, anziché a economisti e sociologi ipnotizzati dalle citazioni contenute nel «libretto» di Mao.

Oggi che del mito di Mao non resiste più nulla, né in Occidente né in Cina, tutto questo sembra il racconto di roba accaduta un secolo fa. E invece ne erano infiammate le piazze e le università di Parigi come di Milano, non più tardi di trent’anni fa. Erano gli anni in cui il maestro della «nuova sinistra», il saggista e poeta milanese Fortini, andava in Cina e ne tornava scrivendo che quello era l’unico paese al mondo in cui la parola uomo conservasse tutta la sua dignità. Sul Manifesto mensile (incubazione e avamposto del quotidiano che sarebbe uscito il 28 aprile del 1971) la Rossanda aveva riempito pagine e pagine a dimostrare come li pensiero di Mao fosse l’attrezzo intellettuale il più aggiornato dei movimenti rivoluzionari, e che ai confronto persino Karl Marx appariva stagionato e old time.

«Ho visto anche cani felici»

Figlio del famoso economista Gunnar Myrdal e lui stesso sociologo, l’americano Jan Myrdal andò a girare per i villaggi cinesi attraversati dalla rivoluzione culturale e in un suo libro, pubblicato in Italia da Einaudi, scrisse che anche i cani vi avevano un’aria felice e paffuta. Enrica Collotti Pischel e Renata Pisu, studiose specializzate nelle cose della Cina, e che avevano accesso a testi e documenti incomprensibili al comune mortale, ci assicuravano che in Cina stavano succedendo mirabilie economiche e sociali. Viaggiatori illustri arrivavano in Cina, venivano presi per mano e mai mollati un istante da accorti funzionari di partito, gli si mostrava questa o quell’altra coreografia, e loro tornavano inebriati e a dire quanto l’Occidente facesse schifo al confronto.

Mai che a uno di questi visitatori, radiosi di trovare quello in cui già credevano e di cui si illudevano, accadesse quel che accadde anni dopo a un inviato del Corriere della sera, Piero Ostellino. Di trovarsi sulla piazza Tienanmen e di essere avvicinato da un uomo che non conosce e che gli adagia nelle mani una busta. Ostellino la apre, trova dei fogli scritti in cinese, se li fa tradurre: è il drammatico racconto di un insegnante di liceo che racconta le persecuzioni subite al tempo della Rivoluzione culturale cinese perché accusato di «deviazionismo di destra». Di quei racconti e testimonianze ne esiste adesso un’intera biblioteca.

No, ai viaggiatori alla ricerca di una Cina che esisteva solo nella loro immaginazione, e al tempo della loro beatificazione di Mao e del maoismo, episodi come questo non accadevano. Né trovavano nulla da obiettare a fatti come il belluino processo pubblico fatto nel 1967 dagli studenti di Pechino alla moglie di Liu Shaoqi, Wang Guangmei, che per ore e ore venne ricoperta di insulti e di minacce mentre era costretta a starsene in piedi su un palco con un paio di scarpe a spillo e al collo una collana di palline da ping pong, richiamo sarcastico al fatto che lei amava indossare una collana di perle. Venne poi condannata a 12 anni di carcere duro. E dire che era una donna (il suo nome in cinese vuol dire bellezza luminosa), e dire che erano firmate da donne alcune delle più autorevoli apologie della Rivoluzione culturale, da Edoarda Masi, da Lisa Foa, dalla Rossanda.

Tutto appariva loro nitido e felice, e ne faranno autocritica in molti, a cominciare dalla Pisu e dalla Collotti Pischel, e in Francia gente come i coniugi ed ex maoisti Claudie e Jacques Broyelle, che confesseranno di avere mentito e di non avere voluto vedere quel che vedevano. Tutto appare nitido e felice alla Simone De Beauvoir, che in Cina c’era stata alla fine degli anni Cinquanta. Condotta per mano da zelanti ciceroni di partito, c’era rimasta quindici giorni. Al ritorno aveva subito ponzato e scritto un volumone dove raccontava le mirabilie di quei paese, faro di giustizia sociale. In quegli anni François Fejtő, un socialista ungherese esule a Parigi e che conosceva ogni ripostiglio del comunismo reale, lavorava una grande agence press internazionale, ciò che gli permetteva di avere una messe di informazioni di prima mano sulla Cina, che al tempo del viaggio della de Beauvoir stava soffrendo di una crisi economica spaventosa, e la gente vi moriva letteralmente di fame. Fejtő incontrò la de Beauvoir e glielo rimproverò, di avere scritto di cose di cui non sapeva nulla. La de Beauvoir si ritrasse offesa e risentita.

Il delirio filocinese avvampò l’ala politicamente estrema del movimento studentesco italiano a partire dai primissimi anni Sessanta. Rullavano gli anni più belli del secolo, quelli in cui tutte le libertà sembravano fecondare un Paese resuscitato dai disastri della sconfitta militare e della guerra civile. Faceva da sfondo un’Europa vorace e culturalmente mobilissima, dove tutto era in movimento e in gioco. Noi ventenni, felici della nostra giovinezza, vedevamo dappertutto velieri da arrembare e su cui piantare la nostra bandiera, che era di un color rosso molto acceso. A notte, rimanevamo fino a tardi a raccontarci come avrebbe dovuto essere il mondo, e non c’era utopia sociale che ci bastasse. Avemmo presto tra le mani quei testi, di cui non ci importava che fossero sgraziati ma sì che fossero furibondi, ove una Cina che traboccava di uomini e di bisogni elementari dava addosso al «revisionismo» dell’Urss e dei grandi partiti comunisti occidentali.

Pur strettamente fedele al baricentro russo dell’organizzazione comunista internazionale, Palmiro Togliatti aveva sempre mantenuto basso il tono della polemica con i comunisti cinesi, che lo avevano invece eletto a capofila e maestro dei «rinnegati». L’attacco frontale dei cinesi divenne perciò una manna per chiunque rimbrottasse il Pci da sinistra. La diaspora di gruppi e gruppetti estremi ne venne moltiplicata in velocità.

C’erano stati gli operaisti torinesi e milanesi capeggiati da Raniero Panzieri, gente che puntava su un sindacato più duramente antagonista nelle grandi fabbriche del Nord. C’erano i socialisti di sinistra, da Vittorio Foa a Lelio Basso, che stavano per rompere con il Psi di Pietro Nenni, di cui criticavano l’alleanza con la Dc nei governi di centrosinistra. C’era tutta una genia di comunisti ingraiani che volevano andare oltre Pietro Ingrao, e da cui sarebbe nato il Manifesto, gente che voleva assieme più politica di sinistra in Italia e più libertà nei paesi del comunismo reale. C’erano poi le nuove generazioni irruente, a Pisa come a Trento, a Torino come a Napoli, a Milano come a Catania, alla cui testa erano leader assieme comunisti e libertari come Adriano Sofri e Guido Viale, gente che si abbeverava a tutte le acque della sinistra, ivi compresa quella maoista. Erano i cento fiori della generazione detta del Sessantotto, lì dove s’erano compiuti gli slalom della nostra formazione politica.

In quella generazione una data spartiacque è l’1 maggio del 1969, il giorno in cui tradizionalmente scorrevano per le strade delle grandi città i cortei dei lavoratori. Quell’anno, parallelo e minacciante, scorre dappertutto il corteo dei militanti dell’Unione dei marxisti leninisti, il gruppo filocinese assieme il più noto e il più famigerato nella galassia dell’estrema sinistra italiana. Ragazzi e ragazze che sino all’altro ieri erano andati matti per i dischi dei Beatles, per i romanzi di Franz Kafka, per i western di John Ford, per le gonne comprate a Carnaby Street, sfilano adesso solenni e compunti sotto i grandi cartelli con le facce di Mao e di Stalin. Hanno l’aria d’essere pronti a qualsiasi combattimento, a qualsiasi sacrificio. Sono felici di avere smesso ogni boria intellettuale, e bramano di andare a «servire il popolo», esattamente come stavano facendo le guardie rosse in Cina, e le foto pubblicate da Panorama in queste pagine ci raccontano oggi di quali ameni servigi si trattasse.

Entrare a far parte di un gruppo filocinese, non era come entrare a far parte di un gruppo qualsiasi dell’estrema sinistra, Potere operaio o Lotta continua. Era come entrare in un convento rosso, dove totale doveva essere l’annullamento della tua individualità a vantaggio delle ragioni del Partito e della Rivoluzione. Giù le zazzere lunghe, via le gonne corte, ci si doveva vestire in modo da non «scioccare» il popolo, destinatario di così tanta predicazione e di così tanto stalinismo. Quanto agli intellettuali che continuavano a spaccare il capello in quattro, al momento giusto loro sarebbero stati rieducati, così come stava avvenendo in Cina: mandandoli al lavoro duro, al lavoro che impegnava le mani e le sporcava, e perciò nettava l’anima da ogni scoria borghese. Come avvenne per esempio alla grande scrittrice Ting Ling, che dal 1958 al 1970 venne messa a lavorare prima in un pollaio e poi in una porcilaia, per poi finire in una cella di isolamento dove gli unici libri che le era consentito leggere erano quelli di Marx ed Engels.

In un modo o in un altro e seppure in gradi diversi, a questo delirio credettero in tanti. Ci credettero in tanti che poi hanno rimosso e che oggi, quarantenni di successo nelle professioni, ti rispondono che no, che loro il distintivo di Mao all’occhiello non lo hanno mai avuto, che il libretto lo avevano comprato sì ma non letto e tanto meno imparato a memoria. Ci credette Marco Bellocchio, il regista de I pugni in tasca, che quel Primo maggio c’era anche lui sotto i ritratti di Mao e di Stalin; ci credette, o comunque ne fu attratto, il regista culto di una generazione, quel Jean-Luc Godard uno dei cui film più interessanti si intitola La Chinoise, e a interpretare la figura della militante comunista era stata la stupenda Anna Karina; ci credette un brillante intellettuale come Luca Meldolesi, un allievo dell’economista Paolo Sylos Labini e che aveva fatto a Cambridge un rigoroso apprendistato scientifico; ci credette Goffredo Fofi, oggi valoroso collaboratore delle pagine culturali di Panorama, il quale mi confessò una volta d’essersi sognato il presidente Mao che lo fustigava, forse perché lo aveva colto in flagrante delitto d’aver messo la Rivoluzione al terzo posto dei suoi amori, ben dopo la letteratura e il cinema; ci credette Lou Castel, un attore che forse si difendeva a questo modo dai fantasmi che lo mordevano dentro; a Parigi ci credette uno che aveva zigzagato a lungo fra i percorsi dell’estrema sinistra, quell’avvocato Jacques Vergès che diverrà famoso per avere accettato di essere l’avvocato difensore del nazi Klaus Barbie; ci credette il fratello di Adriano Sofri, Gianni, di mestiere professore universitario, che nel 1973 visitò la Cina e ne scrisse in alcuni reportage anonimi apparsi su Lotta continua, e che ammetterà più tardi d’essere stato credulone e di essersi sbagliato; ci credette la moglie di un emerito redattore e capocollana della Einaudi, che veniva sbattuto fuori di casa ogni volta che la signora doveva fare una riunione politica con i suoi compagni, roba troppo seria perché vi assistesse quel «piccolo borghese» di suo marito; ci credette a suo modo, e il ricordo ancora me ne stupisce, il mio professore e maestro di studi letterari all’università, quel Carlo Muscetta che era stato nel secondo dopoguerra uno dei protagonisti della cultura gramsciana e storicista, e che ci diede da studiare un testo di Mao per un esame di letteratura italiana moderna; ci credette Sergio Restelli, un ragazzone del movimento studentesco milanese gran compagno di bevute e di giocate a carte, più tardi braccio destro di Claudio Martelli e reo confesso di avere chiesto e intascato una tangente; ci credette Lanfranco Binni, figlio del professor Walter Binni, che lasciò cadere gli studi dedicati all’amato André Breton e si scaraventò nello scontro tra le varie fazioni filocinesi; ci credette uno dei miei amici dei vent’anni il cui ricordo ancora mi tocca, quei Turi Toscano che avevo conosciuto socialista lombardiano la prima volta che commemorammo il 25 aprile 1945, e che poi si trasferì a Milano dove divenne il leader venerato del movimento studentesco, e ricordo le fanciulle della borghesia milanese appena tornate dalle vacanze a Cortina o a Capri che lo ascoltavano adoranti, nell’aula magna della Statale, mentre lui citava Mao e Lin Biao.

Il capoluogo italiano dei gruppi filocinesi, ovvero marxisti-leninisti, era divenuto Milano. Sì, proprio la Milano laica, prammatica aveva creduto al più delirante dei deliri. Lì aveva attecchito fin dai primi anni 60 un micropartito filocinese duro e cupo, il Partito comunista d’Italia marxista-leninista, il cui leader, Osvaldo Pesce, dové toccare il cielo con un dito il giorno che venne ricevuto da alcuni alti dirigenti del Pc cinese, e la foto ce lo mostra, compunto e segaligno, mentre cerca di tenersi dentro quello stato di beatitudine. Ma il gruppo più famoso sarà quello dell’Unione dei comunisti marxisti-leninisti, e sono pochi i ventenni di sinistra che tra 1969 e primi anni Settanta non lo abbiano sfiorato, non abbiano chiesto di farne parte, non lo abbiano guardato con ammirazione.

Farne parte non era di tutti; dovevi superare delle prove che attestassero la tua tempra di rivoluzionario, e difatti a un leader del movimento studentesco torinese che chiese di farne parte dissero che doveva cominciare con lo spazzare la sede torinese dell’Unione. Avevano un loro giornale, Servire il popolo, di inenarrabile e quasi comica orrendezza. Avevano sedi sparse dappertutto e un leader incontrastato e venerato, Aldo Brandirali, che dopo un lungo esilio politico è tornato di recente a far politica negli ambienti del cattolicesimo milanese (amico di quelli di Comunione e liberazione, era stato capogruppo dc al consiglio comunale di Milano).

Brandirali era di quelli che avevano mangiato pane e politica fin da ragazzo e sempre lo aveva fatto alla maniera del suo partito, da comunista rigoroso e totale. Tra anni Cinquanta e Sessanta era stato trockista, gente che nel Pci di quegli anni si nascondevano l’uno all’altro e si rivolgevano frasi a mezza bocca per non essere stanati ed espulsi. Finché Brandirali non scelse di andarsene dal Pci, e si portò appresso un bel pezzo della federazione giovanile. I trockisti erano fieramente avversi a Mao, di cui li mandava in bestia l’esaltazione di Stalin, e difatti il capo dei trockisti italiani, il romano Livio Maitan, questo atteggiamento non lo mutò di una virgola, e nell’era dell’invasamento filo-maoista seppe scrivere pagine intelligenti di critica della politica cinese.

Brandirali fece l’opposto, gettando a mare il trockismo e abbracciando la causa del presidente nuotatore e poeta. E con lui tutti i suoi seguaci milanesi. Sui quali ebbe per un tempo un potere assoluto, al punto di consigliare o sconsigliare quello o quell’altro matrimonio, e comunque se c’erano dei guai in una coppia, veniva convocato l’ufficio politico dell’Unione che ascoltava i due congiunti e decideva in merito.

Quando, due o tre anni dopo, l’Unione andò in malora come meritava, Brandirali si ritrovò solo come un cane. Quelli che sino all’altro ieri lo avevano venerato, adesso più non lo salutavano per strada. Dopo un decennio di solitudine totale, Brandirali si ritrovò vicino ai ragazzi di Comunione e liberazione. Io l’ho conosciuto alcuni anni fa, e gli sono divenuto amico. È un ragazzo generoso cui calzano a meraviglia le idealità cattoliche, l’idea di fare del bene al prossimo. Era questo che voleva fare, quando raccomandava ai suoi militanti di tagliarsi i capelli e di allungare le gonne, fare del bene al prossimo. E per un cattolico ce n’era di roba da attingere a piene mani, nel famigerato libretto delle citazioni del presidente. Dio che disastro, quelli che vogliono fare del bene al prossimo e imporre a tutti i costi la Virtù.

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE IN REDAZIONE

Intervista con Renata Pisu

di Elisabetta Rasy

Alla fine degli anni 50 Renata Pisu era studentessa all’università di Pechino. Quando con la Rivoluzione culturale le frontiere si chiusero, fu tra i pochissimi in Italia a capire cosa stava succedendo. «All’università a Pechino ero stata in una situazione protetta. Non tanto, però, da non rendermi conto della situazione».

E com’era la situazione?

Recentemente è venuto fuori che gli anni del «balzo in avanti» furono in realtà gli anni di una terribile carestia in cui persero la vita, si dice, dai venti ai trenta milioni di cinesi. Noi studenti ci rendevamo conto che il cibo scarseggiava, soprattutto da informazioni di natura personale. Io avevo una compagna che mi raccontò che sua madre a Shanghai aveva diritto a un etto di carne al mese, e spesso non riusciva neanche ad averla. In genere era attraverso questo tipo di informazioni che riuscivamo a capire un po’ la situazione. Per esempio sapevamo che la caccia al dissidente ideologico era già cominciata. Questo mi permise quando tornai in Italia di capire che cos’erano in realtà le cosiddette autocritiche.

Quando tornò in Italia la Rivoluzione culturale era già cominciata?

Io tornai in Italia nel ’63. La Rivoluzione culturale era già cominciata nel senso che era già cominciato il contrattacco di Mao per riprendere il potere a Liu Shaoqi. Questo contrattacco sfocia nel ’65-66 nella Rivoluzione culturale, che era il modo di far fuori gli oppositori.

E in Italia di tutto questo cosa si sapeva?

Praticamente niente. Bisogna ricordare che c’era la disputa ideologica Cina-Urss. Il Partito comunista cinese cercava di creare un’ala filocinese nei partiti comunisti esistenti, per esempio attraverso sovvenzioni a riviste e pubblicazioni, oppure con inviti a delegazioni marxiste-leniniste che poi raccontavano meraviglie.

Dunque il maoismo italiano nacque per effetto della propaganda cinese?

E naturalmente perché c’erano molti comunisti stufi dell’Urss che nella Cina così lontana e con quei suoi slogan verbalmente così attraenti vedevano la novità libertaria che stavano aspettando.

Da qui nel ’66 lei riusciva a farsi un’idea di quello che stava succedendo?

Io sì, forte dell’esperienza di prima, ma comunicarlo ai nuovi maoisti italiani era molto difficile. Una volta alla Statale di Milano dissi che la Rivoluzione culturale era un fenomeno che rientrava nella tradizione iconoclasta della Cina del ’900, iniziata il 4 maggio dei ’19 quando gli studenti e lo stesso Mao scesero in piazza per chiedere la fine del potere dei signori della guerra e per invocare l’avvento della «signora Scienza», come la chiamavano, e della «signora Democrazia». Non l’avessi mai fatto! Gli studenti mi urlarono dietro che la Rivoluzione culturale era un grande evento epocale che avrebbe cambiato i destini dell’umanità e non poteva certo essere paragonato a un qualsiasi episodio storico. I più gentili mi davano dell’«esperta», citando la frase di Mao: meglio rossi che esperti. D’altra parte non solo i sostenitori, ma anche i detrattori della Cina non sapevano niente e subivano anch’essi una sorta di fascinazione per questo evento apocalittico.

Insomma, da una parte e dall’altra un esotismo politico, favorito dall’assenza di notizie?

Sì: era difficile ricostruire i fatti, potevamo ascoltare al più Radio Tirana, oppure cercare di capirci qualcosa grazie al centro di ascolto radio di Hong Kong che produceva il «China News Analysis» basato sull’ascolto delle emittenti locali cinesi. Ma era comunque poca roba.

Le notizie erano scarse, però il maoismo da noi era in espansione…

E anche già decisamente comico: mi ricordo una prima pagina di Servire il popolo, l’organo della filocinese Unione dei comunisti, con la foto a tutta pagina dei suo capo, Aldo Brandirali, che camminava su un grande viale alberato. E la didascalia diceva: il compagno Brandirali compie 30 anni. I compagni di Servire il popolo celebravano poi il matrimonio dei loro seguaci, e soprattutto riuscivano a farsi dare un sacco di soldi dai compagni ricchi.

Quali erano le altre fonti d’informazione?

Erano fonti di propaganda, come le Edizioni Oriente, o la rivista Vento dell’Est. Quando proposi alla Bompiani di tradurre un libro apparso in Francia intitolato Le prisonnier de Mao, di Jean Pasqualini, un mezzo cinese e mezzo corso, che era stato uno dei primi reduci dei gulag di Mao, ci fu un’insurrezione dei redattori della casa editrice.

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IO, PIAZZISTA COL FAZZOLETTO ROSSO

Intervista con Renato Mannheimer

di Valeria Gandus

Nella sua bella casa milanese piena di oggetti di ottimo gusto, bambini bene educati e un sinuoso gatto nero, Renato Mannheimer ripensa con indulgenza a quella parentesi di «somma imbecillità». A quando, insomma, faceva il filocinese.

Lui, lo studioso che sonda con perizia la società italiana, il sociologo dalla vaga aria di scienziato pazzo che commenta acutamente in televisione i dati elettorali, ha militato infatti, oltre vent’anni fa, nell’Unione dei comunisti marxisti leninisti, il più importante dei gruppi maoisti, che arrivò ad avere 15 mila militanti in tutta Italia.

«Fin dai tempi del liceo ero genericamente orientato a sinistra e interessato soprattutto ai problemi di politica estera» ricorda Mannheimer. «Il franchismo in Spagna, la guerra del Vietnam, la rivoluzione cinese». Divoratore di libri e riviste, si era abbonato gratuitamente alla Peking Revue ricevendo pure una «magnifica agenda rossa» che usò come diario scolastico e che gli causò qualche problema: «Sull’agenda, la mappa della Cina comprendeva Taiwan: il professore non era d’accordo».

Nei 1966 l’iscrizione alla Bocconi e le riunioni «con un gruppo di amici che, come me, cercavano in modo disordinato, confuso e pasticcione, di orientarsi nel mondo della sinistra». Nel Sessantotto, la svolta con l’occupazione della facoltà di lingue straniere della Bocconi. «Una cosa bellissima: le assemblee, le discussioni. E le ragazze: lingue aveva mille iscrizioni all’anno: tutte femmine». Mannheimer e i suoi amici furono presto attratti dai diversi gruppuscoli che cercavano di portare la ribellione fuori dalle aule.

«Decidemmo di militare seriamente in uno di essi. Ma quale?». Mostrando fin da allora una precoce vocazione ai sondaggi, venne svolta un’accurata indagine testando gran parte dei gruppuscoli dell’epoca. Alla fine, quello più convincente risultò l’Unione.

La militanza di Mannheimer nell’Unione non fu lunga: dalla fine del 1969 all’inizio del 1971. «Norme, regole e riti che all’inizio mi affascinavano e mi davano sicurezza, mi risultarono presto stupidi e inutili. Molti di noi erano in cerca di una religione alternativa a quella tradizionale o della chiesa comunista. Ma i riti dell’Unione erano sconcertanti: lunghi sermoni, enunciazioni di banali principi morali, ossessivi richiami alla rivoluzione, una vera e propria adorazione del mitico proletariato: qualunque cosa dicesse un operaio era vangelo. Quel che davvero non sopportavo, però, era il divieto di leggere i libri della cosiddetta cultura borghese: non solo ho violato quel comandamento ma, con la scusa di finanziare il partito vendendo a un anonimo compratore (cioè a me stesso) montagne di libri destinati alla spazzatura, mi feci per poche lire un’immensa e ottima biblioteca».

Sostiene Mannheimer che, dal punto di vista per così dire aziendale, la gestione del movimento era molto poco intelligente, oltre che dannosa: «Brandirali, il “lider maximo”, era inavvicinabile, i militanti oggetto di un terrore psicologico che ha seriamente danneggiato i più deboli». Lui, che debole non era, si sentiva invece un po’ cretino a passare le domeniche mattina nell’hinterland milanese spiegando alle masse popolari (del tutto disinteressate) che bisognava fare la rivoluzione, attaccando distintivi di Mao e vendendo copie di Servire il popolo. «Mi rivedo come una sorta di petulante piazzista col fazzoletto rosso». Ma più ancora gli dava fastidio la vigilanza sulla vita privata dei militanti, i suggerimenti su affetti e amori. Un controllo più morale che materiale che culminava in quella pagliacciata di «matrimonio rosso» cui Mannheimer sfuggì. «Barbara Pollastrini, la mia prima moglie, l’ho sposata solo dopo che entrambi eravamo usciti dall’Unione. Un matrimonio regolare, in chiesa, anche se io, ebreo, partecipai al rito “da esterno”».

Che cosa aveva cercato, Mannheimer, tra i seguaci di Mao? «Forse una famiglia: ero giovane e molto solo. Ma credo che la partecipazione alla protesta sia stata per molti altri espressione di un disagio personale: mancanza di punti di riferimento e di valori certi, difficoltà di rapporti, un male di vivere che ciascuno pensava solo suo e che improvvisamente scoprì essere comune a tanti».

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Più del Timoniere poté il Turacciolo

Così è chiamato Deng dopo che per tre volte è riuscito a risalire in sella. E a battere le guardie rosse. A colpi di mercato.

di Giovanni Porzio

«Cento volte battuto, rimane inflessibile: nemmeno la morte può vincerlo con la forza»
(Confucio).

Un miliardo e duecento milioni di cinesi attendono la morte di un solo uomo: Deng Xiaoping, 92 anni, soprannominato xiao pingzi, turacciolo, perché riemerso tre volte dall’abisso in cui le guardie rosse e la Banda dei quattro lo avevano gettato, accusandolo di «deviazionismo di destra» durante la Rivoluzione culturale.

La lunga agonia dell’«ultimo imperatore», vecchio compagno d’armi di Mao, confinato in un ospedale militare e ormai incapace di parlare, alimenta le lotte intestine negli imperscrutabili palazzi della città proibita di Zhongnanhai, la residenza dei massimi dirigenti di Pechino, a due passi da piazza Tienanmen. Impedisce al successore designato, il presidente Jiang Zemin, di accedere al trono. Rischia di paralizzare le riforme politiche e di rallentare il vertiginoso sviluppo dell’economia. Ma nessuno osa mettere in discussione l’autorità morale del grande vecchio del comunismo, che ha compiuto l’impossibile tentativo di conciliare la dottrina di Karl Marx con le leggi del mercato.

Se la Cina del Duemila è il primo paese al mondo per crescita economica, se è diventata la quarta potenza commerciale del pianeta, se i suoi missili mettono in orbita satelliti americani, lo deve alla rivoluzione di Deng, sintetizzata in uno slogan: «Non importa se il gatto è bianco o nero, purché prenda il topo». Che significa, tradotto nel lessico quotidiano di milioni di cinesi: «Arricchirsi è lecito, anzi è un dovere». A differenza dì Mikhail Gorbaciov, che alle riforme economiche ha voluto (o dovuto) far precedere quelle politiche, contribuendo in tal modo alla disgregazione dell’Urss, Deng si è mosso innanzitutto sul terreno dell’economia.

A partire dal 1978 ha smantellato le comuni agricole, ha incentivato l’iniziativa privata, ha liberalizzato il commercio e la piccola e media industria, ha iniettato nel sistema dosi sempre più massicce di capitalismo: incentivi alla produzione, autonomia amministrativa e gestionale delle imprese, parziale liberalizzazione dei prezzi al consumo. Milioni di ex contadini si sono così trasformati in imprenditori.

Con la creazione nel 1980 delle Zone economiche speciali (Zes) Deng ha compiuto un altro passo decisivo sulla strada delle «quattro modernizzazioni» (agricoltura, industria, scienza e tecnologia, esercito). Le Zes sono diventate i cardini della «porta aperta» verso il mondo esterno, verso le joint-venture con i capitali giapponesi e occidentali.

Ai tempi di Mao i cinesi sognavano «le tre grandi cose che girano», la bicicletta, l’orologio, la macchina per cucire. Negli anni Ottanta i «tre grandi» erano il frigorifero, la lavatrice, la televisione. Oggi sono il telefono, l’automobile, il computer. Shenzhen, che nel 1980 era un villaggio di pescatori e una riserva di manodopera a buon mercato per la vicina Hong Kong, è ora una metropoli dì 2 milioni di abitanti con grattacieli di 50 piani e una Borsa valori che tiene testa a quella di Shanghai. Anche nell’austera Pechino, dove i concerti rock e le sfilate di moda hanno preso il posto delle adunate politiche, la concorrenza ha rimpiazzato l’egualitarismo marxista e i negozi sono pieni di prodotti importati da Tokyo, Parigi, Singapore.

Ma la rivoluzione che ha consentito l’apertura del mercato e l’invasione dei beni di consumo è stata accuratamente pianificata. Lo stato mantiene il controllo dei settori chiave dell’industria e della finanza, fissa il prezzo del 70 per cento dei prodotti, stabilisce i criteri, i tempi e gli obiettivi dello sviluppo. E Deng non ha mai contestato il ruolo dirigente del partito comunista: fu lui a ordinare la sanguinosa repressione del movimento democratico in piazza Tienanmen nella primavera del 1989.

La Cina è un paese a due velocità, o meglio a due sistemi: socialista nella politica, sempre più capitalista nell’economia. Ma quella di un’economia di mercato pianificata dal Pcc è una via stretta, scivolosa e contraddittoria, che solo le doti di mediatore di Deng hanno reso percorribile. Fino a quando?

Borsa nera, criminalità (più di 10 mila condanne a morte eseguite soltanto nel 1995), corruzione, consumo di droga (lo Yunnan, che confina con le zone di produzione del Triangolo d’oro, sta diventando la principale rotta per l’esportazione di eroina), i «grandi mali del capitalismo», sono in crescita e fomentano la propaganda dei conservatori del partito e dei burocrati contrari alle riforme.

Il boom che sta facendo della Cina il gigante economico del Terzo millennio (nel 1995 il Pil è cresciuto del 10.2 per cento, la produzione industriale del 13,4 per cento e il prodotto nazionale lordo – 1.660 miliardi di dollari – è oggi il terzo al mondo dopo Stati Uniti e Giappone), ha altissimi costi sociali. Aumenta la disoccupazione, aumenta la forbice tra ricchi e poveri, aumenta il gap tra città e campagna. Dai 100 ai 150 milioni di cinesi sono in perpetua migrazione dalle zone arretrate dell’interno (dove 80 milioni di contadini campano ai limiti della sopravvivenza) verso le regioni sviluppate della costa. Nel Duemila la manodopera eccedente nelle campagne supererà i 250 milioni di individui. E gli analfabeti saranno quasi 300 milioni.

L’elefantiaca burocrazia, inoltre, non è stata intaccata. E tanto meno il collaudato sistema delle «guanxi», le raccomandazioni, che consente ai mandarini di stato di dispensare favori (dalle licenze commerciali ai certificati di import-export, dalle esenzioni fiscali alle materie prime a prezzi scontati) e di esercitare un potere smodato.

A questo si aggiungono i ritardi strutturali del sistema: 140 mila industrie statali, quasi tutte in perdita e obsolete, che però assicurano il 50 per cento della produzione. Come gestirle? E soprattutto: come mantenere la coesione dello sterminato pianeta cinese, squassato dalla più radicale trasformazione economica e sociale della sua storia?

Tra gli eredi di Deng si fa strada una nuova ideologia neoconservatrice, elaborata nelle università e avallata dal presidente Jiang Zemin: la campagna per una «civiltà spirituale», lanciata nei mesi scorsi, contiene un’esplicita condanna dell’individualismo e un energico appello a «lavorare nell’interesse del paese». Per i neoconservatori, il nazionalismo e l’etica confuciana del rispetto per l’autorità rappresentano la «grande muraglia» che consentirà alla Cina di vincere la sfida dello sviluppo salvaguardando al tempo stesso l’integrità della nazione. Le nuove parole d’ordine hanno il sostegno delle forze armate. Non a caso i giornali hanno cominciato a denunciare il «nuovo egemonismo» delle potenze occidentali (Stati Uniti, Europa, Giappone), unite in una santa alleanza contro Pechino e Mosca. E non a caso i militari hanno ripreso in mano la politica cinese nei confronti di Taiwan.

L’Esercito popolare di liberazione, il più grande del mondo con i suoi 3 milioni di uomini e donne in divisa, controlla un gigantesco complesso industriale: 30 mila società che producono di tutto, dai missili a testata nucleare alle fabbriche di giocattoli e di biciclette, con utili stimati attorno ai 5 miliardi di dollari all’anno. Sono le forze armate a garantire la stabilità del potere centrale e l’autorità del partito sulle 22 province, le tre grandi aree metropolitane (Pechino, Shanghai, Canton) e le 5 regioni autonome che formano la sterminata repubblica sorta dalle ceneri dell’ex Impero celeste.

Dopo la morte di Mao, furono i militari ad arrestare la Banda dei quattro consentendo a Deng di raccogliere l’eredità del Grande timoniere. Ancora una volta, come ai tempi della Lunga marcia, il destino della Cina è nelle loro mani.

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CRONOLOGIA: TUTTO COMINCIÒ CON IL LIBRETTO ROSSO

1966. Ottobre-dicembre: con il «processo pubblico» a Deng Xiaoping, costretto a fare auto-critica, la Rivoluzione culturale dimostra che nessuno può ritenersi al sicuro. L’inizio ufficiale della grande tragedia, però, data qualche mese prima, esattamente il 16 maggio, quando Mao firma la circolare che dà il via libera alle purghe e lancia la Rivoluzione culturale. Viene pubblicato il Libretto rosso, nascono i primi reparti di guardie rosse e, l’1 agosto, il presidente Liu Shaoqi è silurato.

1967. Marzo: Deng è espulso dall’Ufficio politico, suo fratello Deng i Shuping si suicida.

1968. Maggio: il figlio di Deng, Deng Pufang, si rompe la colonna vertebrale tentando di sfuggire alle guardie rosse.

1969. Marzo: scontri armati con i sovietici sul fiume Ussuri. Aprile: Lin Biao consacrato erede di Mao; ascesa della Banda dei quattro capeggiata dalla moglie di Mao, Jiang Qing. Ottobre: Deng inviato in un campo di lavoro. 12 novembre: Liu Shaoqi muore in prigione.

1971. Marzo: tentativo di colpo di stato di Lin Biao. 13 settembre: morte di Lin Biao, ufficialmente in un incidente aereo. 26 ottobre: ammissione della Cina all’Onu.

1972. Febbraio: Nixon a Pechino.

1973. Agosto: X congresso del Pcc e riabilitazione di Deng.

1974. Gennaio: incidenti alla frontiera sino-vietnamita. Marzo: Deng è di fatto primo ministro. Maggio-ottobre: apertura economica all’Occidente; conflitto tra la Banda dei quattro e Deng, che attacca la Rivoluzione culurale.

1975. 27 gennaio: Deng capo di stato maggiore.

1976. 8 gennaio: morte di Zhu Enlai. Marzo-aprile: manifestazioni antimaoiste a Pechino e dura repressione; Hua Guofeng nominato primo ministro e successore di Mao; Deng è costretto a dimettersi da tutte le funzioni e si rifugia a Canton. 9 settembre: morte di Mao. 6 ottobre: tentativo di golpe antimaolsta e arresto della Banda dei quattro.

1977. 21 luglio: definitiva riabilitazione di Deng. 12 agosto: XI congresso del Pcc: fine della Rivoluzione culturale, Deng membro permanente dell’Ufficio politico. Purghe con migliaia di fucilazioni.

1978. 15 novembre: «muro della democrazia» a Pechino e critiche alla Rivoluzione culturale. 16 dicembre: Cina e Usa ristabiliscono i rapporti diplomatici. 18 dicembre: il plenum del Pcc adotta la linea della «porta aperta» verso l’Occidente. Riabilitazione di Confucio.

1979. Marzo: repressione della «primavera di Pechino». Agosto-settembre: smantellamento delle comuni agricole; condanna della Rivoluzione culturale.

1980. Febbraio: riabilitazione postuma di Liu Shaoqi. Novembre: processo alla Banda dei quattro.

1981. 25 gennaio: Jiang Qing condannata all’ergastolo.

1982. Settembre: il XII congresso del Pcc adotta la «linea Deng».

1984. 25 aprile: incontro Deng-Reagan. Ottobre: apertura ai capitali stranieri.

1986. Dicembre: repressione a Shanghai contro gli studenti che manifestano per la democrazia.

1987. 26 ottobre: XIII congresso del Pcc, in cui Deng è riconosciuto come «dirigente supremo» senza cariche specifiche.

1988. Marzo: una nuova legge protegge il settore privato. 1 maggio: liberalizzazione dei prezzi.

1989. 26 febbraio: incontro Deng-Bush. 22 aprile: iniziano le manifestazioni studentesche in piazza Tienanmen. 16 maggio: vertice Deng-Gorbaciov a Pechino. 19 maggio: legge marziale, un milione di manifestanti a Tienanmen. 3-4 giugno: l’esercito spara sulla folla, centinaia di morti, repressione in tutto il paese.

1990. 20 dicembre: riapertura della Borsa di Shanghai.

1992. Ottobre: visita dell’imperatore dei Giappone Akihito.

1993. 27 marzo: Jiang Zemin segretario generale del Pcc.

1995. Deng sempre più malato: inizia la lotta per la successione.

1996. Aprile: accordo con Mosca per contrastare l’influenza americana in Asia.

* * *

PER SAPERNE DI PIÙ

Sulla Rivoluzione culturale sono stati scritti decine di libri. Eccone alcuni per saperne qualcosa di più.

Mao Tse-Tung, Il libretto rosso, Newton Compton.
Che Acheng, Chiacchiere sulla crudeltà, Theoria.
Yung Chang, Cigni selvatici, Longanesi.
Edgar Snow, Stella rossa sulla Cina, Einaudi.
Domenico Tang, Nelle carceri di Mao: diario di un vescovo, Emi.
Alberto Pasolini Zanelli, La Cina da Mao a Deng, Mondadori.

Fonte: Panorama, 7 novembre 1996, pp. 142-178

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