Sul termine “morale”

Non c'è termine oggi che sia percepito come così obsoleto e fastidioso quanto il termine "morale". Lo si associa a moralismo, a dogma, a costumi rigidi. Spesso "morale" e "religioso"...

Non c’è termine oggi che sia percepito come così obsoleto e fastidioso quanto il termine “morale”.

Lo si associa a moralismo, a dogma, a costumi rigidi.

Spesso “morale” e “religioso” vengono abbinati, e vengono uniti in un giudizio di deplorevole normativismo, privo delle nuance della sensibilità e dell’intelligenza.

Ecco, dopo aver studiato il tema per circa tre decenni, e alla luce di quanto vedo quotidianamente nell’Occidente contemporaneo, mi sento di dire almeno questo.

Morale e religione possono essere talvolta non indispensabili. Può accadere che alcune persone, sotto condizioni di particolare privilegio, lucidità, tempo libero, formazione ed esperienza, possano trovare – con non poca fatica – modi per guidare i propri comportamenti in forme buone, umane, dotate di senso anche senza un retroterra morale e/o religioso.

Può capitare.

E filosoficamente questa è una cosa interessante e importante.

Ciò che però credo sia infinitamente più importante, immensamente più ricco di conseguenze e implicazioni, è comprendere che l’assoluta debordante maggioranza degli umani su questo pianeta non è, e non è mai stato, in quelle condizioni di “particolare privilegio”.

Fate una breve escursione su un social già di per sé “elitario” – in quanto predilige la parola scritta – come Facebook.

Girate un po’ di pagine personali a caso.

Soppesate i commenti, le osservazioni, i giudizi, le stroncature, gli sproloqui e turpiloqui vari.

Il quadro che ne emerge è piuttosto lineare.

Di lucidità trovate al massimo quella dei selfie con le scarpe nuove; la formazione culturale è per lo più – diciamo – claudicante, spesso sconfortante; la tendenza a proiettare in generalizzazioni ardite esperienze individuali è dominante; l’emotivismo acefalo è ubiquo; narcisismo, arroganza, ottusità la fanno da padrone.

E soprattutto: al posto di credenze morali o religiose si trova un profluvio di atti di fede in puttanate improvvisate, verdetti scientifici da pubblicità del colluttorio, oroscopi del menga, esoterismi carbonari, ideologismi progressisti o reazionari tanto al chilo, slogan e frasi fatte come se piovesse.

E anche tra i pochi che sarebbero di principio in grado di sfuggire a tutto ciò prevale spesso la stanchezza, la mancanza di tempo per approfondire, la nevrastenia, le turbe dell’umore, i brutti momenti, ecc.

Morale e religione, abiti educativi e costumi etici, rappresentano uno scheletro decisionale che talvolta può sbagliare, ma che con assoluta prevalenza non è sostituibile dalla costruzione intellettuale di giudizi contestuali ad hoc.

Nel mondo occidentale abbiamo invece costruito una società che ha fatto piazza pulita di tutto ciò che odora di tradizione morale e religiosa (spesso con la decisiva complicità dei moralisti laici e degli uomini di chiesa). È come se assumessimo di aver a che fare con individui con le virtù insieme di Buddha e Max Weber, nei loro momenti migliori. Individui che perciò potrebbero ricostruirsi un giudizio eticamente probante, sensibile, informato, bilanciato ed empatico in ogni nuovo singolo contesto, partendo dal nulla. O con piccoli superuomini nietzscheani che si forgiano a martellate la propria etica personale.

Mentre di fatto abbiamo mediamente a che fare con roba che oscilla tra Jovanotti e Bassetti, se non peggio. Con la pretenziosità di chi ha imparato che “dire la propria” e “avere un’opinione personale” siano diritti, anzi doveri, inconcussi.

Andrea Zhok

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