Il suicidio strategico dell’America

La complicità USA nell’attacco all’Iran svela una crisi morale e strategica che avvicina il mondo alla soglia della guerra nucleare.

di Alberto Piroddi

Il dibattito sulla politica estera statunitense ha assunto, in queste settimane, un tono drammaticamente cupo. L’ombra di una guerra aperta con l’Iran, e la concreta possibilità dell’utilizzo di armi nucleari tattiche, pongono l’America di fronte a un bivio esistenziale. Più che una questione strategica, si tratta ormai di una crisi morale. Il presidente in carica, che aveva promesso di porre fine alle “guerre infinite”, sta guidando il paese verso un conflitto che rischia di superare ogni precedente per portata e conseguenze. Non si tratta di una guerra difensiva. Non si tratta di una risposta a un’aggressione. Si tratta di un attacco orchestrato, premeditato, facilitato – in termini operativi e politici – da un’amministrazione che ha rinunciato a ogni coerenza e a ogni etica diplomatica.

L’azione israeliana contro l’Iran – un attacco che ha colpito deliberatamente la squadra negoziale che stava lavorando per raggiungere un accordo sul nucleare – rappresenta una cesura gravissima. Non solo perché ha eliminato figure chiave del processo di distensione, ma perché è avvenuta con il sostegno attivo degli Stati Uniti, che avrebbero dovuto invece garantirne la protezione. L’Iran era pronto a firmare un’intesa per limitare l’arricchimento dell’uranio, consentire ispezioni con partecipazione statunitense e rinunciare formalmente all’arma atomica. Tutto ciò è stato deliberatamente sabotato. E non si può parlare di errore. Si tratta di tradimento.

La figura del presidente esce da questo scenario profondamente screditata. Colui che si era presentato come oppositore del complesso militar-industriale, come pacificatore, come anti-neocon, ha rivelato invece la propria inconsistenza politica e personale. Non è stato capace di opporsi a pressioni esterne, né di portare avanti una visione coerente. Più che un leader, appare come un uomo debole, facilmente manipolabile, privo di una struttura morale o intellettuale in grado di resistere ai venti della guerra.

L’attacco a sorpresa israeliano, con la complicità americana, richiama drammaticamente la memoria di Pearl Harbor. Ma questa volta gli Stati Uniti non sono la vittima: sono l’aggressore. Si sono macchiati di un’azione che li rende corresponsabili di un crimine internazionale. E ora si trovano a fronteggiare le conseguenze. L’Iran non ha risposto impulsivamente. Ha colpito in modo mirato, chirurgico, devastante. Il porto di Haifa è stato distrutto. L’aeroporto Ben Gurion è inagibile. Le basi aeree israeliane sono state spostate all’estero perché non più sicure. La campagna missilistica iraniana ha superato, per precisione e impatto, tutte le aspettative. E l’intero apparato difensivo israeliano, costruito in decenni e finanziato con miliardi di dollari americani, si sta rivelando insufficiente.

La strategia iraniana si è rivelata intelligente e spietata. Missili vecchi, aggiornati con meccanismi di disturbo, aprono la strada a vettori moderni e precisi che colpiscono in profondità. Gli arsenali di missili difensivi – israeliani e americani – si stanno rapidamente esaurendo. Interi assetti militari americani sono stati dirottati dal Pacifico, lasciando scoperta l’area dell’Indo-Pacifico, in piena tensione con la Cina. Un capolavoro strategico, se si guarda da Teheran. Un fallimento su tutta la linea, se si osserva da Washington.

L’elemento più inquietante, tuttavia, è rappresentato dall’eventualità – ormai concreta – dell’uso di armi nucleari tattiche da parte statunitense. Le bombe bunker-buster convenzionali non sono in grado di penetrare le installazioni sotterranee iraniane. La tentazione di ricorrere a testate nucleari “contenute” si fa strada tra i consiglieri del presidente. Ma la soglia atomica, una volta infranta, non potrà più essere ristabilita. Mosca ha già fatto sapere che, se saranno usate armi nucleari contro l’Iran, risponderà colpendo l’Europa. Questo è il gioco a cui si sta giocando. E non si tratta di fantascienza: è la logica elementare della deterrenza.

Il sistema internazionale sta crollando. L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, che avrebbe dovuto monitorare in modo imparziale le attività nucleari iraniane, si è rivelata parte attiva nella raccolta di intelligence utilizzata da Israele per colpire obiettivi precisi. Gli ispettori sono stati espulsi. L’Iran ha denunciato pubblicamente il tradimento. E la credibilità dell’intero meccanismo multilaterale è evaporata. Di Rafael Grossi, che aveva invocato il disarmo quando fu colpita la centrale di Zaporozhye in Ucraina, oggi non si ha notizia. Silenzio. Complicità. Ipocrisia.

L’opinione pubblica americana, per lo più, tace. I movimenti pacifisti sono assenti. Le voci critiche vengono censurate. Promuovere il dialogo tra cittadini americani e russi è considerato un atto sovversivo. Un ex ufficiale dei Marines, che cercava di organizzare un summit di riconciliazione con cittadini russi, si è visto revocare il passaporto, sequestrare i dispositivi elettronici, accusare di essere un agente straniero. L’iniziativa verrà comunque realizzata, questa settimana, a Kingston, New York. Sarà l’unico canale di comunicazione tra Stati Uniti e Russia ancora esistente. Perché l’amministrazione ha chiuso ogni altro canale.

La libertà di parola negli Stati Uniti è ormai sotto attacco. YouTube ha censurato il video che promuoveva l’iniziativa, definendolo “violazione delle norme di servizio”. Parlare di pace è diventato un problema. Promuovere il dialogo è considerato un atto di rottura. Il paese che si vanta di essere la culla della democrazia sta diventando una macchina che reprime il dissenso e glorifica la guerra.

Il futuro è appeso a un filo. L’Iran, dopo aver subito un’aggressione che ha colpito al cuore i suoi canali diplomatici, ha oggi il diritto – e la forza – di porre delle condizioni. Non per ottenere l’arma nucleare, ma per garantirsi sicurezza, riconoscimento, rispetto. Tra queste richieste ci sarà inevitabilmente la denuncia del programma nucleare israeliano, che Tel Aviv non ha mai reso pubblico. L’equilibrio strategico nella regione potrà nascere solo da una trasparenza reciproca. E dalla fine del genocidio in corso a Gaza.

Non si tratta di scegliere da che parte stare. Si tratta di decidere che tipo di mondo vogliamo. Un mondo dominato dalla legge del più forte, o un mondo in cui la diplomazia non sia una menzogna. Un mondo in cui la pace non sia solo un’illusione buona per i discorsi ufficiali, ma una prospettiva concreta. L’America deve scegliere se essere un impero che si autodistrugge sotto il peso delle sue contraddizioni o una nazione che riscopre il senso della propria missione originaria: non dominare, ma ispirare.

Per farlo, occorre coraggio. Occorre dire no prima che sia troppo tardi. Perché se questa escalation continuerà, non è solo il futuro dell’America a essere in gioco. È il futuro di tutti noi.

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