Michael Ignatieff | Libertà positiva e negativa | festivalfilosofia 2021

Michael Ignatieff: Libertà positiva e negativa. Sulla filosofia politica contemporanea

È ancora significativo per la filosofia politica contemporanea ragionare sui due concetti di libertà, negativa e positiva, secondo il modello di Isaiah Berlin?

Michael Ignatieff
Libertà positiva e negativa. Sulla filosofia politica contemporanea
Lectio “BPER Banca”
Modena, Sabato 18 settembre 2021

Nel suo discorso al festival di Modena il 18 settembre 2021, Michael Ignatieff ha esplorato la distinzione tra libertà negativa e positiva, riflettendo sulla difficoltà di pensare veramente con la propria testa nelle società democratiche moderne. Ha evidenziato come le ideologie dominanti, sia accademiche che sociali, spesso ostacolino la libertà intellettuale, trasformando la promessa di liberazione in una nuova forma di oppressione. Sottolineando l’importanza dell’istruzione e delle istituzioni democratiche per coltivare menti libere, ha affermato che il pensiero originale emerge dal dialogo critico con la tradizione e l’autorità. Ha concluso che il compito degli intellettuali e degli insegnanti è quello di promuovere la libertà di pensiero e aiutare le persone a diventare pensatori autonomi.

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[Applauso]

Vorrei dirvi che è qualcosa di straordinario e la prima volta per me essere qui al festival ed è straordinario vedere tutte le persone che sono qui. Credo che Modena debba essere davvero orgogliosa di questo festival eccezionale. È un grande onore per me essere qui oggi con voi. Mi avete chiesto, in qualità di filosofo biografo di Isaiah Berlin, di parlare di due concetti di libertà: il discorso che fece quando assunse la cattedra all’università di Oxford nel 1958, in cui fece una distinzione tra libertà negativa e positiva. Questa distinzione è diventata il punto di partenza per riflessioni sulla libertà sin da quel momento.

Però, invece di portarvi con me in una lunga spiegazione di questa distinzione e del suo discorso, ho pensato che forse sarebbe più interessante porsi un’altra domanda: nelle società democratiche come le nostre, che godono della libertà negativa, perché così spesso non riusciamo a utilizzare la libertà positiva, quindi a pensare per noi stessi, a ragionare con la nostra testa? Ma che cosa significa pensare per se stessi con la propria testa? Come ci possiamo liberare dai cliché, dal pensiero convenzionale, dalle ideologie, da dogmi, in modo che tutti noi possiamo utilizzare, anche per un piccolissimo istante, l’inebriante potere di una mente libera?

Io ho cercato di pensare con la mia testa, l’ho fatto per più di 70 anni. Però devo dirvi che non sono sicuro di quante volte sono riuscito a farlo. Ho scritto libri, articoli, ho tenuto lezioni, ma posso contare soltanto sulle dita di una mano il numero di pensieri che posso considerare miei. Tutto il resto erano riflessioni, commenti, annotazioni sui pensieri di altri. Isaiah Berlin scherzava spesso e diceva di essere come un taxi: “Se mi fermate, mi date una destinazione intellettuale e io vi porto lì”. Ovviamente, questa era falsa modestia, però ci porta a porci una domanda: ci chiediamo se anche noi siamo come dei taxi, no? Se siamo veramente liberi di pensare per noi stessi con la nostra testa.

Nel mio caso, la questione non è se io sia stato un pensatore originale, ma piuttosto se sia stato davvero un pensatore. E parlando di pensatore, intendo qualcuno che prende decisioni su questioni intellettuali con la propria testa. Questa è una questione politica, ma anche personale. Io, come cittadino, ho beneficiato della democrazia liberale e, come professore, ho trascorso la mia vita all’interno di istituzioni liberali. Mi domando costantemente quante volte ho davvero esercitato la mia libertà di pensiero. Ero davvero libero di pensare come volevo, o invece sono rimasto prigioniero dei discorsi e delle mode ideologiche del mio tempo?

L’ideale del pensare per sé è un’affermazione di come dovremmo pensare, ma anche di come dovremmo vivere. È un’affermazione, una rivendicazione morale ed epistemologica al contempo. I nostri ideali più profondi di dignità, sovranità, autonomia e indipendenza dipendono dalla possibilità di poter essere sovrani nei nostri pensieri. Ma questa indipendenza è davvero possibile? Come è stato osservato da Isaiah Berlin tempo fa, la libertà dalla persecuzione, dalla paura, dall’oppressione non necessariamente ci rende liberi di pensare in modo libero. Possiamo essere liberi di diritto e le nostre menti però continuano a essere incatenate.

La mia esperienza è un’esperienza di libertà intellettuale. La libertà intellettuale è una lotta, anche nelle società libere. Le grandi minacce alla libertà non vengono dai governi, ma dai movimenti sociali che si sono cristallizzati in ideologie e hanno spazzato via tutto il pensiero libero. Quelle che hanno avuto un impatto su di me erano all’interno del mondo accademico. Prima di tutto, negli anni ’70 parliamo del marxismo accademico, poi strutturalismo, post-strutturalismo, e poi decostruzionismo, ecc. Al di fuori del mondo accademico, le mode intellettuali che hanno dominato il pensiero politico a partire dagli anni ’70 erano il neoliberismo conservatore. Questa è un’ideologia politica che portava la bandiera della libertà, fino al limite, fino allo smantellamento delle istituzioni e delle strutture che le persone come me e Berlin pensavano essere il prerequisito essenziale per la libertà per tutti.

Queste teorie, questi discorsi arrivarono sulla scena con la promessa di sovvertire le modalità stanche di pensare e di liberare le menti dalle catene delle convenzioni. Ora non sono più presenti, e le pretese intellettuali sembrano assurde. Quando queste mode intellettuali erano all’apice, portavano con sé promozioni, carriere, pubblicazioni, tutto dipendeva dalla misura in cui si pensava in modo fedele e si riproducevano questi cliché. Quindi, negli anni ’70 e ’80, pensare per sé stessi con la propria testa era come cercare di reggersi in piedi nel bel mezzo di una tempesta.

Oggi, la moda ideologica in ascesa è progressista. Le opinioni politiche sulle razze, sull’etnia, sull’impero, quella che viene chiamata negli Stati Uniti “teoria critica della razza” dai suoi amici, comunque. La correttezza politica, ovviamente, viene chiamata così dagli oppositori e non dai sostenitori. La cosa che mi interessa è perché queste mode intellettuali iniziano promettendo la liberazione ma poi diventano nemiche della libertà intellettuale. Non sono un filosofo, io sono solo uno storico, ma gli storici sanno che queste mode ascendono e poi cadono, appaiono e scompaiono. Quindi, il potenziale per la tirannia non è limitato o indefinito. Però, la cosa chiara è che queste mode, per quanto corte siano, sono ostili all’idea del pensare per sé.

L’idea che dovremmo pensare con la nostra testa, come individui, è una caratteristica storica solo di società laiche, individualistiche e di mercato come questa. Il pensiero liberale moderno ha ereditato questi ideali da uomini e donne che sapevano davvero ragionare con la propria testa: Immanuel Kant, John Stuart Mill, e anche altri bravissimi italiani, ovviamente. Per la maggior parte della storia, l’idea che gli esseri umani venissero nobilitati nel momento in cui pensavano con la loro testa sarebbe stata condannata come blasfemia dalla chiesa o come eversione dai sostenitori dell’autorità del re. Oggi, non penso che questo ideale sia apprezzato da Xi Jinping, ad esempio, o da Putin. Al di là dei confini dell’Europa e del Nord America, questa idea è tutt’altro che universale. Pensare con la propria testa è un’idea che lotta continuamente per sopravvivere contro le idee autoritarie che promettono la libertà ma chiedono, come prima cosa, alle nostre menti di obbedire.

Questa idea è stata criticata dalle tradizioni rivoluzionarie che iniziarono con la Rivoluzione Francese perché, secondo queste tradizioni giacobine marxiste, il prerequisito della libertà intellettuale non è la lotta individuale per essere sovrani sui propri pensieri, ma piuttosto l’eliminazione rivoluzionaria di tutte le false ideologie e superstizioni. I giacobini lodarono la Rivoluzione Francese per aver superato la superstizione e sostenevano che tutti, d’ora in avanti, sarebbero stati liberi di pensare liberi pensieri progressisti se l’educazione poteva essere organizzata per insegnare a tutta la popolazione il giusto modo di pensare. Karl Marx credeva che il compito dell’intellettuale rivoluzionario fosse quello di criticare la coscienza falsa che teneva le masse incatenate alla schiavitù mentale. E i rivoluzionari russi definirono la libertà intellettuale come qualcosa che richiede un rovesciamento collettivo della superstizione attraverso l’istruzione di un nuovo modo di pensare.

I rivoluzionari francesi e russi dicevano che la ragione avrebbe portato tutti, una volta liberata ovviamente dalla superstizione, a pensare nello stesso modo. I liberali del ventesimo secolo, come Berlin e Karl Popper, hanno sostenuto che la libertà collettiva di pensare nello stesso modo non è libertà. Obbligare gli uomini a essere liberi, per citare Rousseau, distrugge la loro libertà.

Questa visione liberale è sotto attacco ancora una volta da parte di un nuovo gruppo di giacobini del XXI secolo. Non viene dallo stato, ma dalla società civile, dal movimento #MeToo e da Black Lives Matter, movimenti che sono iniziati in America ma che sono diventati globali, alimentati dai nuovi social media. Ora sono in ascesa in molti campus del Nord America e anche nel Regno Unito. Non conosco la situazione in Italia, ma forse questi movimenti hanno anche una certa influenza qui. Come avete visto, statue sono state distrutte e programmi didattici sono stati riscritti. Dobbiamo affrontare le modalità in cui l’eredità della schiavitù, dell’imperialismo e del colonialismo continua a influenzare le istituzioni liberali e il pensiero libero.

Secondo questa ideologia, il test per verificare se siamo liberi consiste nel valutare se, nel nostro insegnamento, nelle nostre conversazioni e nei lavori pubblicati, siamo conformi al nuovo canone di interpretazioni della storia, delle relazioni tra sessi e delle relazioni tra etnie. La tesi è che il pensiero non dovrebbe essere libero di pensare in modo irrispettoso delle etnie, dei generi, delle classi o delle nazioni. Non deve essere un pensiero compiacente sui benefici dell’imperialismo e del colonialismo.

Questo nuovo giacobinismo, all’inizio, ha spazzato via tutto. Ma ora è chiaro che c’è un contraccolpo in corso. Molti liberali si sono preoccupati del fatto che questa insistenza sull’abbandonare gli stereotipi razziali e sessuali ci liberi da una catena, ma in realtà ci incatena ad altre. Non può essere giusto che le persone possano essere licenziate o non promosse perché le loro opinioni non corrispondono a una definizione ristretta di cosa costituisca un uso adeguato della libertà intellettuale e della libertà di parola. Non può essere giusto né accettabile che i dibattiti sulla storia del colonialismo e dell’impero siano vietati, impedendo una valutazione morale complessa di questi fenomeni.

Non può essere giusto né accettabile che non possiamo avere due idee contraddittorie nella nostra testa. Ad esempio, che un imperialista britannico fosse, da un lato, un colonizzatore razzista, ma al contempo un filantropo la cui visione culturale e saggezza hanno avuto benefici su molte persone di tutte le etnie. Non possiamo accettare che non possiamo pensare che l’imperialismo abbia avuto sia caratteristiche positive che negative, né che qualcuno con la pelle bianca, come me, abbia una responsabilità di capire i delitti perpetrati dal dominio bianco. Ma i bianchi non devono vergognarsi della loro pelle, non più di quanto una persona nera debba vergognarsi della propria pelle.

È inevitabile che coloro che si sono vergognati per la loro razza o etnia ora cerchino di umiliare coloro che li hanno fatti vergognare. È inevitabile che coloro a cui è stato negato il riconoscimento della loro storia ora insistano sul fatto che la loro versione della storia debba diventare la visione accettata dalla maggioranza. Ma questo non può finire nella negazione del riconoscimento verso la maggioranza. La lotta per il riconoscimento di quale storia sia vera rischia di sostituire le vecchie narrazioni nazionali compiacenti con una nuova narrazione in cui vergogna, pentimento e scuse diventano le emozioni richieste a tutti noi. Sostituire una favola negativa con una positiva non ci aiuta a vivere insieme nella verità.

[Applauso]

Dobbiamo lavorare insieme verso un riconoscimento reciproco della verità storica. La storia di ciascuno diventa ambigua, complessa e dolorosa se la guardiamo da vicino con gli occhi spassionati della conoscenza. La storia non è confortante, non porta lode morale o biasimo. È la registrazione di ciò che abbiamo fatto gli uni agli altri e talvolta ciò che abbiamo fatto per gli altri.

Io non sono pessimista riguardo all’esito finale. Quello che vedo intorno a me è una nuova storia di popoli, etnie e razze che sta cambiando, modificando i racconti della democrazia liberale in modi che rendono possibile una nuova comprensione della nostra storia che possiamo davvero condividere. Invece di considerare la correttezza politica soltanto in termini negativi, io la vedo anche in modo positivo, poiché illumina perfettamente ciò che ci viene richiesto per avere una mente libera. Ha illuminato la misura in cui tutti noi rimaniamo prigionieri di pregiudizi, ignoranza e compiacenza verso il nostro passato nazionale. In altre parole, il dibattito ha illuminato la vera misura in cui non pensiamo con le nostre teste.

Vi faccio un esempio dal Canada. Come canadese, io ho sempre avuto l’illusione che il mio paese fosse perfetto, un alunno del cielo della tolleranza e della giustizia. Come tutte le fantasie, conteneva abbastanza verità affinché potesse essere credibile. Ma è stato un duro risveglio conciliare questa fantasia con i fatti del trattamento nei confronti dei cittadini aborigeni. Affrontare le esperienze degli aborigeni può portare a un nuovo pensiero, a un nuovo modo di pensare per sé, quando si passano in rassegna fantasie e paure razziali non analizzate.

Iniziamo a chiederci qual è la nostra storia quando viene vista dagli occhi di un altro che è stato escluso. Ma pensare per noi stessi significa anche difendere la nostra storia quando sappiamo che è vera. Io non sono contento quando una cittadina aborigena chiama il Canada “coloniale” perché ciò implica che la sua rivendicazione nei confronti della terra del Canada è legittima e che la mia rivendicazione sia solo frutto di conquista imperiale. La verità mi chiede di dire che siamo tutti cittadini dello stesso paese. Io devo riconoscere la sua verità, ma non sono obbligato in nessun modo a scusarmi per la mia.

Pensare per sé significa guardare e vedere noi stessi come gli altri ci vedono, ma anche difendere il nostro diritto di dire la verità come la vediamo. Pensare per noi stessi è difficile perché i nostri pensieri sono forgiati e plasmati profondamente dalle nostre identità. Siamo imprigionati da ciò che siamo: dalla nostra etnia, nazionalità, linguaggio, genere, classe politica. Quindi, invece di utilizzare le nostre menti per pensare, usiamo i nostri pensieri per fare pubblicità, promuovere e difendere le nostre identità. I nostri impulsi intellettuali più profondi non sono rivolti alla verità, ma alla ricerca, alla richiesta e alla domanda di riconoscimento.

Se vogliamo liberare le nostre menti, dobbiamo liberarci dall’influenza di questa identità sui nostri pensieri. Dobbiamo uscire da noi stessi, e questo è difficile. È difficile essere critici e spassionati sull’identità che ci rende ciò che siamo. Ma non c’è vera libertà intellettuale se non teniamo sotto controllo la nostra identità quando pensiamo. La libertà di pensiero consiste nel creare uno spazio fuori da noi stessi, e da questo spazio possiamo scorgere gli errori, i pregiudizi e i presupposti che rendono impossibile vedere noi stessi come gli altri ci vedono o vedere gli altri così come sono veramente.

La correttezza politica, il dibattito sulla correttezza politica, per tutti gli eccessi giacobini, ha portato al centro la modalità in cui l’identità ordina il pensiero, dando priorità alla rivendicazione di appartenenza rispetto alla rivendicazione di verità e onestà. Ora vorrei considerare questo problema da un altro punto di vista, ma non vi preoccupate, mi appresto a concludere.

Voglio considerare il pensare per sé in termini di relazione tra libertà e autorità. Io sono un insegnante e non manco mai di dire ai miei studenti che devono imparare a pensare con la loro testa. Ma dico anche che non è possibile un pensiero originale senza aver prima considerato l’autorità della tradizione intellettuale. L’istruzione è la preparazione della mente per poter esercitare la sua libertà. Ma per essere liberi, prima dobbiamo passare attraverso un’esperienza di obbedienza. Prima che possiate pensare a qualsiasi cosa, dovete imparare a pensare nulla, e attraverso la tradizione. Queste tradizioni e le discipline del pensiero forniscono una cornice all’interno della quale il pensiero originale diventa possibile.

La creatività intellettuale e artistica originale si verifica quando una mente che si pone domande cerca la libertà dalle rivendicazioni di autorità. Si dice spesso che il malessere del nostro tempo deriva dal fatto che non ci sono regole, non ci sono autorità, e proprio a causa di questo non ci sentiamo liberi, sentiamo soltanto nichilismo. Perché se non ci sono regole che possano governare il nostro pensiero, nulla importa. Il luogo dell’arte del ventunesimo secolo è la mancanza di disciplina, l’abbraccio alla violenza, le parodie, il ripudio della bellezza. Questo viene spesso spiegato come una specie di disperazione che si verifica quando la libertà perde l’orientamento fornito dalle autorità. Ma questa idea sembra troppo pessimistica.

Prima di tutto, la buona notizia è che l’arte brutta non lascia un segno duraturo. È l’arte buona che sopravvive e l’arte buona del nostro tempo lascerà il segno al suo potere, così come è successo in altre epoche. L’arte e la scienza incessantemente demoliscono le vecchie autorità e, allo stesso tempo, creano nuovi standard per le nuove generazioni. E questo è perché è semplicemente impossibile vivere, pensare o creare senza la disciplina, le regole e l’autorità di qualche tipo.

L’innovazione nell’arte, nella filosofia o nella scienza si verifica quando una struttura ereditata di idee ricevute mette a nudo una domanda che non riesce più a rispondere. Le nuove idee emergono quando trovano una vulnerabilità all’interno delle tradizioni. L’originalità del pensiero non è il rifiuto di una tradizione, ma un dialogo critico con essa che porta non alla distruzione, ma alla creazione di nuove autorità. Tutto il buon insegnamento mette in atto questa relazione creativa e antagonistica tra libertà e autorità.

Il ruolo di un insegnante è chiarire i termini di questo incontro, stabilire dove si trova la frontiera mobile della conoscenza e cosa la saggezza convenzionale ritiene vero. Un bravo insegnante mappa il terreno e, senza questa mappa, una mente libera non saprebbe da dove cominciare. La mia disciplina, la storia, ha scritto un canone più di duemila anni fa, e i giovani storici che io formo, quando cercano nuove idee, subito imparano ciò che Tucidide ed Erodoto hanno scoperto per primi.

La disciplina della filosofia utilizza l’autorità nello stesso modo per indicare dove le risposte sono state trovate e per avvisare gli studenti a non intraprendere vicoli ciechi e stare lontano dalle risposte sbagliate. Quando gli insegnanti lavorano correttamente nella disciplina che insegnano, indirizzano lo studente verso una domanda alla quale è stata data una risposta sbagliata o a una domanda che non è mai stata posta. Tutti noi possiamo trarre vantaggio quando le strutture dell’autorità delle discipline funzionano come dovrebbero. Quando l’insegnamento di una disciplina indirizza la ricerca e gli studi nella direzione giusta, si crea un terreno fertile per l’originalità del pensiero.

Pensate ai vaccini a mRNA sviluppati così velocemente durante la pandemia di COVID-19. Il motivo è che le discipline di chimica e genetica avevano già trascorso decenni dalla scoperta del DNA ad esplorare i processi che hanno un impatto sul nostro sistema immunitario. La disciplina aveva già dimostrato che c’erano molte risposte sbagliate a domande del passato, e questo ha aperto la strada e ha accorciato il tempo necessario ai ricercatori per porsi una nuova domanda e trovare una nuova risposta. Questa nuova risposta ha salvato milioni di vite.

Tutto ciò ci porta a dire che non pensiamo mai da soli. Il pensare è un processo sociale e istituzionale reso possibile da discipline, istituzioni, insegnanti e una struttura di autorità. Quando tutto funziona bene, le risposte sbagliate vengono scartate, le menti illuminate vengono indirizzate verso nuove risposte, e si creano le condizioni per il pensiero originale e, di conseguenza, per le menti libere.

Una mente libera è un prodotto complicato di relazioni sociali storicamente contingenti. Molti processi sociali interconnessi devono andare per il verso giusto affinché le menti libere possano emergere e fiorire. E non dobbiamo dimenticare che molti cittadini non hanno neanche la possibilità di godere della cosiddetta libertà “da”, come diceva Berlin. E noi, noi siamo i perdenti. Pensate a quante menti libere non hanno mai avuto la possibilità di esserlo perché sono nate povere, perché sono soggetti a discriminazioni a causa del loro genere, orientamento sessuale, o ancor peggio, perché non hanno ricevuto un buon insegnamento e la loro curiosità è stata spenta da insegnanti indifferenti. Oppure perché vivono in paesi dove non c’è una struttura istituzionale a sostegno dello studio scientifico o letterario, o perché vivono in tirannie o teocrazie che cercano di intimidire o far tacere le loro menti libere.

Se vogliamo promuovere le menti libere, dobbiamo creare istituzioni che sono aperte a tutti, che non rifiutano nessuno sulla base di caratteristiche ereditate, che insegnano la disciplina del pensiero, che riproducono l’autorità della conoscenza e al contempo indirizzano verso domande che non hanno ricevuto risposta o dove ci sono rivendicazioni di autorità deboli. Creare queste condizioni richiede una cultura democratica per tutti, investimenti da parte del governo nelle biblioteche, nei laboratori, nelle classi, luoghi dove viene insegnato alle persone a ragionare, a pensare con la propria testa, e soprattutto un insegnamento che riproduce autorità senza imporre ideologie o dogmi.

Allora, per tornare da dove ho iniziato: i due concetti di libertà di Berlin sono un ammonimento che la libertà “da” qualcosa non sempre crea le condizioni per la libertà “di” qualcosa. La democrazia, con tutte le sue protezioni dei diritti e delle libertà, non è sempre un terreno favorevole alla libertà e al pensiero libero. Coloro che lavorano nell’ambito intellettuale hanno un compito da svolgere: come democratici, devono lavorare con i nostri studenti, con tutte le persone che formiamo, con tutte le persone a cui parliamo, oggi per aiutarli a creare delle menti libere, uomini e donne che pensano con la loro testa. Questo è il lavoro della democrazia, e il lavoro, come sempre, deve iniziare da noi stessi.

Grazie.

[Applauso]

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Michael Ignatieff è Rettore e Presidente della Central European University. Ha insegnato Storia in diverse università, tra le quali Oxford, California, London e London School of Economics, rivestendo anche il ruolo di direttore del Carr Center for Human Rights Policy alla Kennedy School of Government dell’Università di Harvard. È autorevole commentatore politico nel campo degli affari internazionali. Si è interessato delle dinamiche dei conflitti etnici e delle problematiche sui diritti umani e sul diritto delle nazioni. Tra le sue opere tradotte in lingua italiana: Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese 1750-1850 (1982); I bisogni degli altri: saggio sull’arte di essere uomini tra individualismo e solidarietà (Bologna 1986); Album russo. Una saga familiare tra rivoluzione, guerra civile ed esilio (Bologna 1993); Una ragionevole apologia dei diritti umani (Milano 2003); Impero light. Dalla periferia al centro del nuovo ordine mondiale (Roma 2003); Troppo umano. La giustizia nell’era della globalizzazione (con S. Sontag, T. Todorov, Milano 2005); Il male minore. L’etica politica nell’era del terrorismo globale (Milano 2005); Isaiah Berlin: ironia e libertà (Roma 2001, 2017). Tra i romanzi di narrativa si ricordano Asya (Milano 1992) e Scar tissue (1993). In pubblicazione a fine 2021 On Consolation: Finding Solace in Dark Times (New York).

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