Il figlio di Frankenstein (1939)

Un mostro a puntate

Boris Karloff, mostro malinconico del cinema americano, rivive nel figlio di Frankenstein tra scosse elettriche, incubi gotici e bracci di legno acrobatici.

di Ennio Flaiano

La cinematografia americana è piena di cicli, come del resto la letteratura classica. Il ciclo delle tre ragazze in gamba, quello di Jeanette MacDonald, del cavallo Tony (proprietario Tom Mix) sono però ben poca cosa confrontati alla straordinaria serie di avventure dell’attore Boris Karloff che, sugli schermi, può essere considerato l’Ulisse dell’Inverosimile. Specialista in trucature orripilanti, costui sta dedicando tutta la sua vita all’allevamento cinematografico di mostri-fantasma. Nel suo «genere» non hanno posto le storie semplici o che non s’ispirano comunque a un gusto denso, appiccicoso e macabro ad ogni costo. La sua faccia malinconica, piena di avvallamenti, di pieghe e di risucchi ha portato la fantasia degli autori wellesiani alle più sciagurate invenzioni, ha incoraggiato gli incubi del pubblico, il sadismo dei registi e la temerità dei produttori.

Boris, ormai, è una maschera, uno «zanni» spaventoso fornito di una malizia grossolana e troglodita ma potente come uno schiacciassassi: una maschera, s’intende, che ha il suo bravo posto nella mitologia cinematografica contemporanea. Struccato, con la sua faccia di canonico tormentato da dubbi teologici, Boris Karloff ispira una certa simpatia mista a compassione, ma appena può mettersi quattro peli falsi e un po’ di cerone sul viso, tutta la sua tristezza si cambia in una specie di ottusa malvagità, le sue mani diventano quelle di uno strangolatore professionista, la sua scatola cranica «respira» come un grosso rospo e la bocca fa pensare all’odio naturale verso gli uomini che c’è in quella del coccodrillo. I suoi occhi, d’altra parte, chiedono una vittima qualsiasi, magari una spettatrice delle prime file.

I film in cui appare quest’attore sono un’elementare sfida alla logica, vi si parla almeno di raggi infernali e di ricerche scientifiche arditissime: tutte cose che i tecnici del trucco ottengono poi con una presa di corrente e un po’ di bicarbonato. Il tono misterioso dei racconti di Hoffmann finisce per confondersi con le «puntate» dei giornaletti per ragazzi. L’elettricità vi ha un gran posto, come motore dell’azione. È l’elettricità che si ritrova nei racconti dell’Ottocento, ancora opera di Satana scon­ sacrata e temuta dalle persone per bene. Negli apocalittici gabinetti si facevano ricerche di gusto mesmeriano, piene di intenzioni metafisiche non certo industriali. La misteriosa sorgente serve ai registi di Boris per risuscitare cadaveri, colpire a distanza e dare soprattutto al film un diabolismo scientifico molto scenografico. Grossi tubi luminosi, lampi lunghi un metro, manovelle, commutatori e fili arricciati danno allo spettatore lo sgradevole ricordo delle prime «scosse» prese da bambino nel toccare le lampade. In questo sgradevole ricordo le immagini seguenti scavano, no, si fanno una base per far accettare al nostro animo preoccupato tutte le altre meraviglie del film.

Ma le creature che quest’elettricità hollywoodiana riesce a evocare hanno in compenso la vita corta e difficile e muoiono anzi improvvisamente come, al risveglio, i fantasmi del sogno. Anche Boris Karloff è costretto a morire ogni volta senza nemmeno redimersi e a far male al suo prossimo senza essere perdonato. Né si parla mai di dargli una fidanzata, una ragazza qualsiasi, segno, questo, della riprovazione della censura americana per gli esseri sprovvisti di sentimento. Persino a King Kong si permise un amore che a Boris si nega. King Kong con le sue grandi zampe, prima di morire, sollevava lentamente Fay Wray e, con infinito amore, la sbucava degli abiti come una banana. Boris invece è il maledetto, l’inaccostabile, creatura artificiale, l’essere contro cui non la spuntano nemmeno le rivoltelle e figurarsi poi la polizia! Cosicché dovrà morire in maniera totale, per esempio arrostito in una sorgente di zolfo a 800 gradi di calore, come appunto succede nel suo ultimo film. Non deve restare nemmeno la speranza di poter recuperare il cadavere.

Dopo il film, Boris si strucca e si fa fotografare a casa sua. Lo si vede nella stanza di soggiorno bianco come un clown, con un sorriso da cane buono e sempre melanconico. Vicino gli è la moglie, vispa donnetta americana, tutta presa nella confezione di un grosso dolce. Così vivono, in privato, i fantasmi d’Oltreoceano.

Il figlio di Frankenstein riprende la trama del primo film del genere che si intitola, appunto, Frankenstein e fu, se non sbagliamo, una specie di eco alla nascita del Dottor Jekyll. Lo spettatore viene subito informato che la trama è ricavata da una novella scritta nel 1816 dalla signorina Mary Wollstonecraft.* (Quando consigliamo le nostre lettrici di non scrivere novelle, per nessun motivo, è forse un angelo che c’ispira.)

Il figlio del celebre dottore ritorna nel castello avito dopo una lunga assenza. Subito s’imbatte nell’ostilità dei suoi concittadini poiché molti misteriosi omicidi sono stati attribuiti dalla fantasia popolare al fantasma del castello, anzi al fantasma della creatura di Frankenstein senior. Ben presto Frankenstein junior si accorge che invece di esser morto il mostro è tuttora vivo, per una deplorevole dimenticanza del regista del primo film. Però il morto è paralizzato dall’effetto di un colpo di fulmine. Subito il giovane per amore scientifico tenta gli esperimenti elettrici del caso sul suo corpo. Gli avvenimenti del film ci mostreranno il mostro redivivo in tutta la sua macabra attività, sino alla fine dei suoi giorni. La quale, bisogna dirlo, viene accolta con un certo sollievo da tutti i presenti.

Gli attori di questo film, diretto da Rowland Lee con bravura, stanno tutti a posto loro. Basil Rathbone, il perfido per eccellenza, col suo naso da pessimista senza scrupoli, qui fa la parte del giovane dottor Frankenstein e mostra un volto nuovo, più calmo del solito, capace di buoni sentimenti paterni. Né potrebbe farne a meno avendo per moglie la liliale Josephine Hutchinson, che precedentemente fu moglie anche del dottor Pasteur nel film omonimo con Paul Muni. Lionel Atwill ritorna, dopo parecchio tempo, anche lui. Ha una parte di ispettore di polizia, abbastanza curiosa. Atwill ha una grossa tendenza al frappant: si vede, qui, cosa sa combinare con un suo braccio di legno, quante acrobazie gli fa fare, come lo impone al rispetto e all’ammirazione del pubblico.

* Lo spettatore in questo caso è stato male informato: il classico di Mary Shelley è un romanzo (novel).

Cine Illustrato, 25 settembre 1940

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