Israele e la Guerra dell’Immagine

Mentre prosegue il conflitto con i suoi vicini, lo Stato d’Israele combatte, con eguale e forse maggiore intensità, una seconda guerra: quella dell’immagine. Una guerra culturale, simbolica, persuasiva.

di Alberto Piroddi

Mentre prosegue il conflitto con i suoi vicini, lo Stato d’Israele combatte, con eguale e forse maggiore intensità, una seconda guerra: quella dell’immagine. Una guerra culturale, simbolica, persuasiva. E lo fa con mezzi titanici, spendendo somme colossali per inondare l’Europa di messaggi pubblicitari che non solo giustificano le proprie azioni, ma cercano di riscriverle in chiave epica, mitologica: difesa della civiltà occidentale, umanitarismo, precisione chirurgica. Nulla di più lontano dalla verità.

Uno studio di MintPress ha messo in luce che, a partire dall’attacco contro l’Iran del 13 giugno, l’Agenzia Governativa Israeliana per la Pubblicità ha acquistato decine di milioni di spazi pubblicitari su YouTube. Non semplici spot, ma veri e propri monologhi retorici, che infrangono le stesse policy di Google. Questi video – visionati da milioni in Regno Unito, Francia, Germania, Italia e Grecia – presentano l’operazione israeliana come un’eroica crociata per salvare l’Occidente. Gaza? Secondo la narrazione israeliana, sarebbe teatro della “più grande missione umanitaria del mondo”.

Tale propaganda si accompagna a un lessico da tragedia manichea. Gli annunci cominciano così: “Un regime fanatico lancia missili contro i civili. Israele agisce con precisione per smantellare questa minaccia.” Già la scelta lessicale è significativa: “regime fanatico” e “precisione israeliana”. Siamo all’interno della dialettica del nemico assoluto, che Carl Schmitt conosceva bene, e che ogni guerra – specie quelle sporche – alimenta per giustificare l’indicibile.

La voce narrante prosegue tra tamburi apocalittici e immagini sintetiche da videogame: “Israele fa ciò che deve essere fatto, per il suo popolo, per l’umanità”. E ancora: “La minaccia dell’Iran non riguarda solo Israele, ma l’intero Occidente”. Le mappe colorano l’Europa di rosso sangue, prefigurando un attacco nucleare iraniano imminente. Questa visione allucinatoria, questo terrorismo simbolico, viene presentato come realismo politico. Ma è allucinazione strategica, in cui la realtà viene negata per trasformarsi in favola nera.

Questa narrazione, tradotta in più lingue, ha raggiunto decine di milioni di cittadini europei. Altre pubblicità adottano toni più “morbidi”, nel tentativo – tragicomico – di presentare Israele come vittima riluttante. Un video mostra una madre con il neonato in ospedale, poi suonano le sirene, poi i missili. “Iran colpisce ospedali, neonati, famiglie. Israele risponde colpendo obiettivi militari.” Il problema non è solo l’artificio retorico, ma l’oscenità del suo disprezzo per la verità.

Secondo i dati, l’attacco israeliano ha causato la morte di 935 iraniani. Gli israeliani uccisi sono 28. Se Israele davvero fosse tanto “preciso”, le proporzioni dovrebbero essere ben diverse. Dall’ottobre 2023, Israele ha colpito deliberatamente centinaia di strutture mediche. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha documentato 697 attacchi a ospedali e cliniche. Il 94% degli ospedali di Gaza è stato distrutto o danneggiato. Più di 1.400 operatori sanitari uccisi. Tra essi, il dottor Adnan al-Bursh, ortopedico capo dell’ospedale al-Shifa, secondo varie testimonianze, torturato e violentato fino alla morte da guardie israeliane. UNICEF denuncia: oltre 50.000 bambini palestinesi uccisi o feriti. Un’infermiera americana, testimone diretta a Gaza, riferisce che i soldati israeliani sparano ai genitali dei bambini per impedirne la riproduzione.

Eppure, il Ministero degli Esteri israeliano, con colonna sonora epica degna di Hollywood, diffonde un video che recita: “Questa è la più grande operazione umanitaria del mondo. I sorrisi non mentono. Hamas sì.” Francesca Albanese, Relatrice Speciale ONU per i Territori Occupati, ha definito questi spot “scandalosi” e ha chiesto a YouTube: “Come è possibile permettere ciò?”

Tutti questi video, documentati nel Google Ads Transparency Center, sono ufficialmente registrati come contenuti sponsorizzati dallo Stato di Israele. Ma i “mi piace” e i commenti sono irrisori: qualche migliaio su milioni di visualizzazioni. Un’operazione di propaganda, quindi, non solo massiccia, ma anche palesemente artificiale. I video non sponsorizzati, infatti, ricevono poche decine di visualizzazioni al giorno. Ciò significa che il 100% del traffico è generato a pagamento. Israele ha tagliato i fondi ai servizi interni e aumentato di oltre il 2.000% il budget per la diplomazia pubblica. Solo il Ministero degli Esteri ha ottenuto 150 milioni di dollari extra. E li ha spesi in video pubblicitari che hanno raggiunto 45 milioni di visualizzazioni in un mese.

Grecia, caso emblematico: 65 campagne pubblicitarie diverse solo nell’ultimo anno. Un video in greco, che mostra Israele come portatore di aiuti a Gaza, ha ottenuto 1 milione di visualizzazioni in quattro giorni. Nessun commento. Appena 3.000 like. Il vuoto pneumatico dell’“engagement” autentico.

Israele diffonde i propri contenuti in inglese, francese, tedesco, italiano e greco. Altri Paesi, come Slovacchia, Danimarca e Olanda, ricevono la versione inglese. Non viene investito nulla nei Paesi che hanno condannato Israele – Irlanda e Spagna, ad esempio. La strategia è chiara: Israele cerca di consolidare il consenso nei Paesi “amici”, dove le élite politiche difendono Tel Aviv anche contro le opinioni delle proprie popolazioni.

Ma quello qui descritto è solo un segmento – minuscolo – di un’operazione molto più ampia. Non include né le ONG filosioniste né le altre agenzie governative israeliane. Facebook, Instagram, TikTok, X (ex Twitter): anche lì Israele diffonde la sua propaganda. YouTube è solo l’inizio.

Alcuni spot cercano di accreditare Israele come baluardo della “civiltà”. Netanyahu proclama: “Non permetteremo al regime più pericoloso del mondo di ottenere le armi più pericolose del mondo.” E aggiunge: “Questa è una guerra per la civiltà.” Una frase in sé colonialista, intrisa di razzismo strutturale: il pericolo è tale solo quando minaccia “la civiltà”, cioè l’Occidente.

Poi arriva il paragone finale: la guerra scatenata da Israele viene accostata alla Shoah. “Quando un nemico giura di distruggerti, credigli. Quando costruisce armi di morte, fermalo. Come insegna la Bibbia: se qualcuno viene per ucciderti, alzati e colpisci per primo.” Parole che dovrebbero inquietare ogni europeo che abbia a cuore la differenza tra memoria e vendetta.

Le regole pubblicitarie di Google vietano esplicitamente contenuti scioccanti, incitamenti all’odio, discriminazioni. Eppure, i video israeliani violano questi principi. Google, interpellata da MintPress, non ha risposto su costi, visualizzazioni, né ha preso posizione sulle dichiarazioni di Albanese. Ha dichiarato di “applicare le regole senza pregiudizi”. Un’ironia amara, se si considera che l’ex CEO Eric Schmidt è da sempre vicino a Israele, che Google ha investito in Israele sin dal 2006 e che nel 2012, incontrando Netanyahu, Schmidt disse: “Investire in Israele è stata una delle decisioni migliori di Google”.

Sergey Brin, cofondatore, ha definito l’ONU “apertamente antisemita” e ha dichiarato che usare la parola “genocidio” per Gaza “offende i sopravvissuti agli autentici genocidi”. Nel 2025, con l’economia israeliana in declino, Google ha acquistato la società di cybersicurezza Wiz per 32 miliardi di dollari, iniettando ossigeno nell’economia israeliana. Un’operazione finanziaria che solleva non pochi dubbi: si tratta davvero di un investimento, o di un salvataggio politico mascherato da business?

Soprattutto considerando che Wiz è stata fondata da ex membri dell’Unità 8200 – l’NSA israeliana. Almeno 99 ex-agenti di questa unità lavorano oggi per Google, tra cui Gavriel Goidel, capo della strategia per Google Research, con una carriera alle spalle in analisi di “attivisti ostili”.

E non è finita. Meta, Microsoft, Amazon: tutte le Big Tech americane impiegano centinaia di ex-agenti israeliani in ruoli strategici. L’informazione occidentale su Medio Oriente e Palestina è gestita – letteralmente – da ex-servizi israeliani. Anche Wikipedia è stata infiltrata: sotto il governo Bennett, migliaia di giovani israeliani furono assoldati per “correggere” le voci sgradite. I migliori editor ricevevano… voli in mongolfiera.

E ora il governo israeliano ha creato task force per intimidire studenti americani filo-palestinesi, minacciando conseguenze economiche e professionali. Il ministro Cohen ne coordina le operazioni. La firma? Non deve comparire: “non a nome dello Stato di Israele”.

Eppure, il consenso europeo sfugge. Secondo un sondaggio YouGov, il 43% degli italiani ha un’opinione molto negativa di Israele. Solo il 2% molto positiva. Anche in Germania, Paese più vicino a Israele, il 65% ha opinioni sfavorevoli. In Gran Bretagna, il 48% afferma: “Israele tratta i palestinesi come i nazisti trattarono gli ebrei.”

Di fronte a tale rigetto, Israele moltiplica i mezzi: influencer, youtuber, denaro, minacce. Una propaganda ipertecnologica, tradotta in cinque lingue, che ha raggiunto 45 milioni di persone in un mese. Ma resta una domanda: si può convincere l’opinione pubblica a sostenere un genocidio? La Storia insegna che ogni impero, prima della caduta, alzava il volume della propaganda. E ciò che è detto per primo nei salotti delle élite, finisce sempre con l’essere smentito dai sussurri delle rovine.

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