Ue, scontro Gruber-Travaglio

Ue, scontro Gruber-Travaglio. “La democrazia non è unanimità”. “Ma nemmeno quattro persone che decidono per tutti”

Scintille durante la puntata di Otto e mezzo, dove si è acceso un vivace confronto tra la conduttrice Lilli Gruber e Marco Travaglio, sulla visione dell’Unione europea e sulle prospettive di una possibile Europa a due velocità, ipotesi avanzata da Corrado Augias.

di Alberto Piroddi

C’è un tratto comune, profondamente rivelatore, nel modo in cui Corrado Augias e Lilli Gruber trattano l’idea di Europa: la rimozione del tragico. L’illusione che si possa costruire una polis, un ordine politico continentale, semplicemente per efficienza, per buona educazione istituzionale, come se si stesse discutendo di arredo urbano o di una riforma delle ferrovie. Parlano di maggioranze, di “doppia velocità”, di superamento dei veti come se ci trovassimo in un Parlamento federale già costituito, già legittimato da un demos sovranazionale. E invece no. Ci troviamo — ancora e sempre — dentro una costruzione posticcia, mai davvero fondata, sempre più simile a un condominio litigioso che a una comunità politica.

Augias, con la sua abituale cortesia professorale, propone un’Europa “a due velocità”. La chiama “embrione”, lo dice con la speranza di chi sogna ancora una nuova civilizzazione continentale. Eppure non si accorge — o finge di non accorgersi — che quel progetto è, per sua natura, secessionista. Divide, distingue, stabilisce una gerarchia tra chi merita di decidere e chi deve solo seguire. È l’idea che la democrazia europea possa nascere dall’alto, dal nucleo dei “migliori”, dei più “responsabili”, dei più “europeisti”. Ma questo non è un embrione. È un aborto della ragione democratica.

Gruber, invece, si accoda a questa narrazione con l’energia di chi vuole “sbloccare l’Europa”, togliere i freni, rompere i lacci dell’unanimità, puntare sulle maggioranze. Afferma che i veti sono la tomba dell’Unione, che a fermare tutto sono i “populisti e sovranisti”. Anche qui, la diagnosi è miope. Il sovranismo non è una malattia che si cura con una nuova governance. È una reazione immunitaria al senso crescente di estraneità che milioni di europei provano rispetto a un’Unione sempre più distante, sempre più tecnocratica, sempre più opaca.

Augias e Gruber vogliono decisione. Vogliono rapidità. E allora invocano un’élite. I “quattro-cinque” che trainano. Macron, Tusk, Merz, Starmer. “Non sono oligarchi”, dice Gruber. “Sono capi di governo eletti”. Certo. E chi lo nega? Ma sono eletti nei loro Paesi, non da un popolo europeo che — semplicemente — non esiste. A meno che non si voglia sostenere che chi governa la Francia debba, per naturale superiorità culturale, avere voce in capitolo anche sui destini della Slovenia o della Grecia. Siamo al ritorno dell’eurocentrismo intra-europeo, dove Parigi e Berlino diventano il nuovo centro imperiale e tutto il resto è periferia.

In questa retorica dell’Europa “che decide”, “che va avanti”, manca totalmente una teoria del potere. Manca la consapevolezza che potere senza legittimazione è violenza. E che ogni accelerazione istituzionale in assenza di fondamento politico è destinata non a riformare l’Unione, ma a farla implodere. Si vuole superare l’impasse? Bene. Ma per farlo non basta modificare regole. Bisogna modificare coscienze. E questo processo non avviene nei consessi di Bruxelles né nei salotti televisivi. Avviene nella storia. E la storia non perdona chi tenta di forzarla.

Augias parla come se l’Europa a doppia velocità fosse il punto d’arrivo naturale del progetto d’integrazione. Ma non sa — o rimuove — che già oggi l’Unione è multipla: Schengen, eurozona, cooperazione rafforzata, clausole di opt-out. Ogni Stato è dentro e fuori allo stesso tempo. La vera questione non è “con quanti andiamo avanti”, ma “verso cosa andiamo?”. Perché a forza di correre senza meta, ci si ritrova nel burrone.

Gruber, dal canto suo, vuole Europa, vuole progresso, ma lo immagina come una macchina: più leggi, meno veti, più decisioni, meno discussioni. È la visione post-democratica della governance. Funziona fino a quando il cittadino tace. Ma quando il cittadino parla — e vota — allora diventa populista, retrogrado, fastidioso. E allora lo si esclude dal processo decisionale. O lo si convince che è per il suo bene. Questo paternalismo travestito da europeismo è il volto elegante della nuova oligarchia liberale.

Questi discorsi sono culturalmente stanchi. Non aprono, chiudono. Non uniscono, dividono. L’Europa che serve non è più quella dei tecnocrati né quella dei padroni illuminati. È quella che sa accettare la crisi come condizione originaria del politico. Una crisi che va affrontata costruendo simboli comuni, linguaggi condivisi, progetti educativi. Non riforme di regolamento.

Chi pensa che basti cambiare le regole per cambiare l’Europa non ha capito nulla del potere. Il potere non è efficace se non è legittimo. E la legittimità non si compra con un trattato. Si conquista con il conflitto, con il riconoscimento, con la capacità di costruire un destino comune — non con un “gruppo guida” che si stacca dagli altri per inseguire un’utopia tecnocratica.

Io non voglio un’Europa a due velocità. Voglio un’Europa tragica, lacerata, difficile, lenta — ma vera. Dove il voto del più piccolo conti quanto quello del più grande. Dove nessuno si possa permettere di dire: “Decido io perché sono più civile”. Questa è l’unica Europa che abbia senso. Tutto il resto è fantasia autoritaria per élite spaventate dalla storia.

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