La Mercedes scoperta di Heydrich, ferma dove è avvenuto l'attentato di Gabčík e Kubiš, nel quartiere di Holešovice, alla periferia di Praga

L’eliminazione di Reinhard Heydrich

Il racconto dell'operazione militare che portò all'uccisione del generale delle SS Reinhard Heydrich durante la seconda guerra mondiale

Un uomo dal cuore di ferro

Rivendicata come territorio millenario del Reich, smembrata delle sue frange sudete di lingua tedesca in virtù degli accordi di Monaco del 1938, messa sotto il «protettorato» del Reich, la Cecoslovacchia reagì malissimo di fronte agli ideali nazisti. Konstantin von Neurath, primo Reichsprotektor di Boemia e di Moravia, se ne accorse in fretta. Sebbene avesse ai suoi ordini un governo fantoccio, non registrò che insuccessi davanti alla resistenza passiva del popolo ceco — dagli operai agli intellettuali — che si tradusse in un calo della produzione che metteva in pericolo il Terzo Reich. La resistenza attiva si manifestava poco, o niente del tutto. Era stata stroncata fin dal principio e i sopravvissuti erano emigrati.

Uno di questi emigrati si chiamava Jan Kubiš. Contadino della Moravia arruolato nell’esercito per puro patriottismo, di fronte alla minaccia delle pretese naziste, e soldato congedato prima di aver combattuto, aveva fatto parte di quel gruppo di resistenza smantellato ancor prima di esser entrato in azione. La cosa era stata così semplice per i tedeschi, che non avevano neppure reputato utile di fucilare Kubiš ed i suoi compagni. Li avevano rinchiusi in una prigione mal custodita, dalla quale erano stati liberati da un piccolo commando di amici.

Kubiš attraversò clandestinamente la frontiera, si arrolò nella Legione straniera e, ben presto, si trovò integrato nell’armata ceca formatasi in territorio francese, ad Agde, nel 1939. Combatte in Francia e, dopo la sconfitta, passò in Africa del Nord. Di lì raggiunse l’Inghilterra, poi il campo di Cholmondeley, in Scozia. Trascorse diciotto mesi in quella scuola speciale, che formava i sabotatori cechi destinati ad essere lanciati col paracadute nel loro paese, al momento opportuno.

Il 27 settembre 1941, von Neurath cedette il Protettorato di Boemia e Moravia al giovane generale delle S.S. Reinhard Heydrich, il braccio destro di Himmler e colui che Hitler chiamava «l’uomo dal cuore di ferro». Questo giudizio di Hitler, che il cuore non l’aveva certo tenero, può dare l’idea del carattere del nuovo governatore.

Heydrich era uno dei perni del regime nazista, forse il più importante. In quel periodo, si diceva che la sua potenza preoccupasse lo stesso Hitler. Heydrich aveva agenti in tutti i servizi delle varie polizie, era il capo dell’R.S.H.A., aveva preparato fascicoli compromettenti su ogni dignitario del Reich e se ne serviva, in caso di bisogno, per farli cantare, intimorirli o spezzarli. Era odiato da tutti, e di questo odio si pasceva; ma si era circondato di un dispositivo di sicurezza che nessuno osava sfidare.

L’ “ebreo” Heydrich

Anche il partito si era preoccupato di «difendersi» dalle intemperanze di un affiliato così gelido e sanguinario, con un proprio dispositivo di sicurezza. Sia Canaris, che Himmler e lo stesso Hitler sapevano che nelle vene di Heydrich scorreva un quarto di sangue ebreo. Nel 1933, quando le «voci» sulle origini del temutissimo gerarca cominciarono a girare, Hitler convocò Heydrich. Vi fu una conversazione lunghissima ed «estremamente chiara», come raccontò poi lo stesso Führer a Himmler. «Heydrich», aggiunse, «è un uomo estremamente dotato e straordinariamente pericoloso. Le sue capacità dovevano essere riservate solo al movimento nazista. Con individui del genere si può lavorare se esiste una valvola di sicurezza». La «valvola di sicurezza» a cui Hitler faceva riferimento era il ricatto: l’ascendenza non ariana di Heydrich poteva tornare comoda in qualsiasi momento.

Un quarto di sangue ebreo. Come lo aveva ereditato? La madre era figlia del consigliere di corte, professor Eugen Krantz, di Dresda. Ma la moglie del professor Krantz come si chiamava? Nel rapporto che Gregor Strasser, capo della Divisione amministrativa del personale del partito, svolse sul conto di Heydrich, dopo un’«amichevole segnalazione» del Gauleiter di Hale-Merseburg che parlava di «chiacchiere sulla non arianità della brillante S.S.», non c’è il nome della nonna di Reinhard. Semplice dimenticanza? Piuttosto un furbo senso di opportunità. Heydrich era già potente e già godeva fama di uomo senza scrupoli. Metterselo contro non conveniva a nessuno e Strasser lasciò perdere il fatto che la nonna si chiamasse Sara Mautsch, che fosse una signora molto ricca ed ebrea ortodossa. Ma lo fece sapere a Martin Bormann, nei cui schedari fu subito annotato che «Heydrich era ebreo per un quarto». Essere ebreo per un quarto, secondo le leggi razziali, non costituiva un fatto grave. A Norimberga, nel ’35, si era codificato che «gli ebrei per un quarto potevano essere considerati ariani», quindi «cittadini del Reich» e non «sudditi dello Stato». Un comma della legge stabiliva, però, che, se l’individuo in questione fosse poco sicuro dal punto di vista politico o il suo aspetto fisico ricordasse la «razza giudaica», egli doveva essere considerato «ebreo purosangue», con tutte le nefaste conseguenze del caso. Questo comma rappresentava il tallone di Achille di Heydrich e la forza dei suoi camerati. Anche Canaris nel suo archivio conservava la genealogia di Heydrich. Durante un viaggio in Spagna depositò il dossier a Madrid, nella casa di un suo amico fidato. «Da trasmettere al New York Times, in caso di morte violenta», c’era scritto sulla busta. Al ritorno a Berlino lo fece subito sapere all’interessato. Come per dirgli: toccami se hai il coraggio. Le temperanze sanguinarie di questo giovane signore delle S.S. consigliavano, a tutti, le necessarie precauzioni.

Non appena giunto a Praga, Heydrich proclamò lo stato di emergenza. Poi fece fucilare un certo numero di notabili civili e militari che erano in prigione. Ordinò che fossero preparate nuove liste di ostaggi e si accanì in modo particolare contro gli intellettuali. Tutti coloro che osavano pensare, parlare o scrivere al di fuori degli schemi nazisti venivano passati per le armi. Egli attaccò prima di tutto l’anima e lo spirito della Cecoslovacchia. Poi tentò di radunare le masse laboriose da cui dipendeva la produttività e vi riuscì. Gli operai ottennero vantaggi sostanziali per ogni lavoro supplementare e le industrie ripresero il loro ritmo di un tempo.

Questo ritorno all’ordine rappresentava soltanto la prima parte del programma.

La seconda parte era più ambiziosa e poteva rivelarsi mortale per la Cecoslovacchia. Heydrich promise di lasciare una maggior libertà al governo ceco: la libertà, per esempio, di ricostituire l’esercito sciolto dopo l’invasione. Con questo trucco, il Reichsprotektor pensava di offrire a Hitler un dono di venti divisioni: utilizzate sul fronte russo, avrebbero avuto un peso notevole sulla bilancia. Era un progetto facilmente leggibile. Perciò gli ufficiali superiori cechi e i loro Servizi segreti a Londra decisero la condanna a morte di Heydrich.

A questo punto intervennero Jan Kubiš e Josef Gabčík. Jan fu scelto perché, fra tutti gli uomini della Scuola speciale, era senza dubbio quello che odiava di più i nazisti. Quando era caduto nelle loro mani, al tempo della Resistenza, i nazisti non si erano accontentati d’imprigionarlo. Lo avevano umiliato nel più atroce dei modi: gli avevano impresso a fuoco, sulle natiche, sette croci uncinate.

Josef Gabčík fu scelto per accompagnarlo in questa missione poiché era l’amico inseparabile di Jan. I due giovani si erano conosciuti in un campo di profughi, presso Varsavia. Lì, di comune accordo, si erano arrolati nella legione straniera, che aveva un ufficio di reclutamento nel campo. Quando la nuova armata ceca libera si costituì ad Agde, essi la raggiunsero. Poi l’Africa del Nord li aveva visti sbarcare insieme. Da qui in Inghilterra, poi in Scozia.
I Servizi segreti, che li avevano reclutati e addestrati per diciotto mesi, avevano avuto il tempo di studiarli. I due uomini avevano la stoffa necessaria. La loro tempra era a tutta prova e le loro qualità di combattenti e di atleti erano eccezionali. Ognuno dei due era un asso, nella sua specialità. La specialità di Gabčík era la pistola mitragliatrice, la famosa Sten inglese, e quella di Kubiš la granata Mills, inglese anch’essa, e altrettanto famosa.

Nel campo Cholmondeley, nessuno sapeva lanciare una bomba a mano come Jan Kubiš, così lontano, con tanta forza e con tanta precisione. Con una bomba, d’altronde, si era meritato la Croce di Guerra durante la campagna di Francia: Jan aveva difeso da solo un ponte contro una pattuglia tedesca. L’aveva messa in fuga con le bombe a mano, salvando così la vita degli uomini della sua pattuglia.

Gli addestratori pensarono ai due per la missione che stavano preparando: uno era, infatti, il completamento dell’altro. Kubiš aveva la serietà, la riservatezza e l’ostinazione dello slovacco. Grazie alla fantasia di Gabčík, Kubiš evitava d’essere troppo pignolo; Gabčík, a sua volta, trovava nel realismo di Kubiš un freno ai suoi eccessi. I due giovani erano la miglior coppia della scuola e perciò a loro toccò l’onore di essere i primi cechi lanciati con il paracadute nel loro paese, da quando erano cominciate le ostilità.

All’«uomo dal cuore di ferro» i Servizi segreti cechi opponevano un giovane contadino, che aveva la sola passione di preparare un album di fotografie da portare ai genitori, e un piccolo fabbro arguto, che amava cantare, ridere, raccontar frottole e far scherzi.

Nel dicembre del 1941, in una notte senza luna, un pesante Halifax sganciò il gruppo «Anthropoid» nella regione di Plzen. O, almeno, il pilota credette che fosse così. In realtà, Jan e Josef atterrarono molto lontano dal punto stabilito, in mezzo a una campagna spoglia e coperta di neve. Il freddo era intenso. L’Halifax continuò il volo e sganciò in un altro punto i tre uomini del gruppo «Silver A». Si chiamavano Bartos, Potucek e Valcik; trasportavano materiale radio e avrebbero effettuato il primo collegamento fra la Cecoslovacchia e l’Inghilterra.

Le cose cominciarono male. Gabčík, atterrando, si fratturò un dito del piede. Bisognava trovare un riparo ed egli non poté aiutare l’amico. Jan scoprì una capanna da giardiniere e vi depose il ferito; poi ricuperò il materiale calato con un terzo paracadute: viveri, armi, munizioni ed esplosivi. I due giovani lo seppellirono nella capanna, poi cercarono di riscaldarsi e di mangiare. Quando si furono rimessi in forze, Jan uscì in cerca di un rifugio meno precario. Spuntava l’alba.

Jan ispezionò prudentemente i dintorni e non incontrò anima viva. Attraverso i campi, si avviò verso un promontorio boscoso, dove ebbe la fortuna di trovare una cava abbandonata, le cui aperture erano dissimulate da rovi. I due paracadutisti decisero di rimanere nella cava, finché il piede ferito permettesse a Gabčík di camminare con scioltezza. Il terzo giorno, un uomo li scoprì.

L’uomo aveva trovato le loro tracce nei pressi della capanna e le aveva seguite fino alla cava. Aveva trovato anche i paracadute, che i due giovani avevano voluto conservare come ricordo, a dispetto dei formali ordini contrari: un’altra prova della loro mentalità da ragazzi. L’uomo, un guardacaccia, era un patriota. Offrì ai giovani il suo aiuto e la sera stessa portò dei viveri.

Il giorno seguente, un nuovo intruso si presentò all’ingresso della cava. Lo accolsero rivoltelle in pugno. Poté dimostrare di essere anche lui un patriota. Disse ai due uomini che tutto il villaggio vicino, svegliato dal rumore dell’Halifax che volava a bassa quota, aveva visto le tre corolle bianche dei paracadute. Era venuto alla cava per semplice deduzione. Il guardacaccia non gli aveva detto niente. Ma i tedeschi avrebbero potuto fare come lui: quindi, rimanere lì era pericoloso.

Due giorni dopo l’uomo, un mugnaio di nome Bauman, accompagnò i sabotatori fino alla stazione del villaggio, dove li affidò a una guida. In treno, essi arrivarono a Praga senza inconvenienti. Avevano documenti falsi imitati alla perfezione e dovevano somigliare a degli impiegati: portavano cappotti scuri e cappelli flosci e tenevano in mano innocenti cartelle, che in realtà erano piene di armi e di munizioni.

La loro guida li condusse presso una famiglia di Praga, che li ospitò, fornendo loro una copertura. Poi accompagnò Jan Kubiš all’appuntamento che era stato fissato con i resistenti clandestini di Praga. Jan ne incontrò il capo. Si chiamava Jindra e faceva il professore in un collegio. Aveva organizzato una rete, per il momento inutilizzata mancando armi ed esplosivi. Non poteva neppure indicare ai bombardieri inglesi gli obiettivi da distruggere, essendo sfornito di un apparecchio emittente. Perciò apprese con gioia che un gruppo radio era stato lanciato con il paracadute, nello stesso giorno in cui erano scesi Gabčík e Kubiš. Quest’ultimo, durante il primo colloquio, non gli disse nulla degli obiettivi della sua missione, ma Jindra li indovinò.

Jindra affidò i due giovani a «Zio Hajsky», il suo uomo di fiducia, un istitutore di una cinquantina d’anni. Egli procurò loro l’indispensabile permesso di lavoro e due certificati medici attestanti la loro temporanea incapacità di lavorare. Ospitati ora in una casa, ora in un’altra, Jan e Josef cambiavano spesso di domicilio, per scoraggiare eventuali indagini poliziesche. Grazie allo «Zio Hajsky», poterono circolare liberamente e preparare il loro attentato in tutta tranquillità.

Trovarono un rifugio particolarmente umano presso «Zia Maria». Maria Moravec, che lavorava nella Croce Rossa, era una delle reclute migliori di Jindra. Aveva anche lei cinquant’anni ed era sposata con un uomo dal carattere dolce e calmo. Il suo unico figlio, soprannominato Ata, aveva vent’anni. Questa famiglia divenne la preferita dei due patrioti. Le riunioni più importanti si tenevano sempre in casa di Maria Moravec.

Alla fine del febbraio 1942, Jan e Josef ritrovarono Vaicik, uno dei tre radiotelegrafisti paracadutati poco dopo loro. Vaicik era atterrato lontano dai suoi compagni e si era smarrito. Con molta audacia, aveva tranquillamente raggiunto il villaggio più vicino e noleggiato un taxi per farsi condurre a sessanta chilometri di distanza, presso un partigiano di cui Londra gli aveva dato l’indirizzo.

Grazie alle reti di resistenza, Valcik aveva ritrovato i suoi due compagni nella città di Pardubice. I tre avevano impiantato il loro apparecchio emittente presso un imprenditore che sfruttava una cava. Il 9 gennaio, Londra ricevette la prima trasmissione di «Libuse». Il contatto era stabilito, finalmente, ma Potucek, l’operatore, usava un apparecchio ricevente troppo debole e non riusciva a captare le risposte. Se ne accorse, e il 15 riuscì ad ottenere il primo collegamento completo.

Dopo i primi brancolamene e l’organizzazione della base operativa necessaria all’esecuzione del loro piano, Jan Kubiš e Josef Gabčík passarono alla seconda fase, la preparazione diretta dell’attentato.

Il tempo delle scaramucce

Jan e Josef studiavano insieme con «Zio Hajsky» le possibilità del colpo e sottoponevano a Jindra le loro idee.

Scartarono rapidamente il programma di un attacco diretto nel vecchio palazzo dei re di Boemia, castello di Hradcany, divenuto palazzo del Reichsprotektor. Un informatore di Hajsky, antiquario e conservatore della mobilia del castello, li aveva dissuasi. Egli aveva entrature ovunque ed aveva informato i patrioti dei sistemi difensivi di Heydrich. Si trattava di sistemi senza errori.

Allora i due pensarono di assalire il treno privato che Heydrich adoperava per recarsi a Berlino. Esistevano molti punti in cui il treno doveva rallentare e le S.S. non potevano sorvegliare il percorso per centinaia di chilometri. Individuarono uno di quei punti, ma rinunziarono anche a questo progetto. Il treno era composto di molti vagoni e, fra i numerosi ufficiali del suo seguito, sarebbe stato impossibile riconoscere Heydrich a colpo sicuro.

Rimaneva l’abitazione privata del Reichsprotektor. Con la moglie, la bionda e bella Inga, ed i suoi tre figli, Heydrich abitava in una splendida villa nei dintorni di Praga. Ogni giorno, impiegava quarantacinque minuti per effettuare il tragitto fino al palazzo Hradčany. Jan e Josef studiarono quel percorso in tutta la sua lunghezza.

Notarono con soddisfazione che qualche volta Heydrich trascurava di farsi scortare, specialmente quando si recava all’aeroporto per prendere un aeroplano. E anche quando era scortato, la sua rapida Mercedes distanziava le altre automobili, con uno scatto di velocità sul lungo rettilineo. I due terroristi avevano pensato di tendere un filo d’acciaio fra due alberi, su quel rettilineo, ma poi avevano trovato qualcosa di meglio.

All’ingresso di Praga, nel sobborgo di Holešovice, una curva a «U» costringeva i veicoli a rallentare notevolmente; e, quando incrociavano un tram su quella curva, dovevano fermarsi addirittura. Era il punto ideale. Una volta trovato il luogo adatto per l’attentato, non rimaneva che fissare la data, poiché l’ora dipendeva soltanto dal Reichsprotektor.

Nel frattempo, durante i primi giorni d’aprile, un Halifax aveva scaricato in paracadute altri gruppi di sabotatori. Il primo gruppo era composto dal tenente Pechal, dal sergente Miks e dal soldato Gerik. L’operazione andò male: appena atterrati, i tre uomini s’imbatterono in una pattuglia di gendarmi. Riuscirono a scappare con il favore della notte, ma ormai l’allarme era dato: i tedeschi sapevano che c’erano paracadutisti in azione in Cecoslovacchia.

Di questi tre uomini, soltanto il sergente Miks riuscì a cavarsela. Poté raggiungere il suo villaggio natale, dove gli amici lo misero in contatto con il gruppo Jindra. Ritrovò cosi Jan e Josef e si unì a loro. Pechal fu arrestato poche settimane dopo. Quanto a Gerik, si arrese e tradì i suoi amici: diede i loro nomi, confessò l’obiettivo della missione e indicò il punto in cui il materiale radio era stato nascosto, al momento dell’atterraggio.

Il tenente Adolf Opálka e il maresciallo Karel Curda formavano il secondo gruppo, che ebbe maggior fortuna. I due paracadutisti toccarono terra a meno di cinquanta chilometri dai loro rispettivi domicili, dove trovarono un asilo sicuro. Tre giorni dopo, Opálka si metteva in contatto con Kubiš e Gabčík e rivelava loro lo scopo della sua missione: preparare il bombardamento delle fabbriche di armamenti Škoda, a Plzeň.

Jan e Josef erano già passati alla resistenza attiva e avevano sabotato con successo una ferrovia. Insieme con Valcik, si unirono al gruppo Opálka per questa seconda azione di sabotaggio. Il loro compito consisteva nel trovare due edifici da incendiare da entrambi i lati della fabbrica, in modo che il fuoco servisse da segnale ai bombardieri. Alla data e all’ora convenuta con Londra per mezzo di «Libuse», essi appiccarono il fuoco a due fienili. Puntuali all’appuntamento, gli aeroplani bombardarono a tappeto quella specie di canale indicato dagli incendi, ma il loro tiro mancò di precisione e l’incursione fu un fallimento.

Nonostante queste azioni, Kubiš e Gabčík s’impazientivano. Jindra e «Zio Hajsky» cercavano di frenare i loro ardori. La repressione che sarebbe seguita all’attentato rischiava di smantellare una rete che essi avevano organizzato con grande fatica e che cominciava appena a funzionare. Avevano ancora bisogno di tempo, di apparecchi emittenti, di armi, di esplosivi e di un maggior numero di paracadutisti, per formare e inquadrare i propri uomini. Ma Kubiš non voleva più aspettare. Dopo il tradimento di Gerik, era sopravvenuta la morte di Miks, in una circostanza che avrebbe potuto assumere aspetti assai più catastrofici.

Poco tempo dopo il fallimento dell’incursione della R.A.F. su Plzeň, erano giunte tre nuove squadre di paracadutisti. In principio, tutto si era svolto bene. Come i loro predecessori, gli uomini avevano nascosto il materiale nel luogo di atterraggio; poco dopo erano stati raccolti dai partigiani di Jindra e nascosti a Praga. Alcuni giorni dopo, quattro uomini erano andati a ricuperare il materiale, di notte. Ma un contadino aveva scoperto i contenitori ed aveva avvertito i tedeschi, che pagavano molto bene questo genere d’informazioni. Una trappola aspettava i quattro partigiani.

Valcik e Ata Moravec, il figlio di «Zia Maria», ebbero la fortuna d’imbattersi, alla deviazione di una strada infossata, in un gendarme ceco patriota. Il gendarme li informò di quanto stava capitando e fece anche di meglio, indicando loro un sentiero non sorvegliato; poi li sollecitò a scomparire. Nello stesso modo, Miks e Ruba, uno dei nuovi arrivati, incontrarono due rappresentanti della legge; ma questi ultimi erano favorevoli ai nazisti.

Alle ingiunzioni di «alt!» e «mani in alto!», i due interpellati reagirono secondo i loro temperamenti: Kuba, sottile e agile come un’anguilla, si gettò nella macchia, mentre Miks, un ex pugile, tarchiato come un toro, aprì il fuoco. Abbatté i due gendarmi, ma rimase ferito.

Kuba si chinò sul corpo del compagno, tentò di sollevarlo. Già sì udivano grida vicine, altre pattuglie accorrevano, ma Kuba non voleva abbandonare Miks. Per metter fine a questa situazione, Miks appoggiò la canna della sua arma alla tempia e si uccise. Disperato, Kuba fuggì e raggiunse Praga senza difficoltà.
Il fallimento dell’incursione aerea, la morte di Miks (che i tedeschi avevano fatto identificare da Gerik), la collaborazione con il nemico di un numero sempre maggiore di cecoslovacchi, allettati dai premi offerti per le denunzie, i successi dì Heydrich, che sembrava capace di portare il paese in guerra a fianco dei nazisti, tutto questo spinse Jan e Josef ad agire il più presto possibile, nonostante le reticenze di Jindra e di «Zio Hajsky».

Il 26 maggio, nel loro nuovo nascondiglio, l’appartamento del professor Orgun, si svolse un’ultima, burrascosa riunione. Con la morte nel cuore, i capi della Resistenza praghese accettarono la decisione dei due giovani. Il momento sembrava propizio. Il giorno dopo, Heydrich doveva prendere l’aeroplano diretto a Berlino. Probabilmente sarebbe andato da solo all’aeroporto, accompagnato soltanto dall’autista-guardia del corpo, il gigantesco maresciallo Klein.

Erano sei mesi che Jan e Josef aspettavano il momento. Per i due giovani, passare all’azione fu più difficile del previsto, perché entrambi nel frattempo si erano innamorati. Jan si era innamorato della giovane vedova di un partigiano assassinato dalla Gestapo, Anna Malinova. Trascorse l’ultima sera con lei. Josef si era fidanzato con la figlia di uno dei loro ospiti, Liboslava Fafka. Anch’egli consumò le ore dell’attesa in compagnia della ragazza, la quale ignorava tutto sul programma del giorno dopo. Anna, invece, ne era al corrente. Anna Malinova si rifugiò in casa di «Zia Maria». Jindra e Hajsky si sentivano improvvisamente molto vecchi. Jan e Josef ritornarono dal professor Orgun, il quale non tentò di nascondere il suo terrore. I due giovani ricontrollarono le loro armi per l’ultima volta, poi cercarono di dormire. Forse, restavano loro soltanto dodici ore di vita. Si ricordarono di Dio e pregarono perché Heydrich morisse con loro, almeno.

Due uomini con i nervi d’acciaio

La mattina del 27 maggio 1942 era bella e piena di sole; l’aria era dolce e profumata. Una giornata confortevole, in un certo senso, per morire; un tempo propizio, che avrebbe indotto Heydrich a viaggiare in automobile scoperta, una buona cosa per Jan Kubiš e le sue bombe a mano.

Heydrich partì dalla sua villa di Panenske Brezany alle dieci del mattino. La villa era custodita in maniera formidabile, il villaggio intero era stato evacuato ed i suoi abitanti erano stati sostituiti da una guarnigione di S.S. Durante il tragitto il Reichsprotektor, secondo le previsioni, era accompagnato soltanto dal maresciallo Klein, un uomo il cui coraggio era proporzionato all’ampiezza delle spalle. Con lui, Heydrich non temeva niente.

Un’ora prima, Kubiš, Gabčík e Valcik erano arrivati nel quartiere di Holesovice, l’ultimo in tram, gli altri due in bicicletta. Valcik si era appostato nella strada in discesa che dominava la curva, a trecento metri di distanza dai suoi compagni. La sua parte consisteva semplicemente nel segnalare, per mezzo di uno specchietto tascabile, l’avvicinarsi della Mercedes verde.

Kubiš e Gabčík lasciarono le loro biciclette appoggiate all’inferriata di un giardino. La strada era tranquilla. Alcune massaie chiacchieravano da una casa all’altra. In un’edicola, un venditore di tabacco leggeva il giornale. Accanto all’edicola c’era una cabina telefonica, dalla quale Gabčík chiamò la fidanzata, soltanto per dirle che le voleva bene. Di fronte a lui Kubiš, mescolato agli altri passeggeri alla fermata del tram, fingeva di aspettare.

Sonarono le dieci e trenta. I tre giovani aspettavano pazientemente da un’ora e mezzo, ma nessuno sembrava stupirsene. D’un tratto, Gabčík scorse i rapidi lampeggiamenti dello specchio di Valcik e si appiattì dietro il parapetto di un ponticello. Pochi istanti prima, approfittando del fatto che il luogo era momentaneamente deserto, aveva estratto la Sten dalla cartella porta-documenti. Sotto l’impermeabile gettato sul braccio, la rivoltella era invisibile. Gabčík fischiò e Kubiš ebbe un sussulto: anch’egli vide i lampeggiamenti di Valcik e, portando la mano alla tasca destra, strinse la bomba a mano.

Nella Mercedes scoperta, Heydrich aveva preso posto accanto a Klein. Quest’ultimo, attaccando la curva, frenò e inserì una marcia inferiore. Era giunto il momento. Gabčík, scoprendosi, gettò via l’impermeabile, fece due passi, prese la mira e sparò. Ma la Sten rimase muta: all’ultimo momento, l’impermeabile si era impigliato nella sicura, bloccandola. Gabčík rimase impietrito, e mentre l’automobile gli passava davanti, continuò a mirare contro Heydrich che lo guardava con stupore e già sganciava con la mano l’astuccio della pistola. Klein frenò, cosa che non avrebbe dovuto fare. Jan Kubiš balzò verso la vettura e, lanciando un urlo selvaggio, scagliò la bomba a mano.

Vi fu un lampo color arancione e una deflagrazione formidabile. Per un attimo, gli attori e gli spettatori di quel dramma rimasero paralizzati. Jan si sentì colpito al viso e al petto. Vide Heydrich e Klein uscire dall’automobile con le pistole in pugno e sparare contro di lui e contro Josef. Josef buttò via la Sten con un gesto rabbioso e con un balzo si nascose dietro il precario riparo di un palo telegrafico. Fra le mani gli spuntò una rivoltella Colt, che rispose al tiro della Luger di Heydrich.

Jan si precipitò sulla sua bicicletta. Alcune persone si stringevano intorno a lui, designandolo con il dito. A sua volta, egli impugnò una rivoltella e la gente si scansò. Scese a tutta velocità lungo la strada in pendio, mentre le palle di Klein lo sfioravano. Due gendarmi gli attraversarono la via, Jan sparò e i gendarmi si buttarono in terra. Una donna, che stava pulendo il marciapiede davanti alla sua casa, gli gettò il secchio contro la bicicletta. Jan passò, con il sangue che gli sgorgava sul viso. Un’altra donna gli si drizzò davanti, a braccia incrociate. Pazzo di rabbia, Jan fu sul punto di sparare, ma si contentò di precipitarsi contro di lei, facendola cadere, poi continuò la sua pazza corsa.

Nel frattempo, Josef sosteneva un duello senza misericordia contro Heydrich. Il Reichsprotektor era ferito, aveva il volto contratto dal dolore, ma sparava sempre bene, con rabbia. Aveva incastrato Josef dietro a un palo e Josef non aveva certo il tempo di rimanere a lungo in quella posizione. Per fortuna, la collera stessa di Heydrich gli venne in aiuto. Il Reichsprotektor dimenticò di contare le cartucce, ma Gabčík, invece, le contò. Quando fu certo che la pistola del suo avversario era scarica, si slanciò. Pazzo di rabbia, Heydrich buttò la pistola inservibile. Sopraggiunse Klein a dargli il cambio.

Nuovo duello: Josef riuscì a distanziare Klein e si rifugiò in una macelleria. Sopraggiunse Klein a interrogare il macellaio, il quale tradì Josef. Josef sparò e colpì alla coscia il tedesco, che cadde urlando. Josef balzò e sparò di nuovo in piena corsa, facendo ancora centro, questa volta alla caviglia. Klein gettò la sua pistola al macellaio e gli ordinò di continuare l’inseguimento; ma il macellaio non si diede nessuna premura. Josef svoltò l’angolo di una strada, raggiunse un tram e vi montò, senza che il controllore vedesse in lui qualcosa di diverso da un passeggero in ritardo. Era finita.

Quando arrivò da Liboslava, la radio dava la notizia dell’attentato. Prometteva dieci milioni di corone per la cattura dei terroristi, di cui dava una descrizione fantasiosa, e la morte a chiunque li avesse aiutati. Liboslava e i suoi genitori capirono immediatamente e, sorridendo a Josef, gli domandarono che cosa desiderasse per colazione.

Jan si era rifugiato presso la famiglia Novotna, che abitava non lontano dal luogo dell’attentato: coperto di sangue com’era, non avrebbe potuto continuare a fuggire. La ragazzina di casa si occupò di far sparire la bicicletta insanguinata. Aveva quattordici anni, ma diede prova di sangue freddo e di astuzia. Nel frattempo, sua madre medicava le ferite di Jan, bruciava i suoi abiti e gliene forniva degli altri.

Poi Kubiš ripartì.

Il prossimo rifugio era situato a tre chilometri di distanza, quindi ancora troppo vicino al luogo dell’attentato perché egli potesse rimanervi a lungo. Qui si limitò ad attendere la notte. L’uomo che l’ospitava era un ferroviere, il quale gli procurò una carta di lavoro e chiamò un medico della Resistenza. Quando venne la notte, Jan si recò da «Zia Maria». Era disperato, per la certezza di non esser riuscito ad uccidere Heydrich e di aver compromesso una quantità di gente. Josef aveva lasciato sul posto la sua bicicletta, che apparteneva a «Zia Maria». Quanto a lui, aveva perduto il berretto, imprestatogli dal figlio del professor Orgun. I giornali della sera avevano già pubblicato le fotografie di questi corpi del reato.

L’attentato, tuttavia, non era fallito. Dopo il duello alla pistola con Josef, Heydrich era crollato per non risollevarsi mai più. Aveva le reni e la milza perforati da mille piccoli frammenti metallici, provenienti tanto dalla bomba a mano di Jan, quanto dalle lamiere smembrate dell’automobile. Nonostante l’intervento dei più famosi chirurghi del Reich, Heydrich morì il 4 giugno, di setticemia.

La battaglia di Praga

L’ira dei tedeschi fu terribile e provò che i nazisti avevano accusato dolorosamente il colpo. Coprifuoco, perquisizioni, arresti, esecuzioni. Intere famiglie furono fucilate. Nonostante questo, non avevano un solo indizio che potesse metterli sulle tracce degli assassini di Heydrich. Al colmo della rabbia, organizzarono allora l’«operazione Lidice».

Lidice era un piccolo villaggio nelle vicinanze di Praga. Gli abitanti furono accusati di aver aiutato gli attentatori e di aver nascosto armi e una stazione radio. Nulla di tutto questo era vero, ma Lidice venne rasa al suolo e le sue pietre disperse ai quattro venti. Tutti gli uomini furono fucilati, e le donne deportate nel campo di Ravensbriick coi bambini1.

Kubiš e Gabčík erano disperati. Si consideravano responsabili di questi massacri e volevano arrendersi, o almeno uccidersi. Avevano immaginato un finale melodrammatico: volevano ammazzarsi nel pieno centro di Praga, con un cartello appeso al collo per indicare che gli assassini di Heydrich erano loro.

Avevano parlato del piano a Jindra, il quale aveva fatto non poca fatica a dissuaderli dal compiere un atto simile. Quell’atto, sosteneva, non avrebbe calmato la sete di vendetta dei tedeschi. Allora i due giovani si rivolsero al cappellano della chiesa dei santi Cirillo e Metodio. Questi dovette giocare d’astuzia, facendo leva sulla loro rozza psicologia: disse che quel suicidio sarebbe stato una viltà.

Insieme con Valcik, Opálka e altri tre paracadutisti, avevano trovato un rifugio nella cripta della chiesa dei santi Cirillo e Metodio. La cripta era un cupo sotterraneo mortuario dove, nelle cavità, erano sepolti i resti dei monaci e degli abati. Misurava 25 metri di lunghezza, 5 di larghezza e 5 di altezza ed era rischiarata da un piccolo spiraglio che dava sulla via Resslova. Aveva un solo accesso, una ripida scala situata dietro l’altare, chiusa da una pietra. «Zia Maria» pensava a rifornire di viveri i sette uomini. Di notte, quattro dormivano nella cripta, gli altri tre montavano la guardia nella chiesa.

Un altro uomo, il maresciallo Karel Curda, era ridotto alla disperazione. Viveva nascosto in campagna, in casa di sua madre, insieme con i fratelli e la fidanzata, che gli aveva dato un figlio. Sapeva che, se l’avessero scoperto, i tedeschi sarebbero stati capaci d’incendiare l’intero villaggio, senza risparmiare né la madre né la fidanzata né il bambino. Nella lista degli ostaggi uccisi, aveva letto i nomi dei due fratelli di Miks. Il tenente Pechal era stato catturato nel suo rifugio del bosco, dietro denunzia di Gerik. Torturato, non aveva detto una parola. Ma i suoi genitori e suo fratello erano stati fucilati.

Con il passar dei giorni, Curda cedette al terrore. Proprio su questo facevano conto i tedeschi, i quali promettevano ora il perdono e venti milioni di corone a colui o a coloro che avrebbero permesso l’arresto degli assassini. Curda si recò a Praga, nella sede della polizia, alla banca Petschek, e fornì tutte le informazioni di cui era in possesso, a cominciare dai nomi di Jan Kubiš e Josef Gabčík.

La polizia tedesca organizzò con cura la sua retata. All’alba del 17 giugno, arrestò tutti i partigiani conosciuti da Curda. «Zio Hajsky» inghiottì una pillola di cianuro e «Zia Maria» fece la stessa cosa, sotto gli occhi del marito e del figlio.

Il giovane Ata Moravec venne condotto nelle cantine della banca Petschek. Resistette fin che poté alle «cure» che gli furono prodigate. Dopo quindici ore, parlò. Alle cinque del mattino, il 18 giugno, un solido cordone di truppe circondava la chiesa di via Resslova e il quartiere.

I sette paracadutisti trascorrevano la loro ultima notte in via Resslova: dovevano cambiare di nascondiglio il giorno dopo. Aspettavano un aeroplano inglese, che li avrebbe riportati tutti a Londra. Nonostante gli orrori della repressione, un barlume di speranza si levava per loro. Jan e Anna, Josef e Liboslava ricominciavano a fare qualche programma per il futuro.

Le prime S.S. s’introdussero silenziosamente nella chiesa. Il tenente Opálka vegliava da basso, vicino all’altare, mentre Jan Kubiš e il paracadutista Svarc montavano la guardia nelle gallerie. I loro occhi erano abituati all’oscurità e le loro posizioni di difesa non avevano alcun difetto. Le tre Sten dei giovani sputarono fuoco nello stesso tempo, con un tiro incrociato molto preciso, e non lasciarono in piedi una sola S.S.

Dall’esterno, i tedeschi aprirono il fuoco contro tutte le aperture. Come unico risultato, quest’azione fece molto rumore e spaccò tutte le vetrate. Quasi per irridere i tedeschi, Jan e Svarc risposero, portando il combattimento fuori dalla chiesa e costringendo il segretario di Stato Karl Frank, successore di Heydrich, e Panwitz, capo della polizia, a mettersi al riparo.

Pazzo di rabbia, Panwitz lanciò una seconda ondata d’assalto nell’interno della chiesa. Gli uomini balzarono dentro sparando, si ripararono dietro i pilastri e lanciarono bombe a mano. Ma anche questa ondata morì come la prima. Allora Panwitz sferrò un attacco dopo l’altro e le granate cominciarono a volteggiare in tutta la chiesa. Molte S.S. rimasero uccise, ma gli scoppi delle bombe, diffondendosi in ogni direzione, raggiunsero gli angoli più inaccessibili.

Jan Kubiš fu ucciso dalla sua arma preferita. Svarc, con le due gambe frantumate, prossimo a svenire, concentrò le sue ultime forze nell’indice della mano destra e si sparò un colpo di rivoltella in mezzo alla fronte. Opálka, che sanguinava da dieci ferite, sparò ancora cinque colpi di rivoltella, inghiottì una pillola di cianuro e si piantò la sesta palla nel cervello. A quest’ultimo colpo di fuoco seguì un pesante silenzio. Nella cripta, Josef capì che il suo amico Jan era morto e che egli non avrebbe più rivisto la dolce Liboslava.

I tedeschi non impiegarono molto tempo a scoprire l’ingresso della cripta e tolsero la pietra. Un temerario si chinò in avanti e quattro raffiche misero fine alla sua audacia. Nel frattempo, Karel Curda e Ata Moravec venivano messi di fronte ai tre cadaveri allineati sul marciapiede. Essi identificarono Jan, l’assassino dì Heydrich.

Poi, Panwitz li fece condurre davanti all’entrata della cripta e ordinò loro di convincere Gabčík ed i suoi compagni ad arrendersi. Ata Moravec rifiutò, mentre Curda acconsentì. Una nuova raffica rispose alle sue proposte. I tedeschi scagliarono allora bombe a mano, ma evidentemente non causarono alcun danno ai quattro uomini, riparati dietro gli enormi pilastri. I tedeschi non insistettero e attaccarono dalla parte dell’altra apertura lo spiraglio di via Resslova.

Il tempo passava e i tedeschi erano furibondi. Tre volontari S.S. si calarono attraverso lo spiraglio, con una corda. Il loro coraggio non poté niente: furono abbattuti uno dopo l’altro. Ma presto la speranza rifiorì. Un pompiere era riuscito ad agganciare la scala e a toglierla: privati della scala, i quattro uomini non potevano più difendere lo spiraglio. Le pompe furono rimesse in azione e l’acqua della Vltava colò a grandi fiotti nella cripta, al ritmo di 2700 litri al minuto.
Nessuno fece il calcolo del tempo necessario per inondare completamente la cripta, ma Frank, il segretario di Stato, pensò che qualsiasi proroga sarebbe stata sempre troppo lunga. I suoi uomini avevano scoperto un’altra pietra, immensa, che ostruiva l’ingresso principale della cripta. Gli artificieri del Genio la fecero saltare, scoprendo così una scala di pietra.

Nell’acqua fino alle ginocchia, i quattro paracadutisti fronteggiarono questo nuovo pericolo. Sei S.S. irruppero nella cripta, a due a due perché il passaggio era angusto. Il loro sangue andò ad arrossare le acque scure della Vltava. Altri soldati li seguirono e coloro che, essendo solo feriti, si sarebbero potuti salvare, annegarono.

Il massacro finì per mancanza di munizioni. Hruby conservò l’ultima pallottola per sé. Poi fu la volta di Valcik e di Bublik. Infine, Josef Gabčík seguì i suoi amici e ritornò il silenzio.

Il segretario di Stato fece allineare i cadaveri sul marciapiede, poi invitò gli abitanti di Praga a contemplare gli effetti della giustizia nazista.

NOTE

1) Oltre alla distruzione di Lidice e l’esecuzione dei suoi 446 abitanti, secondo una relazione della Gestapo, 1331 cechi fra i quali 201 donne furono immediatamente assassinati, la chiesa dei santi Cirillo e Metodio, nella quale si erano rifugiati i due attentatori con altri elementi della Resistenza ceca, fu assediata dalle S.S. che sterminarono tutti. Secondo Walter Schellenberg, che si trovava sul posto, la Gestapo non seppe mai che nella chiesa si trovavano i due attentatori. Altre atrocità furono commesse: 3000 ebrei prelevati dal ghetto di Theresienstadt furono giustiziati e così anche 132 arrestati su 500 di Berlino.

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SCHEDE DI APPROFONDIMENTO

 

Reinhard Heydrich, il “protettore” assassinato

Fisicamente Heydrich (nato nel 1904) era un bell’uomo, biondo e alto (1 metro e 82). Come si diceva allora: «un perfetto ariano». Dal punto di vista morale, era una specie di mostro come la natura ne fabbrica raramente.

Nella vita privata, esisteva un Heydrich apparentemente diverso: buon padre di famiglia, trascorreva le serate suonando il violino per la gioia dei suoi bambini. L’altro Heydrich amava i postriboli e le orge ed aveva impulsi sessuali torbidi e sadici.

Nella consuetudine professionale, Heydrich era un ottimo amministratore e un soldato brillante, un pilota da caccia capace.

Himmler aveva fatto di lui il suo braccio destro e contava su di lui per portare a termine lo sterminio degli ebrei. Per questo problema, Heydrich aveva trovato una formula che provocava la morte «spontanea». I treni che viaggiavano giorno e notte, con migliaia di ebrei ammassati dentro, in piedi, senz’aria, senza nutrimento e senz’acqua, erano i suoi treni.

Heydrich aveva cominciato la carriera nella Marina, dalla quale era stato espulso. In seguito, si era iscritto al partito nazista e aveva terrorizzato con le sue imprese da bandito la regione di Amburgo. Le sue avventure di capobanda divennero eroismo militare, quando Himmler si assicurò i suoi servizi.

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Jan Kubiš si mette in contatto con la Resistenza ceca

Jan Kubiš si recò da solo all’appuntamento con i rappresentanti della Resistenza di Praga, perché Gabčík era immobilizzato dal suo piede ferito.

Il colloquio ebbe luogo in un sobborgo della città. La guida lasciò Jan davanti a un grande palazzo di sette piani. Nell’atrio, si limitò ad indicargli il numero dell’appartamento. Jan prese l’ascensore, non senza notare, ad ogni piano, alcuni giovani dall’aspetto serio, immersi nella lettura dei giornali. A quanto pareva, la Resistenza prendeva le sue precauzioni e se penetrare nel caseggiato era facile, uscirne doveva essere più difficile.

Al sesto piano, Kubiš bussò all’uscio numero 67. Fu accolto da tre uomini dal volto impenetrabile. Il primo si presentò: Jindra. Era piccolo e robusto, vestito in maniera trasandata. Accanto a lui c’era lo «Zio Hajsky», il cui vero nome era Jan Zelenek, che invece era alto e magrissimo. Gli spessi occhiali di tartaruga che portava non riuscivano a nascondere la dolcezza del suo sguardo. Il terzo uomo, una semplice guardia del corpo, non aveva nulla che attirasse l’attenzione. Jan dimenticò il suo nome e non lo rivide mai più.

Jindra servì il tè e offrì qualche dolce. Ma dietro quella cortesia, apparvero subito le minacce. Jindra disse a Kubiš che erano tutti armati e che, se l’interrogatorio che doveva subire non li avesse soddisfatti, non sarebbe uscito vivo da quella stanza. Due agenti tedeschi avevano già tentato d’infiltrarsi nelle file della Resistenza.

L’interrogatorio incominciò. Per dimostrare la sua buona fede, Jan posò subito la rivoltella sulla tavola, poi rispose senza imbarazzo alfe domande di Jindra. Gli diede il nome di molti compagni della Scuola speciale di Cholmondeley. Jindra gli fece identificare altri uomini su fotografie. Per finire, Jan fornì una descrizione particolareggiata della regione di cui era originario e offrì di andarvi, per farsi identificare da persone che conosceva, sul posto. Questo convinse del tutto Jindra.

L’interrogatorio si ripeté con tutti i paracadutisti che arrivarono in seguito. Kubiš e Gabčík erano chiamati a riconoscerli.

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Il traditore Gerik

Pechal, Miks e Gerik, dopo essersi imbattuti in una pattuglia quand’erano appena atterrati, si separarono per raggiungere da soli gli indirizzi dei partigiani che Londra aveva fornito loro. Pechal non ebbe fortuna: fu intercettato da due guardie di frontiera tedesche. Cercò di trattare e di corromperli, ma gli uomini non vollero sentir niente.

Prima di entrare in paese, Pechal giocò il tutto per tutto. Le guardie avevano trascurato di perquisirlo ed egli era ancora armato. All’improvviso urtò i due uomini, ne uccise uno e ferì mortalmente l’altro, dopo uno scambio di colpi. Disgraziatamente per lui, dovette fuggire senza aver potuto ricuperare le carte né la cartella porta documenti, piena di biglietti di banca. Fu quindi identificato molto presto e non trovò altro rifugio che il bosco.

Gli indirizzi di cui erano in possesso avevano condotto Miks e Gerik in un villaggio dove i tedeschi avevano operato alcuni arresti. Gli abitanti erano terrorizzati e, pur procurando viveri ai due paracadutisti, rifiutarono di ospitarli. Miks si recò presso la sua famiglia e tutto andò bene per lui. Gerik, invece, prese il treno per Praga.

Lì, rimase per due giorni in un alberghetto equivoco. A Praga, aveva un solo punto di riferimento. Gli indirizzi forniti da Londra erano quelli di simpatizzanti, più che di partigiani, e risalivano a prima della guerra. L’uomo con il quale Gerik prese contatto rimase anche lui terrorizzato all’idea di nascondere un terrorista e rifiutò di aiutarlo. Disperato, avvilito, sperso, senza soldi, il giovane non aveva altra alternativa che il suicidio o la resa.

Scelse quest’ultima soluzione. In cambio di qualche informazione, si salvò la vita.

Dopo la liberazione, Gerik fu giudicato e impiccato nel 1946.

Fonte: Storia dello Spionaggio dalle guerre mondiali ai segreti atomici, Vol. III, fascicolo n. 36, De Agostini 1972, pp. 241-253

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