Dietro la fast fashion mania c’è una bomba ecologica

ZERO SOSTENIBILITÀ. Zara & C. Utili a gonfie vele. Si producono oltre 100 miliardi di nuovi abiti ogni anno, che generano 42 milioni di tonnellate di rifiuti

FATTIDIMODA

Gli acquisti da click. TikTok & C. spingono lo shopping compulsivo. Solo 11% degli scarti tessili viene riciclato per fare nuove fibre

di Ilaria Mauri

La sostenibilità nella moda è destinata al fallimento? La domanda sorge dopo aver letto i dati sul fatturato record del gruppo Inditex nel 2023. La multinazionale spagnola – che ha nel suo portfolio Zara, Pull&Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivario e Oysho – ha chiuso l’ultimo anno fiscale con 35,9 miliardi di fatturato e un incremento del 30% dell’utile netto, grazie alle vendite cresciute del +10,4% rispetto al 2022. Insomma, tutti a condannare il fast fashion e a fare appelli sui social per salvare il pianeta, ma alla fine quando si tratta di fare shopping poi sempre lì si finisce. Siamo vittime di una bulimia d’acquisto collettiva, basta aprire Instagram o TikTok per finire in un loop di video di gente che apre scatole di cose comprate da Zara, se le prova, te le fa vedere, e ti stilla il desiderio. Quante volte, come ipnotizzati, abbiamo fatto subito click su ‘acquista’ senza neanche pensarci? È così che si è arrivati a produrre oltre 100 miliardi di nuovi abiti ogni anno: il 400% in più rispetto a vent’anni fa. E i nuovi vestiti sono fatti per il 60% di fibre plastiche.

La produzione tessile causa 42 milioni di tonnellate di rifiuti a base di plastica all’anno, cifra che rappresenta il 9% di tutti i rifiuti plastici globali. Al momento, solo 11% degli scarti tessili viene riciclato per fare nuove fibre: sicuramente il processo che intercorre tra testare i nuovi materiali e incorporarli a tutti gli effetti nella catena produttiva non è immediato, ma il fatto che le vendite di diverse aziende specializzate nel settore siano di poco sopra allo zero è tanto esplicativo quanto allarmante. Si stima infatti che la produzione tessile sia responsabile di circa il 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile a causa dei vari processi a cui i prodotti vanno incontro, come la tintura e la finitura, e che il lavaggio di capi sintetici rilasci ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari. Eppure, in media, ogni abito viene indossato solo 7 volte prima di essere buttato e la maggior parte delle donne indossa solo il 20-30% del proprio guardaroba.

Cambiare le regole del gioco è sempre difficile, ma nella moda sembra esserlo più che in altri settori: “Colpa delle pressioni delle aziende. Fanno del greenwashing una strategia di marketing, ma in realtà non vogliono cambiare per non intaccare i guadagni”, ci spiega Marina Spadafora, ambasciatrice di moda etica nel mondo e coordinatrice nazionale del movimento Fashion Revolution. “Abbiamo dei governi che fanno grandi proclami sulla sostenibilità e sulla lotta al fast fashion ma poi capitolano sotto la pressione delle lobby. Ci sono decine di leggi impantanate nei Parlamenti, anche l’Unione europea aveva annunciato un pacchetto di misure, ma a oggi non c’è nulla di fatto. Le elezioni europee di giugno saranno fondamentali: se passa la destra fondamentalista, la strada verso una regolamentazione sarà ancora più in salita. Al momento, l’unico Paese che si sta dimostrando attento e attivo in tal senso è la Francia, che proprio pochi giorni fa ha approvato una proposta di legge che impone il divieto di pubblicità di capi d’abbigliamento con prezzi particolarmente bassi e una ‘tassa ambientale’ per chi li produce”.

I dati sull’aumento di fatturato di Inditex ci dimostrano però che c’è un altro problema, quello dello scollamento tra gli inviti alla transizione green e le effettive pratiche d’acquisto dei cittadini: “Bisogna educare le persone sulle questioni ambientali, serve un lavoro di informazione soprattutto verso i più giovani, che sono le prime vittime delle mode del consumismo. A loro dico: ‘Svegliatevi perché stiamo parlando del vostro futuro!’ ” sottolinea Spadafora. “E non è vero – conclude – che si compra il fast fashion perché non ci si può permettere altro: anziché comprarsi cinque capi da 5 euro, perché non comprarne uno solo a 25, ma prodotto con fibre organiche e con una filiera certificata Fairtrade?”

Il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2024

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