Eric J. Hobsbawm

Come si inventa una tradizione

Le «tradizioni» che ci appaiono, o si pretendono, antiche hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta.

di Eric J. Hobsbawm

Nulla appare più antico, più legato ad un passato senza memoria, del cerimoniale che ammanta la monarchia britannica nelle sue manifestazioni pubbliche. Eppure, come dimostra uno dei capitoli di questo libro, la forma moderna di quel cerimoniale è un prodotto del tardo Ottocento e del Novecento. Le «tradizioni» che ci appaiono, o si pretendono, antiche hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta. Chiunque conosca i college delle vecchie università inglesi non avrà difficoltà a ricordare l’istituzione di «tradizioni» di questa fatta a livello locale, per quanto alcune di esse – l’annuale festa delle «Nove Lezioni e Carole» al King’s College di Cambridge per la vigilia di Natale, ad esempio – abbiano assunto un carattere più generale grazie a un moderno mezzo di comunicazione di massa, la radio. Questa osservazione ha costituito il punto di partenza di un convegno organizzato dalla rivista di storia «Past and Present», il quale a sua volta è alla base del presente volume.

Il termine «tradizione inventata» viene usato in un senso generico, e tuttavia non impreciso. In esso rientrano tanto le «tradizioni» effettivamente inventate quanto quelle emerse in modo meno facilmente ricostruibile nell’arco di un periodo breve e ben identificabile – un paio d’anni, magari – e che si sono imposte con grande rapidità. Per quanto riguarda la Gran Bretagna, la trasmissione radiofonica del discorso di Natale del re (istituita nel 1932) è un esempio del primo caso, mentre la nascita e la diffusione delle pratiche legate alla finale di coppa della Lega di calcio sono un esempio del secondo. È evidente che non tutte queste «tradizioni» assumono un identico carattere di permanenza, ma ciò che ci interessa qui non è tanto la loro longevità, quanto la loro comparsa e la loro capacità di prendere piede.

Per «tradizione inventata» si intende un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente 0 tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale o simbolica, che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità col passato. Di fatto, laddove è possibile, tentano in genere di affermare la propria continuità con un passato storico opportunamente selezionato. Un esempio particolarmente efficace è la scelta di uno stile gotico per la ricostruzione ottocentesca del parlamento britannico, e la decisione altrettanto deliberata, dopo la Seconda Guerra mondiale, di ricostruire la sede delle Camere attenendosi rigorosamente alla pianta precedente. Non occorre che il passato storico in cui si radica la nuova tradizione sia troppo lontano, non occorre che si perda nella presunta notte dei tempi. Anche le rivoluzioni e i «movimenti progressisti», per definizione momenti di rottura con il passato, hanno un proprio passato da difendere, sebbene questo si interrompa bruscamente a una certa data – il 1789, ad esempio. Comunque sia, laddove si dà un riferimento ad un determinato passato storico, è caratteristico delle tradizioni «inventate» il fatto che l’aspetto della continuità sia in larga misura fittizio. In poche parole, si tratta di risposte a situazioni affatto nuove che assumono la forma di riferimenti a situazioni antiche, o che si costruiscono un passato proprio attraverso la ripetitività quasi obbligatoria. E appunto il contrasto tra il cambiamento e l’innovazione costanti del mondo moderno e il tentativo di attribuire a qualche aspetto almeno della sua vita sociale una struttura immobile e immutabile ciò che rende tanto interessante, agli occhi dello storico degli ultimi due secoli, il problema dell’«invenzione della tradizione».

La «tradizione» intesa in questo senso va nettamente distinta dalla «consuetudine» che regge le cosiddette società «tradizionali». Scopo e caratteristica delle «tradizioni», comprese quelle inventate, è l’immutabilità. Il passato al quale fanno riferimento, reale 0 inventato che sia, impone pratiche fisse (di norma formalizzate), quali appunto la ripetizione. La «consuetudine» nelle società tradizionali svolge la duplice funzione di motore e di volano. Non esclude a priori l’innovazione e il cambiamento, anche se è evidente che l’esigenza di farli apparire compatibili, 0 persino identici, rispetto al precedente costituisce un pesante limite. La sua funzione consiste nel garantire ad un qualsiasi cambiamento desiderato (ovvero alla resistenza opposta all’innovazione) la sanzione del precedente, della continuità sociale e della legge di natura così come esse si esprimono nella storia. Gli studiosi dei movimenti contadini sanno che quando un villaggio appoggia sulla «consuetudine invalsa nella notte dei tempi» la rivendicazione di un terreno o un diritto comune, spesso non esprime un fatto storico, bensì il rapporto di forza nella lotta costante del villaggio stesso contro il signore, o contro altri villaggi. Gli studiosi del movimento operaio inglese sanno che la «consuetudine del mestiere» o della bottega può non rappresentare una tradizione antica, bensì ciò che gli operai hanno conquistato nella pratica, per quanto recente, e che ora tentano di difendere 0 estendere attribuendogli la sanzione della perpetuità. La «consuetudine» non può permettersi l’immutabilità, perché nemmeno nelle società «tradizionali» la vita è davvero cosi. Il diritto consuetudinario o la common law manifestano ancor oggi questa combinazione di flessibilità sostanziale e di aderenza formale al precedente. In questo contesto troviamo un esempio veramente efficace della differenza tra «tradizione» e «consuetudine» così come vogliamo intenderla. La «consuetudine» è la pratica dei giudici; la «tradizione» (tradizione inventata, in questo caso), è data dalla parrucca, dalla toga e da tutti gli ammennicoli formali e le pratiche ritualizzate che circondano la loro azione sostanziale. Il declino della «consuetudine» non può non modificare la «tradizione» con la quale è quasi sempre intrecciata.

Una seconda distinzione, meno importante, è quella tra la «tradizione» così come vogliamo intenderla e la convenzione o routine, che in quanto tale non è dotata di funzioni rituali o simboliche degne di nota, pur potendo acquisirle in modo accidentale. È evidente che ogni pratica sociale destinata a svolgersi ripetutamente tenderà, per questioni di convenienza ed efficienza, a creare un insieme di convenzioni e routine, che potranno essere formalizzate de facto o de jure al fine di insegnare la pratica stessa agli apprendisti. Questo vale tanto per le pratiche senza precedenti (il lavoro di chi pilota un aeroplano) quanto per quelle a noi più familiari. Dopo la rivoluzione industriale le società si sono ovviamente viste costrette a inventare, istituire o elaborare nuovi reticoli di convenzioni e routine di questo genere assai più spesso di quanto non accadesse alle società precedenti. Nella misura in cui funzionano al meglio quando diventano abitudine, procedimento automatico, o persino riflesso condizionato, esse impongono l’immutabilità, il che potrà creare ostacoli all’altra condizione indispensabile della pratica, la capacità di affrontare contingenze non previste o non abituali. È un difetto ben noto, questo, della routinizzazione o burocratizzazione, specie ai livelli subalterni, in cui l’immutabilità delle procedure viene di regola considerata come il miglior criterio di efficienza.

Questi reticoli di convenzioni e routine non sono «tradizioni inventate», poiché la loro funzione – e dunque la loro giustificazione – è di natura tecnica piuttosto che ideologica (in termini marxiani, appartengono alla «base» piuttosto che alla «sovrastruttura»). Sono destinate a facilitare alcune operazioni pratiche ben definite, e vengono prontamente modificate o abolite di fronte al mutare delle esigenze pratiche, tenendo sempre conto della forza d’inerzia che ogni pratica acquista con l’andare del tempo, e delle resistenze psicologiche opposte all’innovazione da chi a quella pratica si è assuefatto. Lo stesso vale per le «regole» riconosciute dei giochi o di altri modelli di interazione sociale, laddove esistono, o per qualsiasi altra norma di carattere pragmatico. Quando queste coesistono con la «tradizione», la differenza balza subito all’occhio. Il cappello rigido ha un senso pratico per chi va a cavallo, come il casco per il motociclista e l’elmetto d’acciaio per il soldato; ma un cappello rigido di tipo particolare portato con la giubba rossa da caccia alla volpe ha un tipo di senso del tutto diverso. Se così non fosse, sarebbe altrettanto facile modificare la tenuta «tradizionale» per la caccia alla volpe quanto lo è sostituire l’elmetto di un esercito – istituzione di per sé alquanto conservatrice – con uno di foggia diversa quando si dimostra che questa può offrire maggiore protezione. Anzi, si può persino ipotizzare che tra le «tradizioni» e le convenzioni o routine pragmatiche esista una correlazione inversa. La «tradizione» dà segno di debolezza quando, come accade tra gli ebrei più liberali, le interdizioni alimentari vengono giustificate sul piano pragmatico, sostenendo ad esempio che gli antichi proibirono la carne di maiale per motivi igienici. Viceversa, gli oggetti e le pratiche rimangono a piena disposizione dell’impiego simbolico o rituale quando non sono più vincolati all’uso pratico. Gli speroni dell’uniforme di gala degli ufficiali di cavalleria sono più importanti sul piano della «tradizione» da quando non si usano più i cavalli, gli ombrelli degli ufficiali della Guardia in borghese perdono ogni significato se non sono strettamente avvolti nella guaina (cioè, se non sono inutili), le parrucche degli avvocati non potevano certo acquisire il loro senso moderno fino a quando tutti gli altri non ebbero smesso di portare la parrucca.

Vogliamo sostenere, insomma, che l’invenzione di una tradizione è essenzialmente un processo di ritualizzazione e formalizzazione caratterizzato dal riferimento al passato, se non altro perché impone la ripetitività. Al processo vero e proprio della creazione di questi complessi rituali e simbolici gli storici non hanno dedicato sufficiente attenzione, e in buona parte esso ci è ancora oscuro. Possiamo presumere che gli esempi più lampanti si diano quando una «tradizione» viene volutamente inventata e costruita da un unico promotore, come i Boy-Scouts di Baden-Powell. Forse risulta quasi altrettanto facile individuarlo nel caso dei cerimoniali istituiti e programmati sul piano dell’ufficialità, quelli presumibilmente meglio documentati, come la costruzione del simbolismo nazista e i grandi raduni del partito a Norimberga. Ed è forse più difficile individuarlo laddove le tradizioni sono in parte inventate, in parte si sono sviluppate all’interno di gruppi privati (e allora è meno probabile che esista una documentazione di tipo burocratico), o sono sviluppi informali su un lungo arco di tempo, in parlamento, ad esempio, o nell’ambito della professione legale. La difficoltà non deriva soltanto dalle fonti, ma anche dalle tecniche, pur avendo a disposizione, per lo studio di questi temi, tanto le discipline esoteriche specializzate nel simbolismo e nei rituali, come l’araldica e lo studio della liturgia, quanto le discipline storiche di stampo warburghiano. Purtroppo è raro che gli storici dell’era industriale abbiano dimestichezza con entrambe.

Non esiste probabilmente un’epoca o un luogo di cui gli storici si siano occupati che non abbia assistito all’«invenzione» di una tradizione intesa in questo senso. Potremmo tuttavia aspettarci che la cosa si verifichi più frequentemente quando una rapida trasformazione della società indebolisce o distrugge i modelli sociali ai quali si erano informate le «vecchie» tradizioni, producendone di nuovi ai quali queste non sono più applicabili; oppure quando le vecchie tradizioni, le loro carriere istituzionali e i loro promotori non si dimostrano più abbastanza adattabili e flessibili, o vengono comunque eliminati: in poche parole, quando i cambiamenti sul piano della domanda o dell’offerta sono abbastanza vasti e rapidi. I cambiamenti sono stati particolarmente rilevanti negli ultimi duecento anni, e dunque è ragionevole supporre che proprio nel corso di questo periodo si sia accumulato il numero maggiore di formalizzazioni istantanee di nuove tradizioni. Ne consegue tra l’altro, a dispetto così del liberalismo ottocentesco come della più recente teoria della «modernizzazione», che questo tipo di formalizzazione non è limitato alle cosiddette «società tradizionali», ma ha un suo posto preciso, in un modo o nell’altro, anche in quelle «moderne». A grandi linee le cose stanno davvero così, ma occorre guardarsi dalla conclusione che immediatamente ne potrebbe conseguire: cioè in primo luogo che le forme più antiche di struttura della comunità e dell’autorità, e dunque le tradizioni ad esse legate, fossero incapaci di adattarsi e divenissero rapidamente impraticabili, e secondariamente che le «nuove» tradizioni fossero la semplice risultanza di un’incapacità di usare o adattare quelle vecchie.

Vi furono adattamenti dei vecchi usi alle nuove condizioni, e i vecchi modelli furono piegati a nuovi scopi. Anche antiche istituzioni, dotate di funzioni, riferimenti ai passato e idiomi e pratiche rituali ben radicati, si videro costrette ad adattarsi: la Chiesa cattolica di fronte alle nuove sfide politiche e ideologiche, e ai grandi cambiamenti nella composizione dei fedeli (ad esempio, il netto incremento della presenza femminile nei suoi ranghi laici come in quelli ecclesiastici)1; gli eserciti professionali di fronte alla coscrizione; antiche istituzioni come i tribunali, che oggi operano in un contesto diverso, e a volte svolgono anche funzioni diverse in contesti nuovi. E accadde anche che istituzioni dotate di una nominale continuità si trasformassero di fatto in qualcosa di affatto diverso, come nel caso delle università. Bahnson2 ha analizzato, ad esempio, l’improvviso declino, dopo il 1848, del tradizionale fenomeno dell’esodo in massa degli studenti dalle università tedesche (per motivi dimostrativi e conflittuali) tenendo conto del diverso carattere accademico delle università, dell’aumento dell’età media della popolazione studentesca e del suo imborghesimento – che allentò le tensioni tra questa e la popolazione urbana riducendo le intemperanze degli studenti – della nuova istituzione della libertà di movimento tra le università, della conseguente trasformazione delle associazioni studentesche e di altri fattori3. In tutti questi casi la novità non risulta certo meno nuova per il fatto di sapersi camuffare senza fatica sotto il manto dell’antichità.

Più interessante, nella nostra prospettiva, è il ricorso a materiali antichi per costruire tradizioni inventate di tipo nuovo, destinate a fini altrettanto nuovi. Nel passato di ogni società si accumula una vasta riserva di questi materiali, ed è sempre facile ripescare il complesso linguaggio di una pratica e di una comunicazione simboliche. Talvolta era possibile innestare le nuove tradizioni su quelle vecchie, talaltra potevano essere inventate attingendo ai forniti magazzini del rituale, del simbolismo, dell’esortazione morale ufficiali – la religione e i fasti dei principi, il folclore e la massoneria (a sua volta tradizione inventata, e ricca di forza simbolica). Lo sviluppo del nazionalismo svizzero, concomitante con la formazione dello stato federale moderno nell’Ottocento, ad esempio – magistralmente studiato da Rudolf Braun4, avvantaggiato dal suo tirocinio in una disciplina (la Volkskunde) che si presta a questo genere di ricerche – in un paese la cui modernizzazione non ha conosciuto gli inconvenienti dell’associazione con gli abusi nazisti. Le tradizionali pratiche consuetudinarie esistenti – i canti popolari, le prove di forza fisica, il tirassegno – vennero modificate, ritualizzate e istituzionalizzate per favorire le nuove aspirazioni nazionali. Alle canzoni popolari tradizionali si aggiunsero nuove canzoni nel medesimo idioma, spesso composte da maestri di scuola, e insieme furono trasferite in un repertorio corale dai contenuti patriottico-progressivi (Nation, Nation, wie voll klingt der Ton), pur assorbendo elementi di potenza rituale dall’innologia religiosa. (La formazione di questi nuovi repertori di canzoni, destinati soprattutto alle scuole, è un tema degno di studi approfonditi). Lo statuto del Festival Federale della Canzone – e subito ci vengono alla mente gli eisteddfodau gallesi – dichiara come obiettivo «lo sviluppo e il miglioramento dei canti del popolo, il risveglio di sentimenti più elevati verso Dio, la Libertà e il Paese, l’unione e la fratellanza degli amici dell’Arte e della Patria». (La parola «miglioramento» introduce una nota caratteristica del progressismo ottocentesco).

Intorno a queste occasioni si costituiva un massiccio apparato rituale: padiglioni, strutture per l’esposizione di bandiere, templi per le offerte, processioni, campane a stormo, quadri viventi, salve di cannone, delegazioni governative in onore del festival, cene, brindisi e retorica. Anche per questo si riadattavano materiali più antichi:

Nella nuova architettura di festa sono inequivocabili gli echi delle forme di celebrazione, ostentazione e pompa del Barocco. E così come nella celebrazione barocca lo stato e la chiesa si fondono su un piano superiore, anche da queste nuove forme di attività corale, competitiva e ginnica emerge una fusione di elementi religiosi e patriottici5.

In quale misura le nuove tradizioni possono fare quest’uso dei materiali più vecchi, in quale misura possono vedersi costrette a inventare nuovi linguaggi o strumenti, ovvero ad estendere il vecchio vocabolario simbolico oltre i suoi limiti prefissati, non sono argomenti sui quali possiamo soffermarci. È evidente che tante istituzioni politiche, tanti movimenti o gruppi ideologici – non ultimi quelli nell’ambito del nazionalismo – erano davvero senza precedenti, tanto che persino la continuità storica doveva essere inventata, creando ad esempio un passato talmente antico da valicarne i limiti effettivi: personaggi a metà strada tra la realtà e la fantasia come Boadicca, Vercingetorige o Arminio il Cherusco, o veri e propri falsi come Ossian e i manoscritti medievali cechi. Ed è altrettanto evidente che nel quadro dei movimenti e degli stati nazionali nacquero simboli e strumenti del tutto nuovi, come l’inno nazionale (quello britannico, del 1742, parrebbe essere stato il primo), la bandiera nazionale (ancor oggi nella maggioranza dei casi una variazione sul tricolore della Rivoluzione francese, elaborato nel 1790-94), 0 la personificazione della «nazione» in un simbolo 0 un’immagine, ufficiale come Marianna o Germania, o non ufficiale come gli stereotipi satirici di John Bull, del dinoccolato yankee Zio Sam e del tedesco Michel.

Ma non dobbiamo dimenticare la rottura nella continuità che risulta a volte evidente persino nei topoi tradizionali dell’antichità autentica. Se dobbiamo credere a Lloyd6, in Inghilterra le carole natalizie popolari non furono più create a partire dal secolo XVII, e furono sostituite da carole libresche di stampo Watts-Wellseiano, pur essendo rilevabile una modificazione demotica di queste ultime nelle sette religiose a larga base rurale come il Metodismo Primitivo. Eppure proprio le carole furono il primo tipo di canzone popolare recuperato dai cultori borghesi per riportarle al loro posto «nel nuovo ambiente della chiesa, del lavoro e dei circoli femminili», dal quale si sarebbero poi diffuse nel nuovo ambiente popolare urbano grazie ai «cantori ambulanti o ai rochi ragazzini che cantano davanti alle porte nell’antica speranza di una ricompensa». In questo senso God rest ye merry, Gentlemen non è antica, ma nuova. Questa rottura risulta evidente anche nei movimenti volutamente e esplicitamente «tradizionalisti», che si rivolgevano a gruppi unanimemente considerati come depositari della continuità e della tradizione storica – i contadini, ad esempio7. E anzi, proprio la comparsa di movimenti che si propongono la tutela o la rinascita delle tradizioni, «tradizionalisti» o meno che siano, costituisce un indice della rottura. Movimenti di questa fatta, comuni tra gli intellettuali a partire dal Romanticismo, non saranno mai in grado di ricreare, e nemmeno di tutelare un passato vivente (se non forse costruendo isolati angoli di vita arcaica in lontani santuari naturali), e divengono inevitabilmente «tradizione inventata». D’altra parte però, l’energia e l’adattabilità della tradizione autentica non vanno confuse con l’«invenzione della tradizione». Laddove i vecchi modi sono ancora vitali, non occorre né recuperare, né inventare le tradizioni.

Si potrebbe pensare, tuttavia, che quando vengono inventate, ciò accada non perché i vecchi modi di vita non esistono più, o non sono più praticabili, ma perché essi non vengono usati o adattati per scelta deliberata. L’ideologia liberale ottocentesca del cambiamento sociale, ad esempio, contrapponendosi consapevolmente alla tradizione in favore dell’innovazione radicale mancò sistematicamente di provvedere ai vincoli sociali e d’autorità dati per scontati nelle società precedenti, e creò dei vuoti che si prestavano a farsi colmare da pratiche inventate. Il modo in cui gli imprenditori conservatori ottocenteschi del Lancashire (diversamente da quelli liberali) riuscirono a sfruttare a proprio vantaggio quei vincoli dimostra che esisteva ancora la possibilità di usarli – persino nell’ambiente senza precedenti della città industriale8. Non si può negare che a lungo termine i modi di vita preindustriali non fossero in grado di adattarsi ad una società rivoluzionata oltre un certo limite, ma ciò non va confuso con i problemi derivanti a breve termine dall’abbandono dei vecchi modi di fare da parte di chi li considerava come ostacoli al progresso, o peggio ancora come avversari da affrontare in campo aperto.

Non per questo gli innovatori non generarono anch’essi le proprie tradizioni inventate – basta pensare alle pratiche della massoneria. Cionondimeno, una generale ostilità nei confronti dell’irrazionalismo, della superstizione e delle pratiche consuetudinarie, reminiscenze di un passato oscuro quando non ne erano le dirette discendenti, impediva a chi credeva con passione alle verità dell’Illuminismo – i liberali, i socialisti, i comunisti – di porgere orecchio ricettivo alle tradizioni, vecchie o nuove che fossero. I socialisti, come vedremo, si trovarono tra le mani un Calendimaggio annuale senza ben sapere come fosse successo; i nazional-socialisti sfruttarono quell’occasione con sofisticato zelo liturgico, manipolando volutamente i suoi simboli9. La Gran Bretagna dell’era liberale si limitava a tollerare, nella migliore delle ipotesi, questo tipo di pratiche, nella misura in cui esse non mettevano in discussione né l’ideologia, né l’efficienza economica, considerandola a volte come una riluttante concessione all’irrazionalità dei ceti inferiori. Il suo atteggiamento nei confronti delle attività sociali e rituali della Società degli Amici era un insieme di ostilità (le «spese non necessarie» quali «i versamenti di denaro per gli anniversari, le processioni, le bande, le donazioni» erano proibite per legge) e di tolleranza per occasioni quali le feste annuali, in quanto «l’importanza di questa ricreazione, in ispecie per quanto concerne la popolazione della campagna, non può essere negata»10. Prevaleva comunque il più rigoroso individualismo razionalista, non soltanto sul piano del calcolo economico, ma anche su quello dell’ideale sociale. Il capitolo VII indagherà su quanto accadde a quell’epoca quando la percezione dei suoi limiti divenne sempre più netta.

Possiamo concludere questa nota introduttiva con alcune osservazioni di carattere generale sulle tradizioni inventate nel periodo successivo alla Rivoluzione industriale.

Esse parrebbero rientrare in tre tipologie parzialmente sovrapponibili: a) quelle che fissavano o simboleggiavano la coesione sociale o l’appartenenza a gruppi o comunità, reali o artificiali che fossero; b) quelle che fondavano o legittimizzavano un’istituzione, uno status, un rapporto d’autorità; c) quelle finalizzate soprattutto alla socializzazione, ad inculcare credenze, sistemi di valore e convenzioni di comportamento. Senza dubbio furono elaborate tradizioni dei tipi b) e c) (quelle che simboleggiavano la sottomissione all’autorità nell’India britannica ad esempio), ma possiamo ipotizzare che il tipo a) fosse quello prevalente, in quanto le altre funzioni venivano considerate implicite, per definizione o per conseguenza, nel senso dell’identificazione con una «comunità» e/o le istituzioni che la rappresentavano, la esprimevano o la simboleggiavano: la «nazione», ad esempio.

Un primo problema era dato dal fatto che quelle grandi entità sociali non erano evidentemente Gemeinschaften [comunità], e nemmeno sistemi gerarchici assodati. La mobilità sociale, i fatti oggettivi del conflitto di classe e l’ideologia prevalente rendevano difficile un’applicazione universale delle tradizioni in cui l’idea della comunità si fondeva con una marcata diseguaglianza nelle gerarchie formali (negli eserciti, ad esempio). La cosa non riguardava tanto le tradizioni del tipo c), poiché la socializzazione generale inculcava i medesimi valori in ciascun cittadino, membro della nazione e suddito della corona, e in genere le vie delle socializzazioni specificamente funzionali dei diversi gruppi sociali (quella che distingueva gli allievi delle public schools dagli altri, ad esempio) non si incrociavano mai. D’altro canto però, nella misura in cui le tradizioni inventate reintroducevano – per così dire – lo status in un mondo fondato sul contratto, il superiore e l’inferiore in un mondo di eguali di fronte alla legge, non potevano farlo in modo diretto. Esisteva la possibilità di introdurle di soppiatto, attraverso il consenso formale ad un’organizzazione sociale ineguale di fatto – la nuova messa in scena delle cerimonie per l’incoronazione in Gran Bretagna, ad esempio11 (cfr. infra, pp. 271-72). Più spesso, potevano servire ad alimentare il comune senso di superiorità delle élites – in particolare quelle composte da persone che già non ne fossero dotate per nascita 0 attribuzione – piuttosto che ad inculcare il senso dell’obbedienza negli inferiori. Alcuni venivano incoraggiati a sentirsi più uguali degli altri. Il che poteva avvenire attraverso un’assimilazione delle élites ai gruppi dominanti 0 alle autorità preborghesi, nella forma militaristico-burocratica tipica della Germania (i duelli tra studenti), oppure secondo il modello non-militarizzato della «gentry moralizzata» nelle public schools britanniche. 0 altrimenti, forse, a sviluppare lo spirito di corpo, la sicurezza di sé e l’egemonia delle élites potevano concorrere «tradizioni» più esoteriche, capaci di sottolineare la coesione interna di un mandarinato di rango superiore (in Francia, ad esempio, o tra i bianchi nelle colonie).

Una volta appurato che il tipo di tradizione inventata prevalente era quello «comunitario», rimane da studiare la sua natura. L’antropologia può aiutarci a evidenziare le differenze, se esistono, tra le pratiche tradizionali inventate e quelle davvero antiche. Qui basterà osservare che mentre le tradizioni dei gruppi particolari attribuiscono in genere particolare importanza ai riti di passaggio (l’iniziazione, la promozione, il collocamento a riposo, la morte), altrettanto non avviene, di regola, per quelle destinate alle pseudo-comunità onnicomprensive (le nazioni, i paesi), presumibilmente perché queste ultime insistevano sul proprio carattere eterno e immutabile dal momento della fondazione della comunità stessa, quantomeno. Può avvenire, comunque, che tanto i nuovi regimi politici quanto i movimenti innovativi cerchino di creare dei riti di passaggio propri equivalenti a quelli tradizionali legati alla religione (il matrimonio e i funerali civili).

Tra le pratiche antiche e quelle inventate è osservabile una marcata differenza. Le prime erano pratiche sociali specifiche e fortemente vincolanti, le seconde davano spesso definizioni aspecifiche e vaghe dei valori, dei diritti e degli obblighi inculcati dal senso di appartenenza al gruppo: «patriottismo», «lealtà», «dovere», «le regole del gioco», «lo spirito della scuola», e via dicendo. Ma se il contenuto del patriottismo britannico e dell’«americanismo» spiccava per la sua vaghezza, pur essendo in genere specificato nei commenti alle occasioni rituali, le pratiche che lo simboleggiavano erano di fatto obbligatorie – il gesto di alzarsi in piedi per cantale l’inno nazionale in Gran Bretagna, il rito dell’alzabandiera nelle scuole americane. A quanto pare, l’elemento centrale era dato dall’invenzione di segni di appartenenza a una consorteria carichi di significati emotivi e simbolici, piuttosto che dallo stato e dagli scopi della consorteria stessa. E il senso di quei simboli risiedeva appunto nella loro indefinita universalità.

La bandiera, l’inno nazionale, l’emblema della nazione, sono i tre simboli attraverso i quali un paese indipendente proclama la propria identità, la propria sovranità; e in quanto tali impongono rispetto e lealtà immediati. Di per sé, essi riflettono l’intera ascendenza, il pensiero e la cultura di una nazione12.

In questo senso, come rilevava un osservatore nel 1880, «oggi sono i soldati e i poliziotti a portare i distintivi per noi» – ma non riuscì a prevederne il ritorno in auge come accessori per i privati cittadini nell’imminente era dei movimenti di massa13.

La seconda osservazione è che, a dispetto di tante invenzioni, le nuove tradizioni non hanno colmato che una piccola parte del vuoto lasciato dal declino secolare della tradizione antica come della consuetudine; com’era d’altra parte prevedibile per delle società in cui il passato come modello o come precedente va assumendo sempre meno rilievo in ogni forma del comportamento umano. Nella vita privata della maggioranza, e in quella ripiegata su se stessa dei piccoli gruppi sub-culturali, persino le tradizioni inventate nell’Ottocento e nel Novecento occupavano, e occupano, un posto assai inferiore rispetto a quello occupato, si fa per dire, nelle antiche società agrarie14. Il concetto di «comme il faut» struttura le giornate, le stagioni e il ciclo vitale dell’uomo occidentale moderno assai meno che non quelle dei suoi antenati, assai meno di quanto non facciano le costrizioni esterne dell’economia, della tecnologia, delle organizzazioni burocratiche dello stato, delle decisioni politiche e di altre forze che non si fondano sulla «tradizione» – nella nostra accezione del termine – né contribuiscono a svilupparla.

Questa generalizzazione, però, non è più valida nel campo che potremmo definire la vita pubblica del cittadino (che comprende, in una certa misura, anche le forme pubbliche della socializzazione, come le scuole, a differenza di quelle private come i mezzi di comunicazione di massa). Non si riscontrano sintomi effettivi di declino nelle pratiche neo-tradizionali associate ai gruppi di uomini al servizio dello stato (le forze armate, la magistratura, forse persino il pubblico impiego), né in quelle legate all’appartenenza del cittadino allo stato stesso. Anzi, buona parte delle occasioni in cui la gente si sente consapevole della propria cittadinanza in quanto tale rimangono legate a simboli e pratiche semi-rituali (le elezioni, ad esempio), quasi sempre nuovi sul piano della storia, e in larga misura inventati: bandiere, immagini, cerimonie e musiche. Nella misura in cui le tradizioni inventate dell’era apertasi con la Rivoluzione industriale e la Rivoluzione francese sono riuscite a colmare un vuoto permanente – sino ad oggi, quantomeno – parrebbe che proprio questo fosse il campo interessato.

Ma perché, ci si può chiedere infine, gli storici dovrebbero dedicare la loro attenzione a questi fenomeni? In un certo senso si tratta di una domanda superflua, poiché ormai sono in tanti a farlo, come testimoniano chiaramente il contenuto di questo libro e i suoi riferimenti bibliografici. Sarà dunque meglio riformularla. Quale beneficio possono trarre gli storici dallo studio dell’invenzione della tradizione?

Innanzitutto possiamo considerare questi fenomeni come importanti sintomi, e quindi indicatori, di problemi che forse non riusciremmo a riconoscere altrimenti, e di sviluppi che altrimenti risulterebbero difficili da identificare e datare. Sono dei documenti. La trasformazione del nazionalismo tedesco, dal vecchio modello liberale a quello nuovo, imperialistico-espansionista, viene inquadrata in modo più preciso dal rapido passaggio del movimento ginnico tedesco dalla vecchia bandiera nera, rossa e oro a quella nuova, nera, bianca e rossa (avvenuto soprattutto intorno agli anni ’90 dell’Ottocento), che non dalle dichiarazioni ufficiali delle autorità o dei portavoce delle organizzazioni. La storia della finale di coppa del calcio britannico ci comunica informazioni sullo sviluppo di una cultura operaia urbana che altri dati e fonti più convenzionali non sono in grado di darci. Per lo stesso motivo, lo studio delle tradizioni inventate non può essere scisso da quello più ampio della storia della società, né può pretendere di spingersi molto oltre la mera scoperta delle pratiche in questione se non viene integrato in una ricerca di maggior respiro.

In secondo luogo, questi fenomeni gettano una luce considerevole sul rapporto dell’uomo col passato, e dunque sull’oggetto e sul mestiere stesso dello storico. Tutte le tradizioni inventate infatti, laddove è possibile, ricorrono alla storia come legittimazione dell’azione e cemento della coesione di gruppo. Spesso essa si trasforma nel simbolo stesso della lotta, come nel caso delle battaglie per i monumenti a Walther von der Vogelweide e Dante in Sud Tirolo nel 1889 e nel 189615. Persino i movimenti rivoluzionari puntellarono le loro innovazioni facendo riferimento al «passato del popolo» (i Sassoni contro i Normanni, «nos ancêtres les Gaulois» contro i Franchi, Spartaco), alle tradizioni rivoluzionarie («Auch das deutsche Volk hat seine revolutionäre Tradition», dichiarava Engels nelle prime righe della sua Guerra contadina in Germania)16, ai loro eroi e martiri. Labour in Irish Society, di James Connolly, è un perfetto esempio della fusione di questi temi. In questo caso l’elemento di invenzione risulta particolarmente chiaro, poiché la storia che entrò a far parte della conoscenza comune, 0 dell’ideologia della nazione, dello stato o del movimento non è quella effettivamente conservata nella memoria popolare, ma è stata selezionata, scritta, resa in immagini, diffusa e istituzionalizzata da persone appositamente incaricate. Gli studiosi di storia orale hanno spesso rilevato che nella vera memoria dei vecchi lo sciopero generale del 1926 ha un ruolo assai più modesto e meno drammatico di quanto gli intervistatori non prevedessero17. La costruzione di un’analoga immagine della Rivoluzione francese nella – e per la – Terza Repubblica è già stata analizzata18. Tutti gli storici, comunque, per quanto diversi possano essere i loro obiettivi, intervengono in questo processo nella misura in cui contribuiscono, in modo più o meno consapevole, a creare, demolire e ristrutturate immagini del passato che non appartengono soltanto al mondo dell’indagine specialistica, ma anche alla sfera pubblica dell’uomo in quanto essere politico. Tanto vale che si rassegnino a questa dimensione della loro attività.

A questo proposito, occorre mettere in evidenza un motivo specifico di interesse delle «tradizioni inventate», quantomeno per quanto riguarda gli storici moderni e contemporanei. Si tratta di questioni che toccano da vicino un’innovazione storica relativamente recente, la «nazione», con i fenomeni ad essa associati: il nazionalismo, lo stato nazionale, i simboli della nazione, le storie nazionali e cosi via. Tutto ciò poggia su esercizi di ingegneria sociale che sono spesso consapevoli, e sempre innovatori, se non altro perché la novità storica comporta innovazione. Il nazionalismo, o le nazioni, degli israeliani e dei palestinesi non possono non essere una novità, indipendentemente dalla continuità storica degli ebrei o dei musulmani mediorientali, dato che in quella regione il concetto stesso di uno stato territoriale del tipo oggi prevalente era a malapena pensabile ancora cento anni fa, e non fu una prospettiva praticabile prima della fine della Prima Guerra mondiale. Le lingue nazionali imparate a scuola, per essere scritte – lasciamo da parte la lingua parlata – da qualcosa di più che un’élite piuttosto ristretta, sono per lo più il prodotto di un’epoca dalla durata variabile, ma quasi sempre breve. Come osservava giustamente uno storico francese della lingua fiamminga, il fiammingo che si insegna oggi in Belgio non è quello che parlavano le mamme e le nonne di Fiandra coi loro bambini: in poche parole, è una «madrelingua» in senso metaforico, non letterale. Non dobbiamo lasciarci fuorviare da un paradosso curioso, ma comprensibile: in genere le nazioni moderne, con tutto il loro armamentario, pretendono di essere l’opposto della novità, si dichiarano radicate nell’antichità più remota, stanno al polo opposto delle comunità costruite, cioè umane, sono tanto «naturali» da non richiedere altra definizione che l’autoaffermazione. Al di là delle continuità storiche o di altro genere inglobate nei concetti moderni di «Francia» e «francesi» – che nessuno si azzarderebbe a negare – questi stessi concetti contengono inevitabilmente in sé una componente costruita o «inventata». E proprio perché tanta parte di ciò che soggettivamente costituisce la «nazione» moderna rientra nella categoria di questi artifici, ed è legata a simboli o discorsi opportunamente addomesticati (quali la «storia nazionale»), in genere di origine relativamente recente, il fenomeno nazionale non può essere correttamente indagato senza considerare con grande attenzione l’«invenzione della tradizione».

Infine, lo studio dell’invenzione della tradizione ha carattere interdisciplinare. È un campo di ricerca che richiama gli storici come gli antropologi sociali e una grande varietà di operatori delle scienze umane, e non può essere coltivato in assenza di questa collaborazione. In linea di massima, questo volume raccoglie contributi di storici. È sperabile che anche altri lo riterranno utile.

NOTE

1 Cfr. ad esempio G. Tihon, Les religieuses en Belgique du XVIIIe au XXe siècle. Approche statistique, in Belgisch Tijdschrift v. Nieuwste Geschiedenis /Revue Belge d’Histoire Contemporaine», VII (1976), pp. 1-54.

2 Karsten Bahnson, Akademische Auszüge aus deutschen Universitäts und Hochschulorten, Saarbrücken 1973.

3 Nel secolo XVIII se ne registrano diciassette, cinquanta tra il 1800 e il 1848, ma soltanto sei dal 1848 al 1973.

4 Rudolf Braun, Sozialer and kultureller Wandel in einem ländlichen Industriegebiet im 19. und 20. Jahrhundert, Erlenbach-Zürich 1965.

5 Ibid., pp. 336-37.

6 A. L. Lloyd, Folk Song in England, London 1969, pp. 134-38.

7 Tutto ciò va distinto dalla ripresa della tradizione per scopi che di fatto ne dimostravano il declino. «Che intorno al 1900 gli agricoltori riprendessero gli antichi abiti regionali, le danze popolari e altri rituali analoghi nelle occasioni di festa non fu né un fenomeno borghese, né un aspetto tradizionalistico. In superficie poteva apparire come un nostalgico desiderio della cultura dei tempi andati, in via di rapida scomparsa, ma in realtà era un’ostentazione dell’identità di classe che consentiva agli agricoltori più ricchi di differenziarsi, sul piano orizzontale dai cittadini, su quello verticale dai contadini dipendenti, dagli artigiani e dai braccianti». Palle Ove Christiansen, Peasant Adaptation to Bourgeois Culture? Class Formation and Cultural Redefinition in the Danish Countryside, in «Ethnologia Scandinavica», 1978, p. 128. Cfr. anche G. Lewis, The Peasantry, Rural Change and Conservative Agrarianism: Lower Austria al the Tum of the Century, in «Past and Present», 1978, n. 81, pp. 119-43.

8 Patrick Joyce, The Factory Politics of Lancashire in the Later Nineteenth Century, in «Historical Journal», XVIII (1965), pp. 525-53.

9 Helmut Hartwig, Plaketten zum I. Mai 1934-39, in «Aesthetik und Kommunikation», VII (1976), n. 26, pp. 56-59.

10 P. H. J. H. Gosden, The Friendly Societies in England, 1815-1875, Manchester 1961, pp. 123, 319.

11 J. E. C. Bodley, The Coronation of Edward the VIIth: A Chapter of European and Imperial History, London 1903, pp. 201, 204.

12 Dichiarazione ufficiale del governo indiano, citata in R. Firth, Symbols, Public and Private, London 1973, p. 341.

13 Frederick Marshall, Curiosities of Ceremonials, Titles, Decorations and Forms of International Vanities, London 1880, p. 20.

14 Per non dire della trasformazione di molti ben attestati rituali e segni di uniformità e coesione in mode in continuo e rapido cambiamento – nell’abbigliamento, nel linguaggio, nella pratica sociale e via dicendo come avviene nelle culture giovanili dei paesi industrializzati.

15 John W. Cole e Eric Wolt, The Hidden Frontier: Ecology and Ethnicity in an Alpine Valley, New York-London 1974, p. 55.

16 Sulla popolarità dei libri su questo ed altri temi storici militanti nelle biblioteche degli operai tedeschi, cfr. H.-J. Steinberg, Sozialismus und deutsche Sozialdemokratie. Zur Ideologie der Partei vor dem ersten Weltkrieg, Hannover 1967, pp. 131-33.

17 Vi sono ottimi motivi a giustificare il fatto che in genere chi partecipa a livello di base non vede gli eventi storici che ha vissuto allo stesso modo in cui li vede chi sta al vertice, o lo storico. Potremmo definirla (dal nome dell’eroe stendhaliano della Certosa di Parma) la «sindrome di Fabrizio».

18 Ad esempio, Alice Gérard, La Révolution Française; Mythes et lnterprétations, Paris 1970.

FONTE: Introduzione a L’invenzione della tradizione, a cura di Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger, Einaudi 1994

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