In certi contesti politici, la lucidità non è altro che follia repressa, convertita in norma sociale, e la nevrosi, da affare individuale, diventa principio fondante di una comunità immaginata, di una cultura. Non si tratta di demonizzare i soggetti, ma di comprendere come certi dispositivi ideologici, apparentemente razionali, siano invece forme di adattamento patologico collettivo. Lungi dal voler semplificare, la questione che si pone è se si possa ancora considerare “ordinaria” la psicologia di chi aderisce senza riserva a un sistema ideologico fondato sulla persecuzione, l’occupazione, l’apartheid, in nome di un trauma storico non elaborato. E se questa adesione non vada considerata una forma sociale di melanconia, un lutto congelato, che, anziché portare alla riparazione, genera compulsione, controllo, violenza e distruzione.
Chi oggi osserva il comportamento collettivo delle società sioniste, sia all’interno di Israele sia nei suoi fiancheggiatori diasporici, rileva i segni evidenti di uno scollamento tra principio di realtà e narrazione identitaria, tra la condizione oggettiva e la percezione soggettiva, tra la violenza esercitata e quella rivendicata come “subita”. Esattamente come i cittadini “ordinari” della Demmin nazista che, di fronte al crollo del Reich, non trovarono altra soluzione che l’autodistruzione, l’ideologia sionista, oggi, si configura come un sistema chiuso, paranoico, autoreferenziale, incapace di riconoscere l’altro se non come minaccia. E ciò che si professa come sopravvivenza, è spesso la sublimazione di un’ideologia di morte, trasfigurata in dovere morale, in diritto storico, in missione sacra.
Questa incapacità di elaborare il trauma originario – la Shoah – non come fondamento metafisico ma come evento storico, localizzabile, circoscrivibile e superabile nella sua memoria, ha trasformato la melanconia in sistema istituzionale. Non si tratta più, infatti, di preservare la memoria per evitare il ritorno del male, ma di cristallizzare il trauma in un’eterna giustificazione all’esercizio della violenza. L’altro, il palestinese, l’antisionista, il non ebreo critico, viene così relegato al ruolo di persecutore eterno, il Goy moderno, proiezione fantasmatica di un’antica colpa mai rimossa, che continua a ossessionare l’identità sionista come spettro del proprio passato non affrontato.
In questo meccanismo di proiezione, ogni dissenso è tradimento, ogni autocritica è suicidio politico, ogni richiesta di giustizia equivale a una minaccia esistenziale. Eppure, il rifiuto di affrontare il lutto è ciò che trasforma la difesa in compulsione aggressiva, la cura della memoria in culto feticistico, la sopravvivenza in ideologia del privilegio. Come Freud aveva intuito già all’alba del Novecento, laddove il lutto non è riconosciuto e integrato, nasce la melanconia. E laddove la melanconia diventa identità, la collettività si ammala, si chiude, si fossilizza, si difende non dai pericoli reali, ma da quelli immaginati. Così come il cittadino nazista si è ucciso per non affrontare la fine del sogno imperiale, il sionista oggi si condanna all’ossessione difensiva, non per sopravvivere, ma per non crollare sotto il peso di una verità che non può accettare: e cioè che non esiste più alcuna persecuzione, se non quella esercitata.
Il paradosso, d’altronde, è che ciò che si dichiara “difesa dell’identità ebraica” altro non è che negazione della pluralità ebraica. Come ogni ideologia totalitaria, anche il sionismo ha bisogno di annullare le sfumature, di ridurre l’identità a monolite, di costruire l’ebreo come soldato, cittadino esemplare, colono e martire, non come individuo con molteplici appartenenze, in conflitto, in dialogo, in contraddizione. La psicosi, quando si fa sistema, non ha bisogno di coerenza: ha bisogno di rituali. E lo Stato, in questo senso, diventa il sacerdote della nevrosi collettiva. Le guerre non si combattono più per la sopravvivenza, ma per impedire il lutto. Gli eserciti non difendono confini, ma impediscono il ricordo della propria fragilità. I nemici non sono nemici reali, ma specchi deformanti di sé stessi, che restituiscono al soggetto sionista l’immagine di una colpa rimossa, di una sconfitta intollerabile, di una dipendenza infantile mai superata.
Come non pensare, allora, all’insegnamento di Durkheim, secondo cui il suicidio non è mai un fatto privato, ma un sintomo sociale, una malattia del legame collettivo? E come non vedere, in questo contesto, che il suicidio non è soltanto gesto estremo del singolo, ma strategia culturale che assume la forma della distruzione dell’altro? Il bombardamento, la pulizia etnica, l’umiliazione, la segregazione, non sono altro che variazioni della stessa pulsione autodistruttiva rovesciata all’esterno, camuffata da eroismo, da destino, da necessità. Il “suicidio” sionista, insomma, è un suicidio per procura: uccide l’altro per non uccidere sé stesso, sacrifica l’umanità dell’avversario per non guardare negli occhi la propria.
Questa dinamica non è un’eccezione. È una forma perversa di normalità. Come avvenne nella Germania postbellica, anche oggi in Israele ogni tentativo di analisi è visto come tradimento, ogni distanziamento come negazione di sé. L’identificazione totalizzante con lo Stato ha prodotto una situazione paradossale in cui la dissociazione dalla realtà è divenuta premessa dell’identità. Non si può essere ebrei senza essere sionisti. Non si può criticare Israele senza essere antisemiti. Non si può ricordare la Shoah senza trasformarla in patente d’impunità. Ed è proprio questa ossessione per l’identità – fragile, contraddittoria, ma dogmatica – che rende impossibile ogni elaborazione del lutto, ogni riconciliazione, ogni riparazione.
Il trauma si trasforma così in feticcio, in scudo, in grimaldello. Il dolore non è più qualcosa da attraversare, ma da mostrare. Non per guarire, ma per giustificare. Non per ricordare, ma per proteggere una costruzione ideologica che, lungi dall’essere la continuazione dell’ebraismo, ne rappresenta la sua mutazione più regressiva. E così, il culto della sopravvivenza produce politiche di morte. La vittima si trasforma in carnefice. E la melanconia, da sentimento nobile e struggente, si tramuta in paranoia persecutoria, in necrofilia istituzionalizzata, in sadismo travestito da civiltà.
Ciò che più inquieta, tuttavia, è che tutto ciò non si presenta mai come follia, ma come razionalità. L’ideologia sionista ha saputo costruirsi come discorso “moderato”, “difensivo”, “democratico”. La violenza viene negata o esternalizzata. Le immagini di guerra sono estetizzate, rese cinematografiche. I massacri, burocratizzati. Le leggi di apartheid, presentate come norme di sicurezza. Le rappresaglie, tradotte in linguaggio legale. Ogni atto di oppressione viene razionalizzato in termini morali: “non abbiamo scelta”, “difendiamo la nostra esistenza”, “loro ci odiano”. È il trionfo della coscienza anestetizzata, del delirio che si fa buonsenso. E il linguaggio, infine, non è che il palcoscenico della nevrosi: là dove una parola come “pace” non significa più nulla, se non assenza di resistenza.
Non è un caso se anche nella diaspora si avverte, sempre più spesso, un disagio profondo, un senso di scollamento tra l’ebraismo vissuto come cultura, come memoria, come spiritualità, e l’ebraismo ridotto a strumento di propaganda statale. Le nuove generazioni, soprattutto quelle più attente alle questioni di giustizia e di diritti, iniziano a percepire lo scarto tra ciò che è giusto e ciò che viene loro insegnato come “giusto per forza”. Ma questo scarto, se non è elaborato, può facilmente ricadere nelle stesse trappole dell’identificazione, può alimentare nuovi sensi di colpa, nuove rabbie, nuove vendette. Perché il dolore, se non è condiviso, diventa violenza. E la violenza, se non è riconosciuta, ritorna sempre, sotto altre forme.
E allora, cosa resta da fare? Accettare l’idea che il lutto vada vissuto. Che la Shoah non può essere né rimossa né feticizzata. Che essere ebrei non significa essere sionisti. Che la difesa della vita non può passare per la negazione dell’altra vita. Che la giustizia non è vendetta. Che la storia non è una proprietà privata. Che nessun trauma giustifica l’indifferenza. Che la memoria senza empatia è pornografia del dolore. Che la verità è sempre dialettica, mai assoluta. Che il potere può rendere ciechi, ma non muti. E che, soprattutto, la libertà, come Freud ci ha insegnato, comincia nel momento in cui si accetta la perdita e si impara a desiderare di nuovo. Anche dopo il buio. Anche dopo l’orrore.
Perché, in fondo, ciò che separa il lutto dalla melanconia non è la quantità di dolore, ma la possibilità del racconto. E finché si potrà raccontare, finché qualcuno oserà dire ciò che è stato rimosso, ciò che è stato travestito da necessità storica, allora ci sarà una possibilità. Una possibilità per Israele, per la diaspora, per la memoria e per la giustizia. Una possibilità che non si chiama Stato, non si chiama appartenenza, non si chiama esercito. Si chiama umanità. Quella che si risveglia quando si smette di uccidere per non morire. Quando si sceglie di vivere, non per vendicarsi, ma per imparare a perdere senza distruggere. Quando si smette di essere nazisti fino alla morte, e si sceglie finalmente di essere vivi fino alla vita.