Dino Buzzati

Cinquantanni fa, un processo kafkiano fece morire Buzzati

Lo avevano definito il “Kafka italiano”, Dino Buzzati morì esattamente cinquanta anni fa, il 28 gennaio 1972, 65 anni compiuti appena tre mesi prima. Tumore al pancreas. Ma Montanelli assicurava che, a dargli un colpo risolutivo, era stato qualcosa di più grave

di Maurizio Stefanini

Lo avevano definito il “Kafka italiano”, Dino Buzzati morì esattamente cinquanta anni fa, il 28 gennaio 1972, 65 anni compiuti appena tre mesi prima. Tumore al pancreas. Ma Montanelli assicurava che, a dargli un colpo risolutivo, era stato qualcosa di più grave: una sorta di “processo del popolo” cui “la zarina” Giulia Maria Crespi, editrice “rossa” del Corriere della Sera, lo aveva fatto sottoporre dagli amici del suo salotto, e che presenta appunto aspetti kafkiani. “Giulia Maria”, raccontava Montanelli, “si era messa in testa di fare il padrone illuminato. Ma i lumi dove li aveva, povera disgraziata? Io non l’ho mai mandata giù: lei, il suo salotto, la sua faccia”. Un giorno, prosegue il racconto, “riunì in quel suo detestabile salotto dei critici i quali le dissero delle cose contro Buzzati e la sua maniera di fare critica d’arte”. Ma Buzzati era il caso rarissimo di un giornalista che faceva il critico d’arte essendo artista lui stesso. “Sono un pittore il quale, per hobby, durante un periodo purtroppo alquanto prolungato, ha fatto anche lo scrittore e il giornalista”, diceva si sé. Spaziava tra letteratura, giornalismo e pittura. Aveva realizzato lui i disegni a colori per La famosa invasione degli orsi in Sicilia che nel 1945 aveva sviluppato il tema della rivolta degli animali contro l’uomo, quasi in contemporanea con La fattoria degli animali di Orwell. E aveva fatto anche i disegni per il Poema a fumetti che nel 1969 rielaborò il mito di Orfeo e Euridice in chiave pop. Segno di questa passione, anche una sua famosa prefazione a un Oscar Mondadori dedicato al Paperone di Carl Barks, con un gusto per la commistione tra alto e basso non dissimile da quella per cui va famoso Umberto Eco.

Eppure, non piaceva molto, non è mai stato digerito del tutto dalla ristretta e potente schiera dei corrieristi à la page, con vista a sinistra, troppo poco ideologico, sociologico. Troppo affascinato da temi che sconfinavano nel mistero, nella sospensione di senso. Accostato non solo a Kafka ma anche a Poe, per i suoi racconti e romanzi fantastici, ma anche corrispondente di guerra. Il Deserto dei Tartari molti soldati se lo erano portati appresso, sui fronti della Seconda guerra mondiale. Come critico d’arte lo aveva voluto Giovanni Spadolini, premiandolo per una gestione della Domenica del Corriere che aveva portato il settimanale oltre il milione di copie. Famoso per il modo in cui da cronista trasfigurava i fatti in racconti fantastici, da artista-giornalista pensò che il modo per spiegare l’arte doveva essere diverso. Inventò dunque un tipo di “critica” che a lettore narrava le principali novità artistiche, in lingua semplice e priva di tecnicismi. Ma questo, secondo gli amici della Crespi, era un approccio “borghese”. “Andò al telefono, la padrona illuminata, e ordinò a Buzzati di andare a sentire che cosa si diceva contro di lui, di andare a sottoporsi a una specie di processo”. “Quando tornò a casa, il Dino, io ero suo ospite, era sconvolto”, raccontava Montanelli. “Addirittura piangeva”. Da qui un durissimo litigio, che avrebbe portato di lì a poco Montanelli al licenziamento. A Buzzati avrebbe dato addirittura il colpo di grazia.

Il Foglio, 27 Gennaio 2022

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