“Washington ha l’illusione di essere ancora al comando”: Jeffrey Sachs su un mondo multipolare | UpFront

Lo status degli Stati Uniti come egemone globale sta cambiando? Potenze come Cina, India e Russia stanno ampliando sia la loro influenza globale sia i loro legami strategici. Come affronteranno gli Stati Uniti il declino della loro egemonia?

Sotto la presidenza di Donald Trump, la politica estera degli Stati Uniti ha adottato un approccio America First – una strategia che, secondo molti critici, indebolisce la cooperazione internazionale e dà priorità a relazioni di tipo transazionale rispetto alle alleanze di lungo termine.

Nel frattempo, potenze come Cina, India e Russia stanno ampliando sia la loro influenza globale sia i loro legami strategici.

Dunque, come affronteranno gli Stati Uniti il declino della loro egemonia?

Nota della redazione: questo episodio di UpFront è stato registrato l’11 giugno, prima del bombardamento israeliano sull’Iran.

Pubblicato il 13 giugno 2025 sul canale YouTube Al Jazeera English

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Marc Lamont Hill: La politica estera degli Stati Uniti sotto Donald Trump è stata definita da un’agenda “America First”. Ma cosa significa questo in un mondo in cui i vecchi centri del potere egemonico stanno cambiando?

Questa settimana a UpFront, parlerò con l’economista di fama mondiale e direttore del Centro per lo Sviluppo Sostenibile della Columbia University, Jeffrey Sachs.

Jeffrey Sachs, grazie mille per essere con noi a UpFront.

Jeffrey Sachs: Sono felice di essere qui.

Marc Lamont Hill: Lei ha detto che oggi viviamo in un mondo multipolare, in cui grandi potenze come Russia, Cina e India stanno affermando la propria influenza – sia economica che politica. Ha anche affermato che lo Stato americano è in declino. Può spiegare perché la pensa così e com’è avvenuto questo cambiamento nell’assetto del potere globale?

Jeffrey Sachs: Abbiamo un nuovo assetto di potere perché altre parti del mondo hanno fatto molti progressi economici e tecnologici. La Cina, per esempio, era un paese povero 40 anni fa. Ora è un paese piuttosto ricco e tecnologicamente avanzato. Direi che si trova all’avanguardia in molte delle tecnologie più importanti.

Come ci sono arrivati? Lavoro durissimo, tassi di investimento altissimi, una strategia molto valida, pianificazione seria. Hanno pensato a lungo termine, ci hanno lavorato sodo, e hanno avuto successo. Questo è il fatto principale.

Il secondo fatto è un dato tecnologico di base, che in un certo senso avevamo compreso durante la Guerra Fredda ma che abbiamo dimenticato dopo il 1991 – ma resta una verità costante nelle nostre vite. E cioè: a causa delle armi nucleari, e del fatto che anche altri paesi ne possiedono in gran numero, non possiamo sconfiggere quei paesi.

Quindi il mondo è intrinsecamente multipolare, nel senso che non si può sfidare un’altra superpotenza nucleare – può davvero rovinarti la giornata. E ce ne siamo dimenticati dopo il 1991.

Perché il 1991? Perché è l’anno in cui l’Unione Sovietica si è dissolta in 15 stati. E l’élite americana ha detto: “Ok, adesso siamo davvero soli. Siamo l’unica superpotenza mondiale.”

Abbiamo trattato la Russia in modo assolutamente stupido. Abbiamo abusato del nostro potere – che era reale – ma ne abbiamo abusato al punto da finire in una guerra vera e propria. È in un certo senso una guerra per procura in Ucraina, ma in realtà è una guerra tra Stati Uniti e Russia. Non viene descritta così dalla nostra stampa, ma è così.

E il punto è questo: una guerra del genere non si può vincere. Perché se vinci, perdi – la Russia ha migliaia di testate nucleari. Non scomparirà. E se perdi sul campo con armi convenzionali, perdi comunque.

Quindi tutta questa avventura ucraina è stata frutto del dimenticare che il mondo era già intrinsecamente multipolare – semplicemente perché ci sono più potenze con molte armi nucleari che possono rovinarti la giornata, che possono finire per distruggere il nostro paese e il mondo.

Il fatto è che gli Stati Uniti rappresentano il 4,1% della popolazione mondiale. Abbiamo circa 335 milioni di abitanti. Il mondo ne ha 8,1 miliardi. Ci sono molti altri popoli. E non vedono le cose come le vede Washington – che Washington comandi il mondo.

Ma io conosco Washington. E Washington, ancora oggi, vive nell’illusione di comandare il mondo.

Marc Lamont Hill: Questa illusione rende difficile per gli Stati Uniti mantenere la loro posizione attuale o persino riconquistare il potere?

Jeffrey Sachs: Non si può riconquistare l’unipolarismo. Non si può nemmeno tornare alla posizione che gli Stati Uniti occupavano 30 o 40 anni fa, in termini relativi, perché la Cina è la Cina, oggi—un paese avanzato, tecnologicamente sofisticato, con un forte potere militare. Non è affatto un nemico, secondo me, ma è così potente che faremmo meglio a non andare in guerra con la Cina. Questo è certo. Finirebbe per far esplodere il mondo, o per sconfiggerci, o per provocare qualcosa di totalmente disastroso.

I responsabili politici americani capiscono queste realtà? Capiscono che l’India è cambiata? Perché, nell’immaginario americano, l’India era un paese povero che si poteva portare dalla nostra parte per diventare nemico della Cina e così via—ed è quello che cercano di fare. Ma non capiscono. L’India sta facendo progressi straordinari dal punto di vista economico e tecnologico, è una superpotenza nucleare, ha un programma spaziale molto attivo ed è in prima linea nelle tecnologie digitali.

Questa è la realtà del mondo—ma non la comprendiamo. Continuiamo a fare richieste. Pensiamo di poter lanciare guerre commerciali, o guerre vere e proprie, o di poter minacciare altri paesi con una cosa o l’altra. Non funziona.

Marc Lamont Hill: Sotto Trump, gli Stati Uniti si sono ritirati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite e dall’Accordo di Parigi sul clima. Ha inoltre imposto dazi significativi a paesi alleati come il Canada e l’Unione Europea. Qual è la sua opinione sull’impatto più ampio di queste mosse?

Jeffrey Sachs: L’idea dell’amministrazione Trump è: “Non dovremmo essere vincolati da cose come l’ONU. È una stupidaggine. Non dovremmo essere vincolati dai trattati. Siamo sovrani. Abbiamo potere. Dovremmo usare il nostro potere.”

Secondo me, questo non è un approccio particolarmente sensato, a livello concettuale. È un po’ come dire: arrivi a un semaforo, è rosso, e dici: “Attraverso lo stesso. Chi può dirmi cosa fare!” Ecco, il semaforo c’è per una ragione. Serve a regolare il flusso in tutte le direzioni.

Le regole del commercio non servono a danneggiare gli Stati Uniti. Le regole del commercio servono a funzionare come un semaforo—per assicurare che gli scambi avvengano in modo sistematico, secondo regole comuni a tutti i paesi.

Quindi penso che l’idea concettuale di base—“Non ci piace l’ONU, non saremo vincolati da queste organizzazioni stupide, siamo l’America”—non sia sostenibile.

Marc Lamont Hill: C’è qualche legittimità in alcune di queste mosse? Per esempio, Trump sostiene che il Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU è ingiusto nei confronti degli Stati Uniti, che impone loro un onere che non richiede ad altre nazioni. Oppure che gli accordi sul clima siano irragionevoli rispetto a ciò che chiedono. Lei cosa risponde a queste osservazioni?

Jeffrey Sachs: Be’, quando si parla di cambiamento climatico, ci sono alcuni punti fondamentali. Primo: il cambiamento climatico è reale. Secondo: è davvero pericoloso. Terzo: sta accelerando. È peggiore di quanto gli scienziati si aspettassero a questo punto. Negli ultimi anni, infatti, il tasso di riscaldamento del pianeta è aumentato in modo drammatico. E gli scienziati stanno cercando di capire cosa stia succedendo. Ma stiamo raggiungendo livelli davvero pericolosi per la Terra. È per questo che vediamo tutti questi incendi boschivi, uragani di categoria 5, e tanti, tanti eventi disastrosi in tutto il mondo. Quindi tutto questo è vero.

Poi arriva l’affermazione del presidente Trump secondo cui l’Accordo di Parigi è contro gli Stati Uniti. Ma l’Accordo di Parigi non menziona gli Stati Uniti. Quindi non è contro gli Stati Uniti. È un accordo firmato da 196 paesi.

Quello che dovremmo fare è sederci al tavolo—con la Russia, con l’Arabia Saudita, con il Canada, con la Cina, con l’India, con altri grandi paesi emettitori—e dire: “Abbiamo tutti un problema. Cosa facciamo?” Questo è ciò che dovremmo fare, non andarcene sbattendo la porta dicendo: “Sapete che c’è? Ci conviviamo. Il cambiamento climatico va bene così.”

Questo, in realtà, non regge nemmeno a un’analisi appena un po’ attenta.

Ciò che stanno facendo gli Stati Uniti—probabilmente senza rendersene conto, sono sicuro che Trump non lo capisca—è cedere alla Cina la leadership tecnologica. Gliela stanno praticamente consegnando, dicendo: “Noi non entreremo in settori come i veicoli elettrici. Non investiremo nel solare. Noi trivelliamo, punto e basta. Così vi lasciamo il futuro dell’economia del XXI secolo”—e la Cina risponde: “Va bene, produrremo noi la maggior parte dei veicoli elettrici al mondo, grazie mille. Svilupperemo la quarta generazione di nucleare, il nucleare modulare. Produrremo energia eolica, solare, idroelettrica. Avremo reti elettriche digitali intelligenti.”

Tutte cose che la Cina sta già facendo adesso.

Marc Lamont Hill: Parliamo un po’ della situazione interna. Nel suo libro del 2018, A New American Foreign Policy: Beyond American Exceptionalism, ha scritto che l’agenda “America First” di Trump consiste in realtà nel mettere l’America bianca al primo posto—che fa parte di un’ondata globale di politiche anti-immigrazione e razziste.

Recentemente, Trump ha scatenato gli agenti dell’ICE contro gli immigrati senza documenti, il che ha naturalmente provocato forti proteste in California. È chiara la resistenza alle sue politiche, ma secondo lei questa resistenza è sufficiente a cambiare qualcosa?

Jeffrey Sachs: No, non in questo momento. Penso che ci aspettino molti anni di instabilità negli Stati Uniti. Non si tratta di un giorno, una settimana o un mese. È una frattura sociale piuttosto profonda.

Credo che, se dobbiamo ridurre tutto a un concetto fondamentale, si tratti alla fine di razzismo. È legato al cambiamento nella composizione razziale ed etnica dell’America—che col tempo diventa sempre meno bianca, con una popolazione sempre più composta da immigrati, persone nate all’estero, e così via.

A me personalmente questo piace. Amo New York City. Ogni tanto si sente parlare inglese—ma si sente di tutto. Ed è proprio questa diversità, secondo me, la forza più grande dell’America.

Ma questa non è la visione della base elettorale di Trump. E credo che questa sia probabilmente la forza motrice fondamentale. Verrà negata, ma io credo che sia la forza motrice di fondo.

C’è un punto, però, su cui sono d’accordo—retoricamente, non nelle azioni—con Trump. Penso che ogni paese dovrebbe avere confini regolari e controllati. Non credo che un paese ricco come gli Stati Uniti possa avere confini aperti. Un miliardo di persone si presenterebbe. Non sarebbe gestibile. Non sarebbe giusto. Non funzionerebbe.

Quindi non penso che l’alternativa sia dire: “No, non abbiamo alcun confine.” Penso che ciò che è terribile sia la crudeltà del modo in cui viene gestita la situazione. E parte della strategia di questa amministrazione è proprio la crudeltà. Vogliono scioccare, intimidire. Vogliono terrorizzare la gente.

E, in effetti, stanno terrorizzando la gente. Stanno arrestando i miei studenti. E a me, ovviamente, questo non piace. A nessuno può piacere. E l’obiettivo è instillare la paura. Ma questo non rende grande l’America. È qualcosa di davvero triste. Non è una questione superficiale, e non è qualcosa che scomparirà in poco tempo.

Marc Lamont Hill: Lei ha spesso parlato dell’importanza di integrare più profondamente i paesi africani nell’economia globale. Ha sostenuto che l’Unione Africana dovrebbe guidare lo sviluppo del continente attraverso una maggiore integrazione globale. Considerando quanto siano radicate le strutture di potere globali, come può questa visione diventare realtà? Come si passa dalla visione alla realizzazione?

Jeffrey Sachs: Bella domanda. E le dico con assoluta certezza che i prossimi decenni saranno molto positivi per l’Africa—davvero. Sono molto ottimista, in realtà, perché credo che le nuove tecnologie permetteranno di fare grandi salti, favorendo uno sviluppo economico significativo.

Marc Lamont Hill: Che tipo di lavoro è necessario?

Jeffrey Sachs: La cosa principale—assolutamente—è mandare ogni bambino a scuola. Fornire loro un dispositivo digitale. Dare accesso a buoni materiali online per l’istruzione. Formare i giovani africani. Questo è il punto numero uno, due, tre, quattro e cinque dello sviluppo economico.

Questo solleva alcune questioni, perché i paesi molto poveri non hanno i mezzi per mandare a scuola tutti i bambini. Non possono letteralmente finanziare tutto da soli. Quindi sto cercando di lavorare su modelli di finanziamento—modi che consentano loro di farlo.

L’idea di base è abbastanza semplice: prendere in prestito oggi, ma a lungo termine e a tassi molto bassi.

Marc Lamont Hill: Questo mi mette un po’ in allarme.

Jeffrey Sachs: No, ma ora le spiego perché. Perché la prossima generazione sarà molto più ricca se riceverà quell’istruzione. I rendimenti dell’istruzione sono estremamente alti. Parliamo di un rendimento del 20%—portare un bambino, ad esempio, dall’asilo fino all’università. Se si fanno due o quattro anni dopo la scuola superiore, si ottiene circa un 20% di rendimento composto.

Se si prende in prestito al 2% o 3% di tasso d’interesse reale, e lo si fa per 40 anni, da dove arriveranno i soldi per ripagare il debito? Da un’economia ormai ricca.

Marc Lamont Hill: Sembra ottimo, e il modello mi piace. Quello che mi preoccupa, però, è che la storia ci ha mostrato un esito diverso. Penso, per esempio, alla Cina, che ha investito miliardi nelle infrastrutture africane—ufficialmente per stimolare la crescita e lo sviluppo del continente.

Jeffrey Sachs: Sta funzionando.

Marc Lamont Hill: Sì, ma guardi un posto come lo Zambia…

Jeffrey Sachs: Sta funzionando. Ma le dirò qual è stato l’errore—e glielo ripeto spesso, tra l’altro—l’errore è stato dare allo Zambia un prestito di 8 anni.

Marc Lamont Hill: Ecco, volevo dire proprio questo—spendono così tanto per rimborsare il debito che devono tagliare i servizi sociali, la sanità, tutto, pur di pagarlo.

Jeffrey Sachs: Esattamente. Ha perfettamente ragione.

Marc Lamont Hill: Ma questa è la storia dell’Africa.

Jeffrey Sachs: Sì, ma l’errore è questo—ed è anche un errore della Cina. Non è un errore malevolo. Non è una trappola. Ma è comunque un errore. Non si può finanziare lo sviluppo con un prestito a 10 anni. Lo sviluppo è un processo che dura 40 anni. Non dura 10 anni.

Ed è davvero crudele dire a un paese povero, che magari riesce a far arrivare un bambino fino alla terza media: “Ora devi restituire il prestito.” Mi dispiace, ma il bambino è ancora in terza media.

Ci vuole un debito a 40 anni. E quello che sto dicendo ai funzionari del governo cinese—che mi ascoltano, e almeno prendono in considerazione i miei argomenti—è: semplicemente, estendete questi prestiti nel tempo, a basso interesse. Non rendeteli esigibili oggi. È assurdo. Rendete il rimborso dovuto tra 25 anni.

Marc Lamont Hill: Lo faranno? Cioè, capisco perché queste superpotenze non vogliano farlo—è nel loro interesse ricevere i rimborsi.

Jeffrey Sachs: Penso che in realtà siano disposti a farlo.

Marc Lamont Hill: Ok.

Jeffrey Sachs: Ecco, questa è la mia idea. L’altra idea, che non mi piace—mi dispiace dirlo—è quella del Fondo Monetario Internazionale, che è: “Be’, signor Ministro delle Finanze, sarebbe davvero meraviglioso che tutti quei bambini andassero a scuola, ma non avete i soldi. E so che vi piacerebbe avere un po’ di elettricità, ma mi dispiace, non ci sono fondi.”

Secondo me, questa è la vera trappola della povertà: non si finanziano gli investimenti fondamentali.

Ma tornando alle prospettive dell’Africa—quando faccio i conti nei miei fogli di calcolo, scopro che l’Africa può crescere dal 7% al 10% all’anno per i prossimi 40 anni.

Nel 1980, la Cina, con i suoi 1,4 miliardi di abitanti, è decollata. L’India, con i suoi 1,4—oggi 1,5—miliardi di abitanti, ha iniziato circa 20 anni dopo la Cina una crescita rapida, intorno al 2000.

Voglio che l’Africa inizi ora. Anche lei ha 1,5 miliardi di persone. In realtà è della stessa dimensione.

Marc Lamont Hill: Con la difficoltà in più di essere costituita da molti paesi, anziché da una singola nazione…

Jeffrey Sachs: Be’, sa, nel 1885, in quel molto civile Congresso di Berlino, i paesi europei—senza alcuna presenza africana—presero la mappa e si spartirono il continente, colonizzandolo tutto. E alla fine lo lasciarono con 55 stati separati su un unico continente—mentre c’è una sola Cina e una sola India. Questo rende il governo molto più complicato.

Quindi, il mio punto sulla governance in Africa è: siate un’unione. Realizzate davvero un’Area Continentale Africana di Libero Scambio. Quando pianificate le infrastrutture, non fatelo 55 volte. Fate arrivare la ferrovia da una parte all’altra dell’Africa. Collegate le autostrade. Collegate la fibra. Pensate al continente come a un unico paese. In sostanza, pensatelo davvero come un’unione.

Marc Lamont Hill: Passiamo a qualcosa di meno controverso. Parliamo di Israele e Palestina.

Jeffrey Sachs: Sì, questo è facile.

Marc Lamont Hill: Il genocidio a Gaza va avanti da poco più di un anno e mezzo. E recentemente abbiamo visto un cambiamento—paesi come Francia, Regno Unito, Canada, persino il cancelliere tedesco Friedrich Merz—sono stati più critici nei confronti di Israele. Dato l’enorme livello di devastazione, siamo arrivati al punto in cui questa reazione che cominciamo a vedere è, in un certo senso, “troppo poco e troppo tardi”?

Jeffrey Sachs: Be’, è scandalosamente in ritardo, questo è certo. Perché, guardando solo ai dati ufficiali, ci sono più di 50.000 morti—e per lo più donne e bambini. Quindi, è in corso un genocidio da tutto questo tempo, e l’Europa e gli Stati Uniti lo hanno sostenuto attivamente—come hanno fatto gli Stati Uniti—oppure lo hanno sostenuto tacitamente restando a guardare. Ora stanno cominciando a dire qualcosa. Borbottano. Ma, accidenti, è ancora troppo poco. Perché secondo me non si dovrebbe solo dire che deve finire. C’è stata una votazione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU proprio nei giorni scorsi—14 dei 15 paesi hanno detto: “Cessate il fuoco immediato”, perché ogni giorno vengono uccise persone in massa. Civili. Ma uno ha posto il veto: l’amministrazione Trump.

Quindi, la prima cosa è, ovviamente, fermare queste uccisioni di massa. Ma la seconda cosa è: riconoscere lo Stato di Palestina. Senza alcun dubbio. Senza negoziazioni. Senza processi di pace. Senza chiacchiere inutili. Niente “dobbiamo convincere Israele”, perché Israele non accetterà mai.

Il problema, naturalmente, è che Israele ha un governo completamente radicale—io lo definirei genocida—con Netanyahu, Ben Gvir e Smotrich. E secondo me sono dei massacratori. Il loro obiettivo non è “sconfiggere Hamas”. Il loro obiettivo è controllare tutto. Questo è evidente.

Non dicono—e credo sia un segnale rivelatore su Netanyahu—anche se se li si incalza, alla fine lo ammetterebbero. Non dicono: “Dobbiamo sconfiggere Hamas e poi ci sarà uno Stato palestinese.” Dicono: “Dobbiamo sconfiggere Hamas.” E poi? “Non sono affari vostri.” E se li si incalza: “Saremo lì per sempre.”

Marc Lamont Hill: Di recente abbiamo visto emergere alcune tensioni tra Donald Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Jeffrey Sachs: Caspita, lo spero. Lo spero davvero. Spero che stiamo assistendo a qualche tensione.

Marc Lamont Hill: Intendo dire, Trump non lo ha incontrato durante il suo ultimo viaggio in Medio Oriente, il che sembra significativo. Alcuni hanno addirittura detto che si è trattato di uno sgarbo. Se fosse vero, cambierebbe qualcosa sul piano concreto della politica estera statunitense?

Jeffrey Sachs: Guardi, il presidente deve fare una cosa—fondamentalmente una cosa e una sola—e cioè smettere di porre il veto degli Stati Uniti allo Stato di Palestina. Perché, secondo il diritto internazionale, non esiste uno Stato di Palestina? Per una e una sola ragione: gli Stati Uniti pongono il veto. Perché l’ammissione alle Nazioni Unite passa dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Quando la questione è stata sollevata l’anno scorso, gli Stati Uniti sono stati l’unico paese a porre il veto. C’erano in realtà 12 voti a favore, due astensioni. Gli Stati Uniti hanno bloccato tutto. Quando la proposta arriva all’Assemblea Generale, dove ci sono 193 paesi, circa 185 votano sì.

E quando ho fatto il calcolo della popolazione di quei 185 paesi, rappresentano il 95% della popolazione mondiale che dice sì. Quindi, che Trump snobbi Netanyahu è una cosa. Che non gli piaccia è un’altra. Ma c’è una sola cosa concreta che conta: smettere di porre il veto all’adesione della Palestina alle Nazioni Unite.

E il punto che vorrei far capire al presidente Trump e al popolo americano è: questo sarebbe estremamente utile per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, perché porterebbe la pace in Medio Oriente. Il motivo per cui le guerre continuano è che non esiste uno Stato di Palestina. Questo porta alla resistenza. Questo porta a controguerre. Questo porta alle controguerre di Netanyahu o alle sue richieste che gli Stati Uniti invadano un altro paese, come ha fatto più volte.

Se vogliamo la pace—e la vogliamo—la via per la pace è uno Stato di Palestina accanto allo Stato di Israele. Punto. Ed è ciò che sostengono 185 paesi del mondo.

Marc Lamont Hill: Lei ha scritto del convincimento, radicato negli Stati Uniti, secondo cui è necessario dominare e dell’idea che, storicamente, gli Stati Uniti si siano considerati eccezionali. Nel suo libro sull’eccezionalismo americano, pubblicato durante la prima amministrazione Trump, ha avvertito che questa mentalità non è solo superata, ma anche pericolosa. Ci sono segnali che indicano un cambiamento nella percezione che gli Stati Uniti hanno di sé stessi?

Jeffrey Sachs: Sì, è una domanda molto interessante. Ci sono segnali incoraggianti. Il nostro Segretario di Stato, Marco Rubio, ha detto—e lo cito quasi testualmente—che ora viviamo in un mondo multipolare. Grazie, signor Segretario. È un’affermazione molto importante.

Il presidente Trump ha detto di riuscire a comprendere il punto di vista del presidente Putin—cioè che la NATO non dovrebbe espandersi in Ucraina. È un’affermazione molto positiva. È assolutamente un segnale incoraggiante.

Vorrei che riconoscesse la stessa cosa anche per quanto riguarda il Medio Oriente. Vorrei che il presidente riconoscesse la stessa cosa anche nei confronti della Cina. Vorrei che il presidente cercasse la pace con l’Iran, invece di seguire Bibi Netanyahu in qualche missione di bombardamento contro l’Iran.

Se queste cose dovessero accadere, sarebbe il riconoscimento che abbiamo dei limiti, che viviamo in un mondo multipolare, e che non possiamo uscirne a colpi di bombe.

Marc Lamont Hill: Jeffrey Sachs, grazie mille per essere stato con noi a UpFront.

Jeffrey Sachs: È stato davvero un piacere. Grazie.

[Traduzione di Alberto Piroddi]

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