L’illusione dell’imprevedibile. Guerra, strategia e narrazioni occidentali

L’attacco ucraino con droni è una mossa rischiosa, più propaganda che strategia, che ostacola i negoziati e rivela la subalternità dell’Europa.

di Alberto Piroddi

C’è qualcosa di seducente, perfino affascinante, nell’idea che un evento militare possa rovesciare, con un gesto ardito e sorprendente, l’intero equilibrio strategico di una guerra. È una tentazione antica, che affonda le radici tanto nella mitologia classica (il cavallo di Troia) quanto nella strategia napoleonica e nei manuali di guerra asimmetrica. Ma se ogni sorpresa deve molto all’arte del camuffamento, è proprio nell’uso disinvolto della narrazione, più che nella manovra militare, che si gioca oggi la vera battaglia. Una battaglia che si combatte non solo sul terreno dell’Ucraina orientale o nella profondità del territorio russo, ma soprattutto nei centri di elaborazione dell’opinione pubblica occidentale.

L’attacco massiccio con droni, sferrato dall’Ucraina contro installazioni strategiche russe a grande distanza dal fronte, è stato accolto in Europa e negli Stati Uniti come un gesto eclatante, astuto, perfino geniale. Un guizzo di strategia creativa in un contesto statico. Un colpo che – si dice – dimostra la resilienza e la capacità offensiva di Kiev, ribaltando l’inerzia della guerra. Eppure, quando si toglie la patina della sorpresa, restano sul campo solo alcune verità brutali: la guerra prosegue, l’Ucraina arretra, la Russia consolida, l’Europa osserva.

La domanda cruciale non è “come è stato possibile colpire così lontano”, bensì: “a chi giova questo gesto, e a quale prezzo?”. Perché se ogni azione bellica ha un costo — politico, strategico, umano — la sorpresa non lo azzera. Al contrario, lo amplifica. E quando questa azione avviene alla vigilia di un round negoziale potenzialmente decisivo, il sospetto che si tratti non di una mossa autonoma di Kiev, ma di una decisione calcolata a un livello superiore, si fa lecito. Forse addirittura obbligato.

Sappiamo che nessuna operazione militare del genere — uno sciame di oltre 100 droni che colpisce in simultanea più obiettivi nel cuore del territorio di una potenza nucleare — è possibile senza un supporto logistico, informativo e tecnologico che solo una grande alleanza può fornire. Significa immagini satellitari in tempo reale, triangolazione delle traiettorie, criptaggio e decriptaggio delle comunicazioni, neutralizzazione temporanea delle difese radar, e copertura diplomatica. Un arsenale invisibile, e proprio per questo più pericoloso di quello convenzionale.

La narrazione secondo cui questa sarebbe stata una brillante “mossa ucraina”, figlia dell’ingegno e dell’audacia, rientra nel repertorio delle favole consolatorie che l’Occidente ama raccontarsi da quando la guerra in Ucraina ha cominciato a uscire dai binari del racconto epico. C’è bisogno di un eroe. E se l’eroe fatica, bisogna dargli un colpo di mano, ma senza che si veda. Così nasce il mito dell’Ucraina high-tech, David armato di droni contro il Golia russo, anche se ormai i rapporti di forza — a livello territoriale, demografico, industriale — parlano una lingua diversa. Il risultato è una guerra sempre meno ucraina e sempre più interposta. Dove l’Ucraina diventa la piattaforma di lancio di una sfida più ampia, tra blocchi, tra modelli, tra orbite geopolitiche.

Dall’altro lato, la Russia non è più, da tempo, l’aggressore monolitico che pensavamo di conoscere nel febbraio 2022. Ha assorbito l’urto delle sanzioni, consolidato i propri legami energetici e strategici con la Cina e con il Sud globale, e ha gradualmente adattato la propria economia e la propria società a una condizione di guerra lunga. Non senza fratture interne, certo. Ma con un obiettivo chiarissimo: evitare che l’Ucraina si trasformi in una portaerei NATO piazzata alle porte di Mosca.

Ecco perché l’attacco ai bombardieri strategici — anche se parziale, anche se non ha inferto danni risolutivi — non può essere letto come un’azione simbolica, bensì come una provocazione sistemica. Un gesto che attacca il cuore della dottrina della deterrenza nucleare russa, basata sulla capacità di seconda risposta. In questo senso, è un’escalation. Non sul piano operativo — dove nulla cambia sostanzialmente — ma sul piano dottrinale. Colpire i velivoli della triade significa lanciare un messaggio: possiamo raggiungervi ovunque. Il problema è che la Russia, a quel messaggio, potrebbe rispondere con una nuova ridefinizione della propria soglia di reazione. E se quella soglia dovesse scendere, l’intera regione entrerebbe in una nuova fase.

Anche per questo, il gesto ucraino, o meglio, il gesto proveniente dal campo occidentale via Kiev, ha l’effetto collaterale — forse intenzionale — di bloccare ogni possibilità di negoziato. La delegazione russa a Istanbul non potrà più sedersi con la stessa disponibilità tattica. Mosca non potrà dimenticare. L’Occidente, da parte sua, ha nuovamente mostrato al mondo che ogni tavolo di trattativa può essere fatto saltare con un gesto ad effetto, che ribadisca il principio della forza sull’arte del compromesso. Non esattamente la via migliore per costruire una pace stabile.

A ciò si aggiunge un elemento poco discusso ma cruciale: la percezione del Sud globale. Se in Europa questo attacco viene letto come una prova di vitalità ucraina, nel resto del mondo viene visto — e non a torto — come un’ulteriore conferma dell’aggressività dell’Alleanza Atlantica e della sua volontà di logorare la Russia fino all’ultimo ucraino. Dal Brasile all’India, dal Sudafrica alla Malesia, le opinioni pubbliche e i governi osservano questo scenario come una partita per procura, dove l’Ucraina è solo il teatro. E l’esito è giudicato in base alla capacità delle potenze occidentali di contenere il conflitto. Se invece lo espandono, perdono la loro già debole credibilità.

L’illusione dell’effetto-sorpresa rischia quindi di rivelarsi un boomerang strategico. L’idea di colpire per sorprendere, per ristabilire una centralità narrativa, per scuotere l’opinione pubblica occidentale anestetizzata, è comprensibile — ma miope. Perché sposta l’attenzione dall’unico dato che conta davvero: il logoramento dell’Ucraina, il suo spopolamento, la sua economia a pezzi, la sua dipendenza crescente dai flussi occidentali, e la consapevolezza — mai detta ma ben presente nelle cancellerie — che una vittoria sul campo è sempre più improbabile.

Nel frattempo, l’Europa resta prigioniera della sua subalternità strategica. Accompagna, senza discutere, la linea statunitense, o peggio ancora quella britannica, sempre più incline al confronto diretto. Incapace di offrire una propria visione del futuro post-bellico, l’Unione Europea recita la parte dell’arbitro che applaude i pugni, ma che non sa indicare la via d’uscita dal ring.

Ecco allora che dietro il sipario dell’effetto-sorpresa, si nasconde la vera sorpresa: l’assenza di una strategia. La guerra continua. Il fronte si allarga. Il tempo lavora contro Kiev. Ma noi ci illudiamo che basti un drone a cambiare il corso della storia.

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