Come il potere disinnesca la politica

Il conflitto sociale viene frammentato e neutralizzato da false opposizioni simboliche che distraggono dai veri rapporti di potere economico e tecnologico.

di Alberto Piroddi

La politica, nel senso più profondo e meno addomesticato del termine, non è mai stata il regno della neutralità o della pura amministrazione di ciò che esiste, ma il terreno su cui emergono, si scontrano e si ridefiniscono i rapporti di forza, le gerarchie, le possibilità stesse di esistenza collettiva. Eppure, nell’attuale fase storica, siamo testimoni di una trasformazione tanto silenziosa quanto radicale: il conflitto, invece di essere affrontato nelle sue cause materiali, viene dirottato verso forme di opposizione frammentarie, superficiali, talvolta ridicole nella loro irrilevanza, e l’intero discorso pubblico viene saturato di tematiche che, pur apparendo urgenti, funzionano in realtà come valvole di sfogo, come meccanismi per esaurire la rabbia sociale in campi che non mettono mai in pericolo i veri centri di potere.

Ogni giorno, ci viene proposto un menu infinito di divisioni preconfezionate: giovani contro anziani, accusati di rubare il futuro alle nuove generazioni o di essere incapaci di comprendere il mondo digitale; donne contro uomini, spinti a una guerra permanente a colpi di statistiche sul femminicidio, campagne sui “soffitti di cristallo” e narrazioni che riducono l’intero genere maschile a un’entità colpevole a prescindere; bianchi contro neri, europei contro migranti, eterosessuali contro omosessuali. In ogni campo della vita sociale, dalle scuole ai social network, dalle campagne pubblicitarie ai dibattiti televisivi, viene riprodotto lo stesso schema: contrapposizioni elementari, emotivamente cariche, che permettono a chiunque di prendere posizione in modo immediato, di sentirsi parte in causa, di esprimere opinioni senza alcun bisogno di competenza, perché l’appartenenza biologica o sociale a una categoria è già considerata un titolo sufficiente per parlare.

Questa proliferazione di micro-conflitti non è il risultato di un fraintendimento, non è il frutto di un eccesso di sensibilità “progressista” o di un malinteso culturale. È una strategia lucida e deliberata. Alimentare continuamente fratture interne, nutrire diffidenze reciproche, spingere ogni gruppo a percepirsi come vittima e a individuare nell’altro il proprio nemico, serve a disperdere l’energia collettiva, a bruciare il potenziale politico in scontri che, pur accendendo discussioni infuocate, non sfiorano mai le strutture economiche e di potere reale. Mentre le persone si logorano discutendo di “microaggressioni” o di termini corretti per definire un gruppo, le decisioni che determinano il loro destino vengono prese in luoghi remoti, lontani da ogni sguardo, dove i veri rapporti di forza non sono mai messi in discussione.

In questo contesto, vale la pena tornare a una verità elementare: la politica non nasce dall’armonia, ma dal conflitto. Non è la tecnica per gestire un consenso già dato, ma il luogo in cui le differenze vengono riconosciute, affrontate, talvolta risolte, più spesso trasformate in nuove configurazioni di potere. Ogni collettività si costruisce attorno a un “noi” che, per definizione, implica un “loro”, un esterno percepito come minaccia, competizione, alterità. Questa divisione non è sempre consapevole, non è sempre dichiarata, ma opera a livello profondo, guidata da emozioni elementari come la vergogna e la paura.

La vergogna è l’emozione che regola i rapporti all’interno del gruppo. È ciò che ci impedisce di tradire la fiducia dei nostri simili, ciò che rende disonorevole l’inganno o la violenza contro chi consideriamo “uno di noi”. Si potrebbe dire che la vergogna crea la comunità, perché ci obbliga a riconoscerci reciprocamente come soggetti degni di rispetto. In una piccola comunità rurale, ad esempio, la vergogna può funzionare come deterrente molto più della legge: rubare una gallina al vicino non è solo un crimine, ma un disonore che ti esclude simbolicamente dal gruppo.

La paura, al contrario, è ciò che governa il rapporto con ciò che viene percepito come esterno, diverso, potenzialmente ostile. Dove la vergogna crea legame, la paura crea distanza. La paura è la logica che porta una città a blindarsi dietro telecamere di sorveglianza, che spinge un governo a invocare il pugno di ferro contro i migranti, che fa percepire l’altro non come interlocutore, ma come pericolo. Il potere gioca costantemente su queste due leve: mantiene coeso l’interno attraverso la vergogna, mentre rafforza i confini attraverso la paura.

Ma questo schema, antico quanto l’umanità, assume oggi una forma nuova e più insidiosa. Nelle società iperconnesse, dove ogni gesto, parola, scelta di consumo o opinione online lascia una traccia digitale, il potere ha imparato a sfruttare queste emozioni non solo per disciplinare i corpi, ma per orientare le menti, per anticipare e modulare i comportamenti. Non siamo più semplicemente cittadini che reagiscono a messaggi o a norme, siamo diventati generatori di dati, pezzi di un ingranaggio che raccoglie, analizza e utilizza le nostre esperienze più intime per prevedere e pilotare le nostre azioni future.

Un esempio banale ma eloquente: ogni volta che scorriamo un social network, credendo di agire liberamente, veniamo osservati da algoritmi che misurano la durata del nostro sguardo, i contenuti che ci fanno reagire, le emozioni che emergono da un “like” o da un commento impulsivo. Non si tratta di un archivio passivo, ma di un sistema che ci restituisce ciò che conferma i nostri pregiudizi, che alimenta i nostri rancori, che amplifica le polarizzazioni. Così, la divisione sociale non è solo il riflesso di conflitti preesistenti, ma il risultato di una progettazione intenzionale, di una ingegneria emotiva che ha lo scopo di renderci prevedibili e, di conseguenza, manipolabili.

Mentre litighiamo animatamente su questioni di linguaggio o di costume, mentre ci infervoriamo per l’ultima polemica identitaria, l’infrastruttura che governa le nostre vite – i sistemi bancari automatizzati, i mercati finanziari, le piattaforme tecnologiche – si consolida indisturbata, sottraendo spazi di decisione e potere reale agli individui e agli stessi Stati. Un esempio lampante è il modo in cui i meccanismi di credito e debito sono oggi controllati da algoritmi di scoring: una persona non è più valutata per ciò che è, ma per la somma di dati che la descrivono. Un click su un sito di e-commerce, una foto postata, un pagamento ritardato diventano variabili di un calcolo che decide chi sei e cosa puoi fare.

Tutto questo avviene senza che vi sia bisogno di un’autorità centrale che ordini o punisca. È una forma di potere molto più subdola, che non chiede obbedienza, ma ottiene collaborazione entusiasta. Pensiamo alle persone che condividono volontariamente ogni dettaglio della loro vita sui social, che discutono pubblicamente di preferenze politiche, intime o familiari, convinte di esprimere libertà e autenticità. In realtà, queste informazioni vengono usate per profilare, prevedere, vendere, orientare scelte future. L’apparente libertà diventa il carburante di una macchina che rende l’individuo sempre più trasparente e sempre meno libero.

A ciò si aggiunge un fenomeno ulteriore, che potremmo chiamare “neutralizzazione del dissenso”. Una protesta autentica, che miri a contestare rapporti di forza economici o politici, richiede tempo, competenza, visione collettiva. È faticosa, richiede organizzazione. Molto più semplice è partecipare alle “battaglie” preconfezionate che vengono offerte quotidianamente: indignarsi per un post, schierarsi per una campagna virale, firmare una petizione online. Tutte azioni che danno l’illusione di agire, ma che nella sostanza non modificano nulla. È un meccanismo perfetto: il sistema fornisce il palcoscenico per le nostre emozioni, ci permette di sentirci “attivi”, ma allo stesso tempo impedisce ogni contatto con il potere reale.

Si prenda l’esempio dell’istruzione. Mentre intere generazioni vengono educate a riconoscere “bias”, “microaggressioni”, “linguaggi inclusivi”, nessuno spiega loro come funzionano i trattati commerciali che determinano la chiusura di una fabbrica, o le politiche monetarie che condannano un Paese alla stagnazione. La scuola si riempie di una retorica moralistica che, anziché emancipare, infantilizza: insegna a indignarsi per le parole, ma non a capire i meccanismi della produzione e della distribuzione della ricchezza.

Questa riduzione della politica a spettacolo emotivo non è neutrale, non è priva di conseguenze. Distrugge la capacità di costruire alleanze sociali ampie, perché ogni gruppo viene spinto a vedere nell’altro non un possibile alleato, ma un nemico. Trasforma la sfera pubblica in una giungla di accuse reciproche, dove il vero avversario – il potere concentrato nelle mani di poche corporazioni finanziarie e tecnologiche – resta invisibile, protetto da una cortina di fumo fatta di chiacchiere infuocate su temi secondari.

C’è una via d’uscita da questo labirinto? Forse. Ma richiede un ribaltamento dello sguardo. Significa smettere di inseguire le polemiche di giornata e tornare a chiederci: chi controlla davvero le nostre vite? Da cosa dipende il nostro lavoro, la nostra sicurezza, la nostra libertà di parola? Significa riprendere in mano il concetto di potere come relazione concreta, fatta di risorse, di proprietà, di accesso ai mezzi di produzione, e non di semplici riconoscimenti simbolici.

Una società che voglia recuperare la propria forza politica deve ricostruire un “noi” che non sia fondato sulla contrapposizione sterile, ma sul riconoscimento di interessi comuni e di nemici reali. Non si tratta di negare le differenze, ma di capire che, se ognuno resta chiuso nel proprio recinto identitario, non ci sarà mai alcuna capacità di resistenza. Un esempio storico può essere utile: il movimento operaio del Novecento non ha vinto battaglie perché operai, donne, migranti o disoccupati lottavano ciascuno per conto proprio. Ha vinto quando ha compreso che la questione salariale, quella del tempo di lavoro, quella delle condizioni di vita erano un problema condiviso, che richiedeva una lotta unitaria.

Oggi una simile alleanza sembra quasi impensabile, perché siamo stati addestrati a vedere solo differenze, mai convergenze. Siamo stati trasformati in consumatori di identità, ognuno dei quali lotta per un riconoscimento immediato ma privo di effetti sul reale. Eppure, se guardiamo oltre il rumore mediatico, vediamo che i problemi fondamentali sono gli stessi: precarietà economica, impoverimento culturale, erosione della privacy, dipendenza tecnologica, concentrazione di ricchezza e potere. Tutte queste questioni richiedono un’azione collettiva che non può nascere dal conflitto tra categorie, ma dal rifiuto di lasciarsi dividere.

Il compito che abbiamo davanti, allora, non è piccolo. Si tratta di reimparare a pensare il potere non come un’entità astratta, ma come il risultato di scelte e di strutture che possono essere modificate. Si tratta di riconoscere che, dietro la cortina di fumo delle polemiche quotidiane, vi è una macchina che raccoglie i nostri dati, li trasforma in valore economico e li usa per modellare i nostri comportamenti, esattamente come un ingegnere plasma una materia grezza. E si tratta, soprattutto, di comprendere che la libertà non consiste nel poter gridare sui social la propria rabbia, ma nel sottrarsi a questa cattura, nel recuperare tempo, attenzione, capacità di analisi.

Una politica reale deve tornare a porre domande che oggi sembrano dimenticate: chi decide dove vanno le risorse? Chi stabilisce le priorità collettive? Chi ha il potere di trasformare il nostro lavoro, la nostra educazione, la nostra vita privata in merce? Finché continueremo a dividerci su linee artificiali, su conflitti di superficie, non ci sarà risposta a queste domande. E forse è proprio questo lo scopo del sistema: mantenerci occupati a combattere battaglie irrilevanti, mentre le decisioni vere vengono prese altrove.

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