Chi semina armi raccoglie macerie

Putin recita il copione scritto dall’Occidente, mentre l’Europa corre al riarmo e l’Ucraina scompare dalle mappe. Solo la pace può fermare la follia marziale.

di Alberto Piroddi

“Dovunque ci sia un soldato russo, è Russia.” A furia di sentirsi ripetere che è il cattivo della storia, Vladimir Putin finisce per crederci e agire di conseguenza. Le sue dichiarazioni, per quanto brutali, sono coerenti con la rappresentazione che l’Occidente ha costruito attorno alla figura del leader russo, offrendogli di fatto la giustificazione retorica per ogni atto compiuto in Ucraina. Nel frattempo, un ministro tedesco – uno qualsiasi, di quelli allineati alla nuova corsa al riarmo – può permettersi il lusso di replicare con apparente ragionevolezza che “Mosca è una minaccia per la nostra vita pacifica”, proprio mentre il suo governo prepara il più imponente piano di spesa militare dalla caduta del Muro. I fantasmi di una “Grande Germania” riemergono silenziosi, ma concreti, nel linguaggio dei bilanci e degli arsenali.

Occorre fermare questa guerra. Fermarla subito, con una pace che sia tale davvero – durevole, inclusiva, non imposta con la forza né con l’ossessione punitiva delle sanzioni. È il solo modo per evitare che dell’Ucraina non resti più nulla, nemmeno una traccia sulle carte geografiche. Chi continua a spingere per la prosecuzione del conflitto, in nome di una vittoria impossibile o di un principio astratto, non si rende conto che contribuisce alla distruzione di un’intera nazione. Anzi, di più: al collasso delle strutture stesse che dovrebbero garantire la nostra convivenza planetaria. Perché la guerra è sempre un veleno. Un agente inquinante che, appena liberato, travolge tutto ciò che trova: il diritto, la diplomazia, la politica, la verità. Quando una guerra scoppia, significa che la politica ha fallito. E se la politica fallisce, allora è compito di tutti – nessuno escluso – tentare di fermare l’emorragia, di contenere il danno, di ripristinare il primato della mediazione. Non esistono scorciatoie. Ogni giorno di guerra in più genera nuove tossine: ecologiche, sociali, economiche, umane. L’Ucraina ne è ormai intrisa.

Putin lo ha detto chiaramente: continua così, Zelensky, e dell’Ucraina non resterà che un simulacro. Il Paese sopravvive solo grazie agli aiuti umanitari occidentali, e anche questi iniziano a scarseggiare. Nel frattempo, Mosca ha lanciato un attacco di vastissime proporzioni, tecnologicamente sofisticato, colpendo in profondità il cuore logistico e industriale della resistenza ucraina. Bersagli principali: l’Ucraina occidentale e l’area del Mar Nero, con Leopoli trasformata nel centro nevralgico della retrovia militare ucraina.

La superiorità tecnica dimostrata da Mosca non può essere ignorata. Missili ipersonici, droni d’avanguardia, aerei invisibili ai radar. Putin ha deciso di colpire con precisione chirurgica le infrastrutture più strategiche, dando un segnale inequivocabile: questa guerra si vince sul campo, non davanti alle telecamere. Il contrasto con la retorica infiammata di Zelensky è sempre più marcato. L’uno parla poco e agisce molto. L’altro continua a invocare la salvezza attraverso le parole, mentre la realtà sul terreno lo smentisce giorno dopo giorno.

Nel frattempo, Donald Trump si è chiamato fuori. È da almeno due mesi che non invia un dollaro a Kiev. Si tiene lontano dal Dnepr come dalla peste, ma stringe invece un patto non scritto con Putin: tu mi aiuti a non far saltare in aria il Medio Oriente, io ti lascio fare in Ucraina. Il Cremlino, infatti, è stato decisivo nel contenere l’escalation tra Israele e Iran. Mosca ha evitato che l’ennesima follia americana si trasformasse in una disfatta strategica per Tel Aviv e per Washington. Trump lo sa. E paga volentieri quel prezzo: l’Ucraina in cambio della stabilità nel Golfo Persico.

Questa è la pista da seguire, se vogliamo comprendere i movimenti reali nel nuovo scacchiere globale. Un mondo in cui la Nato esiste ormai come gigantesco apparato economico-industriale e simbolico, più che come alleanza difensiva. Un mondo in cui il riarmo è diventato la nuova religione, con Ursula von der Leyen nelle vesti di somma sacerdotessa. Un mondo in cui le parole “pace” e “diplomazia” sono pronunciate solo per essere svuotate di ogni significato.

Nel frattempo, l’uscita di Kiev e dei Paesi baltici dagli accordi di Ottawa sulle mine antiuomo – dopo che anche Polonia e Finlandia avevano già stracciato la Convenzione – segna un altro passo verso l’abisso. L’abbandono delle regole più elementari della guerra – quelle che tentano almeno di limitare il numero delle vittime civili e di preservare una traccia di umanità nei conflitti – è l’indice di quanto siamo precipitati. Il messaggio è semplice e agghiacciante: se perdiamo, distruggiamo tutto. Avveleniamo i pozzi. Non vinceremo, ma vi porteremo con noi all’inferno.

La retorica militare ha ormai sostituito qualsiasi forma di razionalità politica. Gli Stati che si professano “civili” tornano a investire su ordigni che mutilano i bambini. I leader democratici si trasformano in fabbricanti di armi e produttori seriali di paura. La follia marziale, come l’ha definita qualcuno, non si limita più al fronte: è ormai una febbre che attraversa la nostra quotidianità, i nostri giornali, i nostri telegiornali, i nostri social network.

Ma non è un destino. È una scelta. Una scelta che possiamo ancora revocare, se troviamo il coraggio di tornare a credere nella politica – quella vera – e non nella sua parodia vestita da guerra giusta. Fermare la guerra significa tornare a credere che i conflitti si risolvono parlando, non bombardando. Che il nemico, chiunque sia, è prima di tutto un interlocutore. Che l’umanità non può sopravvivere nel secolo della tecnica e della bomba se non reimpara a costruire ponti invece che frontiere.

Bisogna ridare legittimità alla parola “pace”. Farla tornare ad abitare il vocabolario politico. Rifiutare l’idea che ogni resistenza sia eroica, ogni compromesso vile, ogni armistizio un tradimento. Bisogna spegnere il rombo delle armi per ascoltare di nuovo il silenzio della ragione. Perché quando anche la cartografia avrà dimenticato il nome dell’Ucraina, sarà troppo tardi per capire che un altro mondo era possibile. E che lo abbiamo perduto per sempre, per colpa della nostra follia marziale.

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