La democrazia secondo Alain De Benoist

Secondo il politologo francese Alain De Benoist la volontà verrebbe tradita dalla rappresentanza parlamentare. «L'esportazione dei "diritti dell'uomo" nasconde sempre degli scopi poco nobili»

L’incontro. Secondo il politologo francese la volontà verrebbe tradita dalla rappresentanza parlamentare

«L’esportazione dei “diritti dell’uomo” nasconde sempre degli scopi poco nobili»

di Alessandro Bedini

L’occasione si è presentata a Massimo D’Alema nel maggio scorso, la platea era quella della Fondazione italiani-europei di cui il leader diessino insieme con Giuliano Amato, è il fondatore. La tesi sostenuta dal presidente dei democratici di sinistra è stata scioccante per tutta la sinistra radicale e non solo: «La democrazia può espandersi anche con la forza», ha dichiarato D’Alema, «e la dottrina dei neocon americani, depurata dall’ideologia, non è tutta da buttare. Non solo, l’idea liberale di democrazia è senza dubbio la migliore», ha proseguito il presidente ds, «si deve solo potenziarne l’aspetto sociale guardando con maggior attenzione alle fasce più deboli della popolazione. Di questa tesi abbiamo parlato con Alain De Benoist, filosofo e politologo francese, autore di numerosi libri, tradotti anche in italiano, tra i quali Democrazia il problema, una riflessione profonda sul concetto di comunità e di partecipazione attraverso il sistema della democrazia organica, come egli stesso la definisce.

«Mi pare che Massimo D’Alema abbia una concezione piuttosto strana della democrazia», attacca De Benoist, «egli dimentica che la democrazia è il sistema che si fonda sulla sovranità del popolo e che a tale titolo è incompatibile con l’imposizione autoritaria di soluzioni politiche che il popolo non vuole. Quando una simile imposizione è non soltanto autoritaria, ma proviene addirittura dall’esterno del Paese e si accompagna al ricorso alla forza delle armi, essa diviene puramente e semplicemente sinonimo d’aggressione. D’Alema pensa senza dubbio che un’aggressione sia giustificata quando avviene per la “giusta causa”. Ciò equivale ad affermare che il fine giustifica i mezzi e questo è moralmente e politicamente inaccettabile, poiché vi sono dei mezzi i quali screditano il fine che pretendono di servire. Imporre la democrazia a un popolo non può che portare questo popolo a considerare la democrazia in quanto tale come una forma di aggressione. Il risultato è molto poco democratico».

Ci può fare qualche esempio?

Certamente. Lo vediamo tutti i giorni in Iraq, dove gli americani pretendevano portare la “democrazia” e la “libertà” e invece la dittatura di Saddam Hussein è stata semplicemente rimpiazzata dalla guerra civile e dal caos.

La democrazia non ha senso se non nella misura in cui risponde al sentimento e alla volontà del popolo. L’ultima volta che si è preteso di imporre la “democrazia” con le armi, è stato nell’epoca in cui l’Unione Sovietica invase e occupò l’Europa centrale e orientale per imporvi le “democrazie popolari”. Anche lì si è visto il risultato. D’Alema non si è ancora di fatto staccato da quel modello?

A proposito dei noecons, Michael Ingantieff sostiene che si può accettare l’esportazione forzata della democrazia se questa potrà portare a una maggiore libertà in futuro.

Si, conosco bene queste affermazioni. Secondo lui la tesi dei neoconservatori americani non è migliore di quella di Stalin. Ripropone la stessa ipocrisia. «Nel corso di tutta la loro storia gli americani non hanno smesso di pretendere che la loro sola ambizione fosse di “difendere la libertà”. In nome della difesa delle libertà hanno sostenuto le più abominevoli dittature (in Indonesia, in Cile, in Argentina, in Brasile etc.), fatto assassinare una moltitudine di capi di stato democraticamente eletti, che dispiacevano loro, e sparso su scala planetaria una ideologia mortifera che ha portato con sé dappertutto lo sradicamento delle specificità culturali e delle identità popolari. Questo modo di pensare è di fatto conforme all’ideologia liberale, che pretende anch’essa di avere il monopolio della “libertà”, ma che, storicamente, è andata di pari passo con l’espoliazione dei lavoratori, la legittimazione dell’imperialismo coloniale e la mercantilizzazione sistematica dei rapporti sociali.

L’esportazione della “democrazia” e dei “diritti dell’uomo” (si diceva in altri tempi: della “civilizzazione” e del “progresso”) nasconde regolarmente degli scopi molto meno nobili, che non si fondano tanto sui valori bensì sugli interessi.

È più o meno la stessa posizione di Massimo Fini contenuta nel suo ultimo libro Sudditi. Manifesto contro la democrazia.

È vero, osserva De Benoist, e aggiunge che gli Stati Uniti vogliono imporre la democrazia nei paesi ostili ai loro interessi, ma non si preoccupano di farlo con i loro alleati: se la prendono con l’Iraq ma non con i regimi dittatoriali per nulla democratici come l’Egitto, la Tunisia, o l’Arabia Saudita. Difendere un particolare modello al quale si vuole convertire l’intero pianeta col pretesto che esso è “universale” o conforme agli “interessi dell’umanità” è una tattica vecchia come il mondo, che non dovrebbe più creare illusioni in nessuno.

C’è dunque una volontà messianica alla base dell’ideologia liberale in chiave americana…

Senz’altro. Si tratta sempre di convertire, vale a dire di imporre agli altri di diventare altro rispetto a ciò che sono. «Chi parla di umanità vuole ingannarti» diceva giustamente Pierre-Joseph Proudon. Inoltre sappiamo molto bene che, nella maggior parte dei Paesi dove gli Stati Uniti pretendono di esportare la democrazia, a cominciare dai paesi arabo-mussulmani, delle elezioni veramente libere porterebbero al potere quei partiti che gli sono più ostili.

E questo secondo lei non verrebbe accettato dalla superpotenza.

Certo che no! Gli Stati Uniti pretendono di lottare contro l’islamismo, ma chi può credere che essi accetterebbero senza reagire di vedere gli islamisti giungere regolarmente al potere attraverso il risultato elettorale ? La loro attuale posizione verso l’Iran, dove il nuovo presidente è stato democraticamente eletto, è già rivelatrice. Questo è sufficiente a dubitare della sincerità di Michael Ignatieff e di coloro che sostengono le sue opinioni.

Quindi la democrazia liberale è un paravento, infatti lei parla di democrazia organica.

La democrazia non è un mercato Precisa subito il filosofo francese. Non si esporta come si esporta un prodotto commerciale. Essa non è possibile, come ho già detto, se non quando risponde alle aspirazioni del popolo. Quanto alle differenze tra la democrazia organica (che è poi la democrazia tout court) e la democrazia liberale, sono assai numerose.

Ce ne dica qualcuna.

Benissimo. La democrazia si fonda sulla nozione di eguaglianza politica dei cittadini, che possiedono dei diritti politici eguali in quanto essi sono egualmente cittadini, e non sulla nozione di libertà, che rivela un altro tipo di preoccupazione. Come ha ben dimostrato Carl Schmitt, la “democrazia liberale” non è che, da questo punto di vista, un ossimoro, una contraddizione in termini. Ma a mio avviso la principale differenza è la seguente.

La democrazia liberale è una democrazia parlamentare e rappresentativa, che si alimenta molto bene con l’apatia politica dei cittadini, da essa stessa incoraggiata. All’indomani di una tornata elettorale, come aveva ben osservato Rousseau, i cittadini vengono concretamente privati della sovranità a pro di una classe politica che, al giorno d’oggi, si riduce sempre di più a un’oligarchia finanziaria. La democrazia organica, al contrario, si definisce non per il solo ricorso tecnico al suffragio universale, e ancor meno come il regime che consacra il potere del numero, ma come il sistema che permette la più larga partecipazione dei cittadini alla vita pubblica.

Essa si fonda sul principio della sussidiarietà, che mira a regolare il massimo possibile dei problemi al livello più basso, offrendo così alla gente la possibilità di decidere da se stessi ciò che concerne loro. Si tratta di una procedura permanente, che si esercita a partire dal livello locale. È dunque al tempo stesso una democrazia diretta e una democrazia di base, fondata sul legame sociale.

L’Indipendente, 17 settembre 2005

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