Nella Summa Contra Gentiles, Tommaso d’Aquino sviluppa una trattazione metafisica e teologica articolata sul destino dell’anima dopo la morte, integrando la filosofia aristotelica con la dottrina cristiana. Scritto per affrontare sia sfide missionarie che intellettuali, l’opera afferma che il merito e la colpa risiedono nell’anima, non nel corpo, giustificando così una ricompensa o una punizione immediata dopo la morte, senza attendere la resurrezione dei corpi. Tuttavia, poiché l’anima deve essere perfettamente purificata per accedere alla visione beatifica, Tommaso afferma la necessità del purgatorio, fondandola sul sacramento della penitenza. Considera la resurrezione come una necessità metafisica, poiché l’anima è la forma del corpo, e insiste sul fatto che la felicità perfetta può avvenire solo quando corpo e anima sono riuniti. Il Giudizio Universale diventa una conferma del giudizio individuale che avviene alla morte, ma perde la sua centralità escatologica drammatica, poiché il destino dell’anima è in gran parte già deciso in precedenza. La distinzione attenta operata da Tommaso tra morte, stato intermedio e resurrezione riplasma l’escatologia medievale, ponendo l’accento sul purgatorio e sul sacramentalismo come elementi chiave del viaggio post-mortem dell’anima e rafforzando una nuova configurazione della speranza cristiana e della riflessione teologica.
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L’opera di Tommaso d’Aquino rappresenta una delle massime realizzazioni del nuovo approccio alla teologia. La sua Summa Contra Gentiles, scritta tra il 1258 e il 1263, era destinata ad assistere i cristiani nel confronto con l’Islam, sia come sfida missionaria in Spagna, sia – attraverso i commentatori islamici di Aristotele – come sfida intellettuale a Parigi e in altre università.1 La Summa Theologiae, più nota, fu lasciata incompiuta alla sua morte, e i suoi articoli escatologici furono completati successivamente dai discepoli; pertanto, la Contra Gentiles costituisce il trattamento più completo disponibile sull’argomento.
Il seguente passaggio, che affronta il destino dell’anima immediatamente dopo la separazione dal corpo, offre un’indicazione del tono generale dell’opera di Tommaso:
«Vi è… nell’ordine della colpa e del merito un’armonia con l’ordine della punizione e della ricompensa. Ma il merito e la colpa si riferiscono al corpo solo tramite l’anima, poiché in senso essenziale non vi è merito né demerito se non nella misura in cui una cosa è volontaria. Pertanto, sia la ricompensa che la punizione fluiscono giustamente dall’anima al corpo, ma non appartengono all’anima a causa del corpo. Non vi è, dunque, alcuna ragione, nell’infliggere la punizione o nell’elargire la ricompensa, per cui le anime debbano attendere di riprendere i loro corpi; anzi, sembra più opportuno che, avendo le anime avuto la priorità nella colpa o nel merito, abbiano anche la priorità nell’essere punite o ricompensate. …
Tuttavia, bisogna considerare che, nel caso dei buoni, può esserci un ostacolo che impedisce alle anime di ricevere subito la loro ricompensa ultima, che consiste nella visione di Dio, immediatamente dopo la loro separazione dal corpo. A quella visione nessuna creatura razionale può essere elevata se non è completamente e totalmente purificata, poiché essa supera l’intero ambito delle capacità naturali della creatura. … Ma, a causa del peccato, l’anima è impura nella sua unione disordinata con le realtà inferiori. Certamente, l’anima viene purificata da questa impurità in questa vita attraverso la penitenza e gli altri sacramenti, come detto sopra, ma accade talvolta che tale purificazione non sia del tutto compiuta in questa vita; resta un debito di pena, sia per negligenza, sia per le occupazioni, sia anche perché l’uomo è colto dalla morte. Tuttavia, non è completamente escluso dalla sua ricompensa, perché tali cose possono avvenire senza peccato mortale, il solo che priva della carità alla quale è dovuta la ricompensa della vita eterna. … Devono quindi essere purgati dopo questa vita prima di ottenere la ricompensa finale. Questa purificazione, naturalmente, avviene mediante punizioni, così come in questa vita la loro purificazione sarebbe stata completata tramite punizioni che soddisfano il debito; altrimenti, i negligenti sarebbero in una condizione migliore rispetto ai solleciti, se le pene che non scontano per i loro peccati in questa vita non dovessero essere patite in futuro. Pertanto, se le anime dei buoni hanno qualcosa che può essere purificato in questo mondo, esse sono trattenute dal conseguimento della ricompensa mentre subiscono le pene purificatrici. E questa è la ragione per cui riteniamo che vi sia un purgatorio.»²
La prima caratteristica che distingue l’opera di Tommaso da quella dei teologi altomedievali è il suo profondo interesse per la dottrina dell’anima intesa come problema metafisico. In effetti, la questione dell’anima fu uno dei principali temi di dibattito nel XIII secolo. Tommaso, lavorando su base aristotelica, sviluppò una dottrina secondo cui «l’anima, in quanto forma pura, attualizza il corpo come sua materia», e che l’anima intellettiva contiene in sé in grado eminente tutte le perfezioni delle anime sensitiva e vegetativa, che essa soppianta nell’embrione umano al momento della sua creazione.»³
In un contesto metafisico simile a quello in cui sviluppa la dottrina della Transustanziazione, Tommaso affronta in modo approfondito le questioni del rapporto tra anima e corpo dopo la morte e dello stato intermedio tra morte e resurrezione. Accetta l’immortalità come principio fondamentale della fede cristiana; ma, diversamente dai teologi altomedievali, è consapevole delle problematiche filosofiche che ne derivano e le tratta con sensibilità e ampiezza.
Come è evidente dal trattamento del destino dell’anima dopo la morte nella Contra Gentiles, anche le questioni teologiche sono profondamente coinvolte. Il tema dell’escatologia è trattato nel Libro IV, che si occupa della salvezza. Tommaso crede che la salvezza avvenga per sola grazia. Così, affronta le dottrine su Cristo, lo Spirito Santo e la Trinità come luoghi in cui si manifesta l’attività salvifica o gratuita di Dio verso gli uomini, e si rivolge ai sacramenti,⁴ che considera come «strumenti… di un Dio che si è fatto carne e ha sofferto», come «cose visibili» che «realizzano una salvezza spirituale».⁷ Alla fine, tratta delle Cose Ultime, cioè il compimento dell’opera della salvezza.⁵
L’organizzazione di questi ultimi capitoli appare, a prima vista, curiosa: infatti, Tommaso affronta subito la resurrezione dei morti – il grande scandalo per i “Gentili” – con le obiezioni ad essa e con la natura del corpo che deve risorgere. Poiché Cristo è morto per «la remissione dei peccati…, i sacramenti operano nella potenza di Cristo». Allo stesso modo, poiché Cristo è risorto per attuare «la nostra liberazione dalla morte», l’umanità sarà risorta alla fine della storia.⁶ Questa resurrezione, concepita metafisicamente, è necessaria poiché l’anima «è la forma del corpo» e «è… contrario alla natura dell’anima essere senza corpo».⁷ La resurrezione è necessaria anche alla luce del «desiderio naturale dell’uomo di tendere alla felicità». Poiché la felicità perfetta è impossibile in questo mondo e impossibile anche per l’anima separata (poiché in quello stato è imperfetta), la felicità perfetta deve attendere uno stato futuro in cui anima e corpo saranno riuniti.⁸ Lo stesso si può dire alla luce della necessità che gli uomini siano puniti per i loro peccati: la punizione ultima, come la ricompensa ultima, richiede la riunione di anima e corpo.9 Nell’uomo risorto e glorificato, o dannato, l’uomo sarà immortale, animale e incorruttibile.10 L’effetto del trattamento tommasiano della resurrezione è quello di rendere assolutamente chiaro che egli prende molto sul serio i testi biblici su cui essa si fonda, e intende interpretarli in un contesto metafisico chiaro e logico. Si preoccupa anche di rafforzare le nozioni bibliche secondo cui il sacrificio di Cristo è un atto della giustizia divina e che, senza la grazia, l’uomo non può essere salvato.
Anche queste ultime considerazioni motivano il trattamento del destino dell’anima tra la morte e la resurrezione. La punizione e la ricompensa sono parte essenziale della giustizia divina, afferma Tommaso nel passaggio citato sopra. Un ulteriore elemento sostiene questa conclusione: l’anima, in quanto elemento razionale dell’uomo, può avere una visione del divino una volta separata dal corpo corruttibile; e, poiché tale visione è “la beatitudine ultima dell’uomo, che è la ‘ricompensa della virtù’”, la punizione o la ricompensa spettano ineluttabilmente all’anima immediatamente dopo la sua separazione dal corpo.11
Ma l’anima che deve essere infine ricompensata dev’essere “completamente purificata”. Il purgatorio, in altre parole, è reso necessario nel sistema tomista dalla comprensione sacramentale della penitenza. Nel sacramento della penitenza, il ministro agisce per Cristo come giudice del peccatore pentito per i peccati commessi dopo il battesimo e impone al penitente un obbligo o una “soddisfazione”. “Attraverso ciò l’uomo viene completamente liberato dalla colpa della pena quando sconta la punizione che doveva.”12 Come ulteriore giustificazione della dottrina del purgatorio, Tommaso cita l’usanza della Chiesa di pregare per i defunti,13 ma si ha l’impressione che questo argomento sia tradizionale e non abbia per lui l’importanza che aveva per i Padri latini.
Dopo un passaggio in cui accresce l’interesse per lo stato dell’anima sostenendo che le volontà delle anime separate dal corpo sono immutabili,14 Tommaso considera infine il Giudizio Universale. Vi è, egli dichiara, “una duplice retribuzione per ciò che l’uomo fa in vita”: una avviene per l’anima immediatamente dopo la separazione dal corpo, e l’altra avrà luogo quando l’anima sarà riunita al corpo. Vi è un giudizio individuale alla morte, e un giudizio generale alla fine.15 Metafisicamente, poiché l’anima è forma del corpo e incompleta senza il corpo, il Giudizio Universale è necessario. Praticamente parlando, l’Apocalisse è solo la ratifica del giudizio dell’anima nell’ora della morte.16
Così, Tommaso d’Aquino prende molto seriamente la dottrina biblica della resurrezione dei morti e, al tempo stesso, integra quell’elemento dell’insegnamento della Chiesa con l’immortalità dell’anima in modo metafisicamente più soddisfacente persino rispetto ai grandi Padri greci. Ma proprio questo successo è uno dei segni di una profonda trasformazione dell’accento teologico. Tommaso e i suoi contemporanei non erano disposti a lasciare senza risposta – o semplicemente come mistero – la questione del destino dell’anima tra la morte e la resurrezione. Si sentivano spinti a domandarsi che cosa significasse l’immortalità nello schema cristiano. La loro risposta fu che l’anima viene giudicata al momento della sua separazione dal corpo e entra immediatamente nella sua ricompensa o punizione. Non si trattava propriamente di una risposta nuova; essa era già stata implicata dai Padri e formulata dai teologi altomedievali. Ma fu portata alle sue estreme conseguenze logiche e dotata, nell’Alto Medioevo, di una nuova forza e coerenza. Il Giudizio Universale diviene la ratifica del giudizio individuale. Rappresenta il compimento della salvezza e il fine della storia, ma ha perso la sua forza come centro della riflessione escatologica e come elemento primario nella spiegazione del significato della morte.
La stessa organizzazione del trattamento tomista, nella parte finale della Summa Contra Gentiles, dimostra questo fenomeno. La dimostrazione convincente ed estesa, di natura metafisica, della necessità della resurrezione – fondata sulla nozione che l’anima è forma del corpo – è seguita da una discussione sul destino dell’anima prima della resurrezione. L’interesse del lettore per questo tema è stato stimolato dal ruolo centrale che le dottrine dell’anima e dell’immortalità hanno nei libri precedenti della Summa e nell’intero corpus tomista. L’attenzione di Tommaso per questo aspetto della storia dell’individuo finisce così per ridimensionare la sua attenzione per l’esito finale della storia dell’umanità. E i due brevi capitoli conclusivi sul Giudizio Universale non riescono a ristabilire l’interesse del lettore per tale evento. Esso è, in effetti, il compimento; ma, poiché le anime dei salvati per grazia di Dio hanno già conseguito la visione beatifica, la venuta della fine ha perso la sua urgenza e il suo posto come evento al quale anela l’intera creazione.
Il crescente rilievo del purgatorio in questo schema non fa che intensificare tale sviluppo. Se la salvezza è per grazia, e se i sacramenti sono i principali veicoli della grazia, allora la soddisfazione o punizione imposta dopo il giudizio sacerdotale e l’assoluzione diventa un elemento vitale. Coloro che non sono stati purificati in vita non devono essere destinati alla punizione eterna, ma devono, nel loro stato disincarnato, poter completare la loro soddisfazione. Al tempo di Ælfric, benché il sacramento della penitenza fosse certamente in via di affermazione, non aveva ancora raggiunto una forma pienamente articolata.17 Nel XIII secolo, invece, la penitenza era un elemento fondamentale nella comprensione della giustizia e della misericordia di Dio. Così, il purgatorio – come stato in cui Dio, per grazia, permette all’anima di completare la sua purificazione – divenne sempre più importante; e si rafforzò la tendenza a considerare l’esistenza dell’anima nello stato intermedio dopo la morte come un’esistenza attiva. Il sacramentalismo e il nuovo interesse per le questioni filosofiche concernenti l’anima diedero origine a una configurazione completamente nuova delle attese escatologiche.
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NOTE
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M. D. Chenu, Toward Understanding Saint Thomas, trad. con correzioni autorizzate e aggiunte bibliografiche a cura di A. M. Landry e D. Hughes (Chicago: Henry Regnery, 1964), pp. 289–292.
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Summa Contra Gentiles IV. 91.4, 6. Traduzione citata da On the Truth of the Catholic Faith: Summa Contra Gentiles, trad. A. C. Pegis (Libro I), J. F. Anderson (Libro II), V. J. Bourke (Libro III) e C. J. O’Neil (Libro IV) (Image Books, D26–D29; Garden City: Doubleday, 1955–1957). Usato con permesso.
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Knowles, Evolution of Medieval Thought, p. 295; vedi anche pp. 291–296. Per Aristotele, l’anima è la forma del corpo, e vi è meno enfasi sulla possibilità della sua esistenza indipendente rispetto a quanto avviene in Platone.
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Contra Gentiles IV. 56.7.
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Ibid., IV. 79–97.
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Ibid., IV. 79.3–4.
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Ibid., IV. 79.10. Queste affermazioni sono esplicitamente collegate alla dimostrazione filosofica dell’immortalità nel Libro III.
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Ibid., IV. 79.11.
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Ibid., IV. 79.12.
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Ibid., IV. 82, 84–85.
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Ibid., IV. 91.2. Vedi anche III. 51.
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Ibid., IV. 72.14.
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Ibid., IV. 91.7.
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Ibid., IV. 92–95.
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Ibid., IV. 96.1.
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I discepoli di Tommaso che completarono la Summa Theologiae (IIIa, Supplementum, Q. 88.2) si avvicinano maggiormente a questa posizione rispetto allo stesso Tommaso.
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Vedi John T. McNeill, A History of the Cure of Souls (Harper Torchbooks, TB 126; New York: Harpers, 1965), cap. VI, passim.
FONTE: Milton McC. Gatch, Death. Meaning and mortality in Christian thought and contemporary culture, The Seabury Press, New York, 1969; pp. 96–102.