di Donald Levy
Per chiunque voglia riflettere filosoficamente sull’amore, l’unico modo per cominciare è considerare i problemi sollevati per la prima volta nel Simposio di Platone. Il dialogo è originale almeno sotto due aspetti: innanzitutto, mette a nudo i presupposti della morale sessuale greca sottoponendoli al tipo di esame critico tipico di Socrate — non esiste nulla di simile, prodotto da altri, prima di allora. Inoltre, la nuova teoria dell’amore e il nuovo ideale che si sviluppano nel discorso di Diotima rappresentano un’innovazione altrettanto originale da parte di Platone rispetto alla filosofia socratica.
Il dialogo riporta la brillante conversazione tenuta durante un banchetto a cui partecipa anche Socrate. Coloro che parlano prima di lui condividono principalmente ciò che Jeffrey Henderson definisce come la tipica tendenza greca a glorificare l’istinto sessuale piuttosto che gli oggetti particolari del desiderio (in The Maculate Muse, [New Haven, 1975], p. 205). Per loro, l’amore (eros) è un dio, la cui bellezza e bontà cercano di celebrare con lodi sempre più accese. Anche Pausania, che si premura di distinguere l’amore nobile da quello volgare, sostiene che “è sempre onorevole acconsentire a un amante per raggiungere l’eccellenza” (185b) — anche se l’amante dovesse rivelarsi malvagio, il giovane ingannato ne trarrebbe comunque merito! È contro questa credenza quasi universalmente accettata nel valore intrinseco dell’amore sessuale che Socrate si schiera fin dall’inizio; egli afferma che l’amore non è né bello né buono (senza però voler dire che sia brutto o cattivo). L’amore non può essere bello perché è desiderio di possedere ciò che è bello, e — argomenta Socrate — non si può desiderare ciò che già si possiede. L’amore, in sé, non è nulla di buono, ma solo un mezzo per raggiungere cose che sono buone in sé; questo viene ribadito anche alla fine del racconto di Socrate sul discorso di Diotima, quando egli afferma che “la natura umana non può trovare aiuto migliore dell’amore” (212b). Neppure l’amore stesso che Socrate nutre per il mettere alla prova le opinioni altrui è esente da questa nuova valutazione; così come Socrate aveva sorpreso Agatone sostenendo che l’amore non è bello, allo stesso modo Diotima spiazza Socrate con l’idea che “l’oggetto dell’amore è generare e partorire in presenza della bellezza” (206e). Non basta, sembra dire Diotima, che il filosofo, amante del sapere, si limiti ad assistere alla nascita delle idee negli altri, facendo da levatrice, pur essendo sterile (come Socrate spesso descriveva se stesso), esaminando le idee appena nate per verificarne la solidità. Tali attività non hanno valore intrinseco; valgono solo se conducono il filosofo a generare idee proprie. Il vero amante della sapienza deve concepire egli stesso.
Il nuovo resoconto dell’amore introdotto nella parte finale del discorso di Diotima è, secondo lei, qualcosa che Socrate potrebbe non riuscire a comprendere. Questo sembra essere il modo in cui Platone segnala il cambiamento radicale che segue rispetto al precedente e più semplice tentativo socratico di definire l’amore identificando l’elemento comune a tutti i tipi di amore, senza distinguere tra valori diversi (202d–209e). Ora, invece, i vari tipi di amore vengono ordinati gerarchicamente, e uno è considerato superiore all’altro perché ha come oggetto qualcosa di intrinsecamente migliore. Inoltre, questa gerarchia degli oggetti d’amore implica un’altra idea non socratica: esiste un oggetto ultimo dell’amore, verso cui tutti gli altri devono tendere per poter essere davvero oggetti d’amore. Per coloro che cercano di comprendere l’amore, questa bellezza assoluta, esistente a sé e per sé, è la meta finale di tutti gli sforzi precedenti. Per arrivare alla visione della bellezza assoluta, bisogna passare dall’amore per la bellezza fisica di un individuo all’amore per tutta la bellezza fisica; poi, l’amore per la bellezza dell’anima conduce alla consapevolezza della bellezza nelle attività, nelle istituzioni e nelle scienze. Dopo aver contemplato tutte queste forme di bellezza, si sarà guidati verso la scienza il cui oggetto è la bellezza assoluta.
Questa teoria dell’amore, secondo Gregory Vlastos, presenta almeno due difetti. Il suo saggio “The Individual as Object of Love in Plato” (in Platonic Studies, [Princeton, 1973]) è il contributo più importante alla discussione recente sulle idee di Platone. Secondo Vlastos, i difetti nella concezione platonica dell’amore emergono se la si confronta con la definizione che egli accetta e che adotta da Aristotele: “Amare è desiderare cose buone per qualcuno per il bene di quella persona.” La prima obiezione di Vlastos è che, dato che Platone ha già definito l’amore come il desiderio di possedere per sé ciò che è bello, la sua idea di amore, per quanto spiritualizzata, resta fondamentalmente egocentrica (ibid., p. 30). In secondo luogo, Platone non riconosce che l’amore ha come oggetto primario e fondamentale le persone; per lui, l’amore per le persone è posto molto al di sotto dell’amore per un’entità astratta, la bellezza assoluta. “Ciò che dobbiamo amare nelle persone è ‘l’immagine’ dell’Idea che esse portano in sé” (ibid., p. 31). In una nota, Vlastos aggiunge: “Questo è tutto ciò che l’amore per una persona può essere, data la condizione ontologica delle persone nella visione platonica.”
Dobbiamo amare le persone solo finché, e solo nella misura in cui, esse sono buone e belle… l’individuo… non sarà mai l’oggetto del nostro amore secondo la teoria platonica… [che] non prevede l’amore per le persone nella loro interezza, ma solo per quella versione astratta delle persone che consiste nell’insieme delle loro qualità migliori. (Platonic Studies, p. 31)
Così, per Platone, l’affetto verso esseri umani concreti è un “amore minore”, come lo riassume Vlastos (ibid., p. 32), da usare come “gradino” (211c) verso il raggiungimento della bellezza assoluta. Vlastos conclude la sua critica notando la frequenza enfatica di questa idea (ibid., p. 32).
Senza cercare di confutare tutto il ventaglio di prove che Vlastos presenta, basta osservare, in risposta alla prima obiezione, che la definizione di amore proposta da Vlastos, rispetto alla quale trova difettosa quella di Platone, sembra più una definizione di ciò che l’amore dovrebbe essere, piuttosto che di ciò che è. Esistono esempi piuttosto chiari di amore che non rispettano sempre gli ideali morali: l’amore tra genitori e figli — spesso trascurato, egoista, confuso, lento a svilupparsi — ne è un esempio. È quindi probabilmente errato, nel definire l’amore, porre come condizione necessaria il desiderare il bene dell’altro per il bene dell’altro stesso. Almeno in certi casi, quando amiamo, potremmo cercare il bene altrui per noi stessi, come riconosce anche Aristotele (Etica Nicomachea, libro VIII, cap. 1); e bisogna considerare anche la possibilità che talvolta non si cerchi affatto il bene dell’altro — madri soffocanti, mariti gelosi fino alla violenza sono esempi evidenti. (Questo tema è trattato in dettaglio in Love for the Mother and Mother Love di Alice Balint, in Primary Love and Psycho-analytic Technique di Michael Balint, [New York, 1965]). Se si accettano questi esempi, la definizione di amore di Vlastos non enuncia una condizione necessaria per l’amore. Accettare la sua definizione impedirebbe di distinguere tra chi ama bene e chi è un autentico esempio di amante.
La definizione di Vlastos non enuncia nemmeno una condizione sufficiente per l’amore, poiché vi sono casi in cui una persona desidera il bene degli altri per il bene degli altri (cioè perché ne hanno bisogno o lo meritano) senza che l’amore ne sia la motivazione, e può anche essere del tutto assente. Infermieri, pompieri, insegnanti si prendono cura degli altri, cercano il loro bene, anche senza amarli affatto. È possibile, come sostiene Diotima, che l’amore ci motivi ogni volta che raggiungiamo qualcosa di buono; l’infermiere, il pompiere, l’insegnante potrebbero amare la scienza, l’arte, l’abilità a cui sono devoti. Ma anche concedendo questo punto, la distanza tra la teoria di Platone e il requisito stabilito da Vlastos rimane ampia.
Mi sono limitato ad argomentare qui che la definizione di Vlastos è difettosa¹; ma anche se fosse accettata, la sua conclusione che l’idea platonica dell’amore è egocentrica non segue automaticamente. Perché il suo argomento funzioni, Vlastos deve dimostrare che il desiderare per sé il possesso del bello non consiste mai nel desiderare cose buone per qualcuno per il bene di quella persona; deve cioè dimostrare che il primo non può mai coincidere con il secondo. Ma supponiamo che ciò che si desidera possedere sia il bene (cfr. Simposio, 204e). Supponiamo inoltre che, in certi casi, il bene desiderato sia la virtù. In almeno alcuni casi, desiderare di possedere la virtù per sé coincide con il desiderare cose buone per qualcuno per il bene di quella persona. Non sarebbe corretto dire che desiderare cose buone per un altro sia semplicemente un mezzo per acquisire virtù per sé; il bene che si cerca di possedere è essere causa di ciò che è buono per un’altra persona per il bene di quella persona stessa.²
La seconda obiezione di Vlastos è in realtà triplice — (1) Platone pone l’amore per le persone ben al di sotto di quello per altre cose come la bellezza assoluta. Secondo Vlastos, Platone lo fa perché (2) considera impossibile amare gli individui in quanto tali — si possono amare solo le loro qualità migliori; e in parte perché (3) comprende l’amore per le persone semplicemente come amore per la bellezza assoluta attraverso le persone. L’individuo che amiamo è solo uno strumento, un’immagine della bellezza.
Bisogna notare, in risposta al punto (3), che Diotima parla in un certo senso dell’uso di oggetti particolari d’affetto — come le persone — per acquisire conoscenza della bellezza assoluta; ma l’uso che se ne fa è quello di esempi, istanze della bellezza, come suggerisce la traduzione interpretativa di W. Hamilton (210d e 211c). Se usiamo una persona in questo modo, non ne consegue che non possiamo davvero amarla — non più di quanto l’uso di Thomas Jefferson come esempio di grande presidente implichi che non lo ammiriamo realmente. Anzi, usare una persona in quel modo implica che la ammiriamo o amiamo davvero, o, nel caso di Platone, che la consideriamo una vera incarnazione della bellezza.
Inoltre, quando Diotima parla dell’uso di esempi di bellezza, si sta riferendo a coloro che cercano di essere iniziati ai misteri dell’amore, che vogliono scoprire cos’è davvero l’amore. Per questo, bisogna comprendere la bellezza assoluta, e per farlo occorre usare gli oggetti del proprio amore come esempi, immagini della bellezza assoluta. Nel dire queste cose, Diotima sembra pensare a un processo immaginativo ben preciso — che le persone possono intraprendere senza dover trattare gli oggetti del proprio affetto solo come esempi di qualcos’altro. Certamente, si può intraprendere tale attività senza credere che tutto ciò che si fa amando sia usare gli altri come esempi, o che dovremmo trattarli solo così. Il consiglio di Diotima implica che se e quando si vuole comprendere i misteri dell’amore, si debba procedere pensando agli oggetti belli ai quali siamo legati come a esempi di bellezza assoluta, che ci guidano oltre. Ma non tutti sono sempre impegnati in questo, e quando non lo sono, sarebbe assurdo trattare gli altri solo come esempi. Non appare corretto attribuire a Platone la convinzione che non si possano amare le persone, o che si possano amare solo strumentalmente, o che si debba amarle solo così. Diotima afferma: “Soprattutto in questa regione… l’uomo dovrebbe trascorrere la vita, nella contemplazione della bellezza assoluta” (211b); ma quella regione non è l’unica in cui si possa vivere — né l’unica in cui si dovrebbe vivere; tra tutte le regioni dove la vita può essere spesa, essa è la più alta, dice Diotima — il che implica che ne esistono altre.
Se le obiezioni di Vlastos non rivelano difetti fondamentali nella teoria platonica, come ho cercato di dimostrare, ciò non significa che essa sia priva di problemi. Il vero problema potrebbe essere, non come pensava Vlastos, che Platone ponga l’amore per le persone al di sotto di altri tipi di amore, ma piuttosto che l’amore in sé, a prescindere dal suo oggetto, non abbia alcun valore intrinseco per Platone, e perciò risulti inferiore alle cose che invece lo possiedono. Il valore dell’amore dipende interamente dalla qualità dell’oggetto, come Socrate aveva sottolineato fin dall’inizio del suo discorso; l’amore è al massimo un grande aiuto per la natura umana — ma niente di più.
L’incongruenza di ciò non può essere ignorata, per quanto la logica dell’argomento possa apparire valida; la conoscenza, la virtù, la bellezza sembrano cose intrinsecamente superiori all’amore che nutriamo per esse. Esse sono intrinsecamente buone, mentre il nostro amore per esse sembra essere buono solo nella misura in cui ci aiuta a ottenerle. Per quanto plausibile e penetrante possa sembrare questa idea, è comunque naturale protestare che una vita priva d’amore sarebbe priva di valore, e che dunque l’amore stesso deve possedere un grande valore intrinseco. Forse Pausania non aveva tutti i torti nel giudicare positivamente l’amante ingannato.
Ma sarebbe un errore supporre che l’unica alternativa alla concezione platonica dell’amore come valore strumentale sia la tipica visione greca contro cui Socrate si era scagliato. Quella visione attribuiva valore all’amore — ma solo in quanto fonte di piacere e di eccellenza. Non esiste forse un valore intrinseco dell’amore superiore al semplice piacere? Una soluzione possibile sarebbe sostenere che il valore intrinseco dell’amore risiede nel fatto che esso è costitutivo dell’anima; cioè, affermare che l’amore è l’attività fondamentale (o una delle attività fondamentali) che tutte le anime svolgono necessariamente sempre, qualunque altra cosa stiano facendo. In tal caso, il valore dell’amore sarebbe garantito dal valore stesso dell’anima. Questa tesi non appartiene certamente all’elogio dell’amore pronunciato da Pausania, né agli elogi degli altri oratori nel Simposio prima di Socrate. Una visione dell’amore come costitutivo dell’anima potrebbe sembrare quella espressa da Diotima (205a; 205c), quando afferma:
“Ora, credi che questo desiderio [del bene] e questo amore siano caratteri comuni a tutti gli uomini, e che tutti desiderino perpetuamente possedere il bene, o no?” (205a)
Ma la risposta di Socrate lascia incerto se egli accetti tutta questa visione: “Proprio questo intendo; sono comuni a tutti gli uomini.” Diotima aveva formulato due affermazioni distinte, e Socrate sembra assentire solo alla più debole: che tutti gli uomini amano, almeno qualche volta, potremmo aggiungere. Questa idea è associata alla tesi secondo cui ogni uomo ha una passione dominante — l’amore per il denaro, per la forza fisica, per la sapienza — che sono tutte espressioni del desiderio del bene e della felicità, secondo Diotima (205d). Tale visione richiede che (a) tutti gli uomini amino almeno a volte, e (b) ciascuno ami qualcosa più di ogni altra cosa. È compatibile con queste condizioni che gran parte delle azioni umane non siano affatto motivate dall’amore. Occorre distinguere questa tesi da quella più forte, secondo cui tutte le azioni umane sono motivate dall’amore, e da quella ancora più forte secondo cui l’amore è l’attività essenziale dell’anima. Queste tre affermazioni non sono equivalenti, e Platone non accetta l’ultima. Lo sappiamo dal Fedro, dove l’attività essenziale dell’anima è definita come movimento eterno, movimento da sé (245e), di cui l’amore è forse un riflesso. Certo, l’amore è “il massimo beneficio che il cielo ci può concedere” (245b) — ma non è costitutivo dell’anima.³ Anzi, il fatto che l’amore sia descritto come una forma di follia conferita dall’esterno implica che possiamo esistere anche senza di esso.⁴
Una completa risoluzione dei dubbi platonici sul ruolo dell’amore nell’anima dovrebbe affrontare e rispondere alla sua concezione delle emozioni (e quindi dell’amore) come estranee all’intelletto, “la parte migliore dell’anima” (Fedro, 248b). Parte della risposta potrebbe attingere anche a elementi della sua teoria della conoscenza come reminiscenza. Cioè, se vi fosse qualcosa che, per essere conosciuto, deve essere amato, sarebbe difficile negare che amarlo sia intrinsecamente buono, se conoscerlo è ritenuto tale. Anche se si ammettesse che conoscerlo è intrinsecamente meglio che amarlo, il valore intrinseco dell’amore non verrebbe meno. Se esistano oggetti del genere, da conoscere e amare, è questione che va oltre i limiti di questo saggio, anche se è plausibile sostenere che Dio sia uno di essi, poiché risulta difficile accettare l’idea che si possa conoscere Dio senza amarlo.
Forse un altro tipo di esempio può illustrare lo stesso punto: supponiamo che l’unico modo, l’unico concepibile, per ottenere la conoscenza di sé (o qualsiasi altro tipo di conoscenza) sia attraverso l’amore per gli altri. E supponiamo inoltre che amare bene gli altri sia sufficiente per la conoscenza di sé. Allora sarebbe difficile negare che l’amore abbia valore intrinseco, se la conoscenza da esso dipendente è ritenuta intrinsecamente buona. Questi casi suggeriscono che la preoccupazione platonica per il valore dell’amore si basi su un presupposto difficile da giustificare: cioè che ogni conoscenza o altro bene ottenuto per mezzo dell’amore possa comunque essere ottenuto anche senza di esso. Questo presupposto deve essere falso se, come suggerisco, l’amore è almeno talvolta una condizione necessaria della reminiscenza.
La storia successiva della riflessione filosofica sull’amore riflette alcune di queste problematiche; solo con Plotino, credo, l’amore viene concepito come costitutivo dell’anima.⁵ (L’idea è del tutto assente nella psicologia di Aristotele; per lui, l’amore è un problema esclusivamente etico.) La celebre affermazione di Agostino: “Il mio amore è il mio peso. Ovunque io vada, è l’amore che mi porta là” (Confessioni, libro XIII, cap. 9) implica sia che l’amore è costitutivo dell’anima (come il peso lo è del corpo), sia che ogni bene, ad esempio la conoscenza, che egli raggiunge è il frutto dell’amore; questa connessione essenziale tra amore e conoscenza è ampiamente esaminata in De Trinitate. Entrambi questi pensatori possono essere visti come impegnati nello stesso problema ereditato da Platone: comprendere l’amore in modo da chiarirne tanto il valore strumentale quanto quello intrinseco.
NOTE
¹ Se Vlastos abbia ragione a supporre che la sua definizione coincida con quella di Aristotele è una questione complessa. Certamente la maggior parte degli studiosi ha condiviso l’interpretazione che Vlastos dà della definizione d’amore nell’Etica Nicomachea. Un’ottima interpretazione contraria si trova in → W. W. Fortenbaugh, “Aristotle’s Analysis of Friendship: Function and Analogy, Resemblance, and Focal Meaning,” Phronesis, XX, n. 1, 1975, pp. 51–62.
² Uno degli ostacoli a riconoscere che non vi è nulla di essenzialmente egocentrico nella definizione platonica dell’amore deriva probabilmente dalla nostra tendenza a immaginare un’incompatibilità tra essa e l’affermazione di Paolo: “L’amore non cerca il proprio interesse” (I Corinzi 13). Se si interpreta Paolo nel senso che “l’amore consiste nel cercare solo ciò che è bene per gli altri, mai per sé stessi”, allora forse vi è motivo di preoccupazione. Ma, come chiariscono le traduzioni moderne, ciò che Paolo intendeva dire era “L’amore non insiste per ottenere ciò che vuole” (Revised Standard Version), oppure “L’amore… non è mai egoista” (New English Bible). Essere egoisti significa ignorare o trascurare i bisogni e i desideri altrui per inseguire il proprio bene. Non essere egoisti, dunque, consiste nel non ignorare o trascurare gli altri; non è necessario che significhi non perseguire alcun bene per sé stessi. Sarebbe un errore ritenere che una condizione necessaria dell’amore sia che l’amante non cerchi nulla di buono per sé. Se questo punto può sembrare banale o ovvio, si invita il lettore a consultare Agape and Eros di Anders Nygren, per vedere quale ruolo cruciale abbia avuto, nella mente di alcuni studiosi, l’interpretazione dell’affermazione paolina qui criticata.
³ L’affermazione secondo cui l’amore è “il massimo beneficio che il cielo può concederci” implica che l’amore sia superiore alla conoscenza o alla giustizia, che sono intrinsecamente buone? Questa implicazione avrebbe senso solo se fosse possibile che la conoscenza o la giustizia possano essere conferite. Tuttavia, se si prende sul serio la dottrina platonica secondo cui la conoscenza è reminiscenza, allora neppure il cielo può conferirla — essa deve essere ricordata. E che la giustizia non possa essere conferita deriva da un’altra convinzione platonica: la virtù (e quindi la giustizia) è una forma di conoscenza.
⁴ J. M. E. Moravcsik prende in considerazione, ma respinge, l’idea che, quando l’anima raggiunge gli stadi più alti dell’ascesa nel Simposio, “essa non abbia più passioni né aspirazioni”. (“Reason and Eros in the Ascent Passage of the Symposium,” in Anton, J. P., e Kustas, G. L., a cura di, Essays in Ancient Greek Philosophy, /Albany, 1971/, pp. 285–302, a p. 294). È costretto a considerare tale possibilità poiché si nota una evidente assenza di emozione nei gradini più alti dell’ascesa, in contrasto con quelli inferiori. Conclude che, sebbene “eros sia ancora all’opera nell’anima nelle fasi più avanzate, non funge più da guida, e perciò non compare nella sequenza di gradini descritta. Non è necessario alcun cambiamento nell’aspirazione complessiva per condurre l’anima dalla contemplazione delle scienze alla comprensione delle Forme. Come Virgilio nella Divina Commedia, eros aiuta come guida solo fino alle fasi finali; lì, la contemplazione diventa autosufficiente” (ibid., p. 294). Ma non è chiaro come eros possa ancora essere attivo nell’anima quando la contemplazione diventa autosufficiente, dato che lo stesso Moravcsik aveva notato poco prima che
“in generale, si può dire dell’influenza causale di eros sulla mente che eros è ciò che spinge la mente verso nuove indagini” (ibid., p. 292).
Presumibilmente, quando la contemplazione diventa autosufficiente, eros cessa di essere ciò che “spinge la mente verso nuove indagini”. Per inciso, l’analogia con Virgilio sembra inadatta al punto di Moravcsik, poiché Virgilio scompare quando cessa di svolgere il ruolo di guida (Purgatorio, Canto XXX); egli non continua ad accompagnare Dante in qualche altro ruolo non direttivo.
⁵ “Questo essere, l’Amore, è esistito da sempre, generato dall’aspirazione dell’anima verso ciò che è superiore e buono, ed egli era presente da sempre, finché è esistita anche l’Anima.” (Enneadi, III. 5.9, traduzione di A. H. Armstrong, Loeb Classical Library, [Cambridge, Mass., 1967], Plotino, volume III, p. 203).
Brooklyn College of CUNY
Fonte: Journal of the History of Ideas, Vol. 40, n. 2 (aprile – giugno 1979), pp. 285–291