La caverna di Platone e i social media

L’allegoria della caverna, inserita da Platone nel libro VII della Repubblica, è una diagnosi radicale sull’origine e la struttura del sapere, sulla violenza delle immagini, sull’incapacità degli uomini di sottrarsi alla loro prigione percettiva.

di Alberto Piroddi

Se la metafora platonica della caverna ha attraversato i secoli con tale potenza simbolica, ciò non è dovuto soltanto alla sua straordinaria efficacia narrativa, ma al fatto che essa intercetta — con lucidità che rasenta il profetico — il nodo essenziale della condizione umana: il rapporto tragico e mai risolto tra verità e apparenza, tra schiavitù e liberazione, tra luce e ombra. E oggi, in questo nostro tempo di algoritmi e bolle informative, tale parabola si ripresenta con una urgenza rinnovata, come se Platone avesse parlato, paradossalmente, proprio a noi, spettatori e attori di una realtà sempre più schermata, riflessa, mediata, illusoria.

L’allegoria della caverna, inserita da Platone nel libro VII della Repubblica, non è semplicemente una favola edificante sull’ignoranza; è piuttosto una diagnosi radicale sull’origine e la struttura del sapere, sulla violenza delle immagini, sull’incapacità degli uomini di sottrarsi alla loro prigione percettiva. I prigionieri — legati fin dalla nascita, costretti a guardare soltanto le ombre proiettate sulla parete da oggetti che passano dietro di loro, illuminati da un fuoco che essi non vedono — credono che quelle ombre siano il reale. E anche quando uno di essi riesce a liberarsi e a contemplare la verità, viene rigettato dagli altri con odio, come portatore di un discorso insopportabile. La caverna, allora, non è una condizione eccezionale: è la normalità.

Ora, si deve domandare se i social media non abbiano riprodotto — anzi, perfezionato — proprio questa dinamica. Le piattaforme digitali, presentandosi come spazi di comunicazione, di scambio, di espressione, si sono in realtà configurate come nuove caverne, ove gli individui, incatenati non più da vincoli fisici ma da dipendenze psicologiche, affettive, simboliche, si trovano immersi in un flusso incessante di immagini, slogan, notizie, opinioni che essi scambiano per verità. Ma ciò che vedono — come le ombre dei prigionieri — non è il reale, bensì ciò che è stato selezionato, manipolato, proiettato da forze che restano nell’ombra: algoritmi, pubblicitari, interessi politici ed economici, logiche di potere che, come nel mito platonico, decidono cosa deve apparire e cosa no.

In questa nuova caverna, la realtà non è più accessibile come dato originario, ma si costituisce come costruzione, come prodotto sociale e percettivo, come simulacro. È ciò che già intuivano gli ontologi sociali: il reale non è fisso, non è oggettivo, ma mutevole, culturalmente determinato, storicamente situato. Ciò che oggi ci sembra “vero”, domani apparirà ingenuo o falso; ciò che in passato era creduto, oggi è ridicolizzato. Non si tratta, dunque, di accedere a una “verità” al di là delle apparenze, ma di comprendere criticamente i dispositivi che producono senso, che generano ciò che appare come reale.

In questa prospettiva, le riflessioni della tradizione filosofica indiana — penso a Shankara e alla dottrina del maya — risuonano con sorprendente affinità. Il mondo che esperiamo, ci dice Shankara, è illusione: non nel senso che è “falso”, ma nel senso che è effetto di una costruzione mentale, percettiva, spirituale. Come nel pensiero platonico, anche qui l’apparire è un velo, un travestimento, una rappresentazione. La realtà ultima — Brahman per Shankara, il Bene per Platone — non può essere colta dai sensi, né dalle opinioni, ma solo da un atto intellettuale che è anche etico, spirituale, esistenziale.

Ma se ciò è vero, se ciò che vediamo è sempre e comunque filtrato da mediazioni percettive e cognitive, allora è necessario domandarsi: possiamo mai dire cosa sia veramente “reale”? Possiamo mai liberarci delle catene? Possiamo mai uscire dalla caverna? I filosofi si dividono: alcuni pensano che esista una realtà indipendente dalla percezione, che possa essere colta mediante l’indagine razionale; altri ritengono che non vi sia che interpretazione, che non esista alcun fondamento ultimo, ma solo prospettive. Eppure, al di là di queste opposizioni, resta la necessità di comprendere come la conoscenza sia un processo complesso, dinamico, interattivo tra percezione e concetto, tra esperienza e linguaggio.

È qui che il pensiero critico — che è il cuore stesso della filosofia — si rivela decisivo. Non per condurci a una verità ultima, ma per renderci consapevoli del nostro stare nel mondo, delle trappole percettive e ideologiche in cui siamo immersi. Il compito non è quello di “uscire” dalla caverna, ma di comprendere le sue strutture, di decifrare le sue proiezioni, di non prendere le ombre per enti.

I social media, da questo punto di vista, costituiscono il compimento di quella caverna platonica: rendono la catena invisibile, la illusione irresistibile, l’ombra indistinguibile dalla cosa. L’individuo, nel mondo digitale, costruisce un’identità parallela, una maschera permanente, attraverso cui si espone agli altri e si misura con sé stesso. Ogni like, ogni condivisione, ogni commento diventa una conferma del proprio esistere. Ma questo esistere è ormai esternalizzato, dipendente da un riconoscimento algoritmico. La “libertà” promessa dai social è, in verità, una nuova forma di servitù.

E come nella caverna, chi prova a spezzare il meccanismo — chi tenta di far emergere una verità scomoda, una voce dissonante, una visione alternativa — è ridicolizzato, attaccato, cancellato. È l’epoca del groupthink, della cancel culture, della polarizzazione intransigente. È l’epoca in cui chi esce dalla caverna rischia la lapidazione. Socrate lo sapeva bene. E noi?

Il paradosso è evidente: i social media, nati per connettere, disconnettono; nati per informare, deformano; nati per democratizzare, polarizzano. L’accesso illimitato all’informazione ha generato un’ignoranza nuova, non più fondata sull’assenza di sapere, ma sulla saturazione, sull’eccesso, sulla confusione sistemica. E come i prigionieri della caverna, anche noi preferiamo le ombre familiari alla luce che abbaglia, all’ignoto che inquieta.

Certo, non si tratta di demonizzare la tecnologia, né di sognare un ritorno a un’epoca pre-digitale. I social media sono strumenti potenti, e come ogni strumento dipendono dall’uso che ne facciamo. Ma proprio per questo occorre educare lo sguardo, formare lo spirito critico, insegnare a dubitare, a interrogare, a sospendere il giudizio. Occorre una nuova pedagogia dell’attenzione, della lentezza, dell’argomentazione. Occorre restituire alla parola la sua funzione filosofica, non come opinione da urlare, ma come interrogazione dell’essere.

La lezione della caverna, oggi, si configura come un’esigente chiamata all’azione del pensiero, come l’assunzione di una responsabilità che implica innanzitutto la capacità di scardinare gli schemi abituali del vedere e del comprendere, di sottrarsi alla coazione a ripetere dei gesti mentali automatici, all’immediatezza compulsiva con cui consumiamo informazioni, opinioni e immagini. Ci viene chiesto, dunque, non di fuggire dal mondo, ma di abitarlo in modo critico, di restare dentro il nostro tempo senza lasciarcene colonizzare, di porre distanza e riflessione laddove tutto ci spinge verso la reazione istintiva, verso l’adesione irriflessa, verso l’adescamento emotivo e spettacolare dell’apparire. Pensare altrimenti, in questo contesto, significa allora restituire profondità al gesto intellettuale, sottrarlo all’urgenza del consenso, e riattivare una forma di presenza che sia insieme vigile, inquieta, radicalmente etica. Per non confondere mai le ombre con la verità.

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