The Coddling of the American Mind: How Good Intentions and Bad Ideas Are Setting Up a Generation for Failure
Jonathan Haidt, Greg Lukianoff
Penguin Press, New York, 2018
La lettura di The Coddling of the American Mind, pubblicato nel 2018 da Greg Lukianoff e Jonathan Haidt (non ancora tradotto in Italia), si impone non soltanto come una riflessione lucida e documentata sullo stato di fragilità psicologica delle nuove generazioni occidentali – con particolare riferimento alla realtà accademica statunitense –, ma come un sintomo a sua volta della crisi di una cultura che, nel tentativo ipertrofico di proteggere il soggetto, finisce per disarmarlo, sottraendogli l’esperienza reale del limite, dell’urto, della frustrazione, della parola dell’altro. Siamo di fronte a un libro che interroga, con uno sguardo al tempo stesso clinico, sociologico e filosofico, quella che potremmo chiamare la nuova pedagogia dell’iperprotezione, una pedagogia rovesciata, che invece di educare alla vita espone il soggetto a una inermità radicale, illudendosi, nel tentativo di abolire la sofferenza, di poter costruire una vita senza dolore, senza urto, senza realtà.
Lukianoff e Haidt, pur non avendo un’impostazione psicoanalitica, si muovono tuttavia in un terreno che la psicoanalisi conosce molto bene: il rapporto tra soggetto e trauma, tra soggetto e angoscia, tra soggetto e castrazione. L’assunto iniziale, che viene sostenuto con rigore empirico e vasto supporto documentale, è semplice quanto disarmante: la cultura americana, a partire dagli anni Novanta ma in modo sempre più evidente a partire dal secondo decennio del nuovo millennio, ha costruito intorno ai propri figli – e successivamente, dentro l’universo accademico – una corazza pedagogica fondata sul culto della sicurezza, sul ripudio del rischio, sull’evitamento sistematico del conflitto, sul misconoscimento della differenza.
La tesi è potente: nel tentativo di non far soffrire il soggetto, la società neoliberale postmoderna – individualista, narcisista, iperconnessa – ha disattivato ogni possibile accesso all’esperienza reale del limite, con effetti devastanti sulla formazione psichica dei suoi membri più giovani. Le università, invece di essere luoghi di apertura all’alterità, di esercizio critico, di messa alla prova simbolica, si sono trasformate, secondo gli autori, in spazi protetti, in ambienti controllati, in zone di comfort psicologico in cui la parola viene censurata non più per motivi ideologici, ma per motivi affettivi. Il nemico non è più il potere costituito, non è più il pensiero dominante, ma l’offesa potenziale, il “trigger”, il “microaggressione”, la parola che può ferire.
E qui si tocca un nodo fondamentale. La pedagogia del “coddling” – del coccolare, del proteggere eccessivamente – non è che il sintomo di un più ampio movimento culturale che ha confuso il trauma con l’offesa, la violenza simbolica con la violenza reale, il disagio con la minaccia. In altri termini: si è perso, nella cultura pubblica come nell’educazione, il senso della differenza tra parola e atto, tra logos e pathos, tra immaginario e reale. L’infanzia prolungata delle nuove generazioni – infanzia psichica, non cronologica – non è effetto di un’assenza d’amore, ma, paradossalmente, di un eccesso d’amore. È l’amore iperprotettivo che ha prodotto figli incapaci di stare nel mondo, figli senza pelle, figli nudi davanti alla realtà.
La psicoanalisi, in particolare quella lacaniana, ha sempre insistito sull’importanza del trauma come momento strutturante del soggetto. Il trauma non è soltanto ciò che ci ferisce, ma anche ciò che ci fa diventare ciò che siamo. Non esiste soggetto senza trauma, non esiste soggettivazione senza urto, non esiste pensiero senza ferita. Ogni pedagogia che pretenda di cancellare la dimensione traumatica dell’esistenza umana è, per definizione, una pedagogia anti-umana, una pedagogia dell’inerzia, una pedagogia del non vivere. Ecco perché il tentativo – denunciato da Lukianoff e Haidt – di costruire spazi accademici “safe”, privi di ogni parola potenzialmente disturbante, si traduce in una sterilizzazione simbolica dell’educazione stessa. L’università, che dovrebbe essere il luogo del trauma simbolico per eccellenza, il luogo in cui la propria posizione soggettiva viene messa in crisi, viene decostruita, viene provocata, si trasforma in un santuario dell’identità fragile, che invoca protezione contro ogni parola che possa mettere in discussione il proprio narcisismo.
Ma c’è di più. Gli autori individuano tre “grandi falsità” che guidano questa deriva culturale. La prima: “ciò che non ti uccide ti indebolisce” (in evidente polemica con Nietzsche); la seconda: “devi sempre fidarti dei tuoi sentimenti”; la terza: “la vita è una lotta tra persone buone e persone cattive”. Queste tre proposizioni, che si sono insinuate nel discorso educativo, nei media, nel lessico terapeutico e nelle pratiche sociali, rappresentano – secondo Lukianoff e Haidt – la base cognitiva di una nuova forma di fragilità mentale. La prima falsità nega l’idea di antifragilità, cioè la possibilità che l’essere umano cresca attraverso la difficoltà. La seconda istituisce un primato assoluto del sentimento sulla razionalità, rendendo impossibile ogni dialettica tra emozione e pensiero. La terza infonde una visione manichea del mondo, polarizzata, moralistica, in cui l’alterità viene sempre vissuta come minaccia.
In tutte queste tesi si sente, echeggiante, il rimosso della Legge simbolica. Il soggetto contemporaneo, educato nel culto dell’immediatezza, della spontaneità, dell’autenticità, non conosce più la Legge, non conosce più la funzione simbolica del limite, non sa più distinguere tra il desiderio e il godimento, tra la libertà e l’impunità, tra il trauma e l’offesa narcisistica. Il risultato è il dilagare di una clinica della fragilità, del panico, dell’ansia, della depressione, dell’intolleranza al disagio, che la stessa cultura che li ha prodotti tenta poi di correggere con l’inflazione di un discorso terapeutico ridotto a igiene emotiva, a bonifica del linguaggio, a medicalizzazione del dolore psichico.
Da questo punto di vista, The Coddling of the American Mind non è semplicemente un libro sociologico: è un testo che interroga la nostra epoca nei suoi fondamenti. L’ideologia del benessere psicologico, il culto della vulnerabilità, l’ossessione per la “safe space culture” sono, in fondo, l’altra faccia di una società che ha smarrito ogni orizzonte di trascendenza, ogni concezione tragica della vita, ogni educazione al limite. Si cerca di produrre individui immuni dalla sofferenza, ma si ottengono invece individui incapaci di desiderare, perché il desiderio, come insegna Freud, nasce sempre da una mancanza, da un’assenza, da un’interdizione.
Ecco dunque che la funzione educativa autentica, che dovrebbe consistere nel costruire un soggetto capace di stare nella mancanza, viene rovesciata in una funzione ansiolitica, in una pedagogia anestetica. Si fa di tutto per evitare al bambino, all’adolescente, allo studente universitario, ogni esperienza di frustrazione, ma si dimentica che è proprio la frustrazione a costruire l’Io, a generare la capacità di tollerare l’attesa, il conflitto, il fallimento, la differenza. Una società che non sa più tollerare la frustrazione è una società che produce soggetti disarmati, privi di strumenti simbolici per elaborare il trauma dell’esistenza.
C’è un altro passaggio importante nel testo di Lukianoff e Haidt, che riguarda la relazione tra tecnologia digitale e declino della salute mentale. I dati sono impressionanti: a partire dall’avvento degli smartphone, i disturbi d’ansia, la depressione, i comportamenti autolesivi e i tentativi di suicidio tra adolescenti – in particolare tra ragazze – sono cresciuti in modo esponenziale. Gli autori non cadono in facili demonizzazioni, ma mostrano come l’iperconnessione, la vita filtrata attraverso i social, la continua esposizione allo sguardo giudicante dell’altro virtuale, abbiano trasformato la costruzione dell’identità in una performance permanente, in un campo minato di confronti, approvazioni, esclusioni.
Anche qui la psicoanalisi ha molto da dire. Il soggetto dell’inconscio si costituisce attraverso lo sguardo dell’Altro, ma questo sguardo, nell’epoca della rete, si è moltiplicato, disincarnato, desimbolizzato. Il risultato è una sovraesposizione dello specchio, una sorta di psicosi dell’immagine che esaspera la fragilità narcisistica e inibisce ogni processo di simbolizzazione. Il soggetto non ha più accesso all’interiorità, perché è interamente catturato dal gioco delle rappresentazioni, dall’ansia di visibilità, dalla necessità compulsiva di mostrarsi, di essere visti, di esistere attraverso la conferma esterna.
The Coddling of the American Mind è, in questo senso, anche una critica implicita della cultura dell’immagine, del narcisismo diffuso, dell’impossibilità di costruire un’alterità reale. La differenza – sia essa di genere, di opinione, di esperienza – non viene più elaborata come occasione di crescita, ma vissuta come trauma insopportabile. La parola dell’altro, invece di essere occasione di incontro o di scontro simbolico, è vissuta come minaccia. Il soggetto contemporaneo chiede protezione dal linguaggio stesso, come se la parola fosse già una violenza, come se ogni discorso che metta in discussione il proprio punto di vista fosse un’aggressione. È il trionfo dell’Io infantile, del principio del piacere, dell’allergia al limite.
E tuttavia, nonostante la chiarezza e il rigore degli autori, resta aperta una domanda: come si può rieducare una società che ha fatto della protezione un culto, del vittimismo un’identità, dell’emozione un criterio di verità? Come si può restituire al soggetto contemporaneo l’idea che la vita non è senza dolore, che l’esistenza è ferita, che crescere significa confrontarsi con la perdita, con la sconfitta, con l’errore? Lukianoff e Haidt non offrono ricette, non cedono al moralismo, ma aprono uno spazio per pensare. Ed è già moltissimo.
È necessario, oggi più che mai, un nuovo discorso educativo che sappia reintegrare la dimensione del trauma nella formazione del soggetto, non per glorificare il dolore, ma per riconoscerlo come parte ineliminabile della condizione umana. Un’educazione che non sia solo protezione, ma anche esposizione; non solo sicurezza, ma anche rischio; non solo sostegno, ma anche abbandono. In una parola: un’educazione che sappia ridare al soggetto la possibilità di diventare se stesso non nonostante la ferita, ma proprio attraverso la ferita.
Solo così – come ha mostrato Haidt nel suo lavoro sulla resilienza, e come la psicoanalisi insegna da sempre – si può costruire un soggetto capace di stare nel mondo. Non il soggetto “safe”, ma il soggetto esposto, il soggetto diviso, il soggetto che ha attraversato l’Altro. Solo questo soggetto può desiderare davvero. E solo questo soggetto può essere, infine, libero.