Dostojevskij | di Giuseppe Prezzolini

Il mondo di Dostoevskij è fatto di umiliati e offesi; la sua grandezza sta nell’intuizione del dolore umano, non nella perfezione formale dei suoi romanzi.

di Giuseppe Prezzolini

Il mondo di Dostojevskij è di umiliati e di offesi, di povera gente, di sepolti vivi, di idioti, di demoniaci; basta dare una scorsa ai titoli dei suoi libri per comporre questa enumerazione. È di epilettici, di giocatori, di donne perdute, di forzati, di precoci, di allucinati, di matrimoni malati ed infernali. Dirò che egli comprende tutte le disgrazie e decadenze umane e di poco; le fa proprie, vi si investe… ma no, è ancor poco; le trasfigura, come una luce che d’improvviso animi una buia e polverosa vetrata di chiesa. In questo mondo che noi, difesi in generale dal male, con tante abili muraglie di costumi, di precauzioni, di fortuna, di servi, di guardie, di ordine pubblico, di pudore, di religione, non penetriamo mai — e quando vi penetriamo (o esso penetra in noi, fragili come tutti gli uomini) uno smarrimento ci invade e ci perde; in questo mondo egli vive naturalmente, se la parola può usarsi, e va vivere noi naturalmente. La forza della sua arte è tutta qui; il nucleo del suo spirito è qui. Il resto è agglomerazione pratica, incidente occasionale, motivo sentimentale o politico.

Si vede bene dai suoi romanzi più colossali di forma ed intricati di avvenimenti e popolati di figure, che tutta la luce artistica batte su qualche scena o su qualche personaggio umile e disgraziato in modo speciale, e che tutto il resto non è che contorno, non sempre neppure convergente necessariamente al centro dell’attenzione dell’artista. Io non posso dire che le condizioni economiche del Dostojevskij, terribili come sempre ce le descrive la sua corrispondenza, abbiano avuto qualche influenza nella fretta e nella disinvoltura con la quale vengono trattate alcune scene dei suoi romanzi più lunghi; non lo dirò, perché contrasterebbe troppo con le sincere confessioni del Dostojevskij stesso che riconosceva di aver sempre scritto per obbligo, o per impegno già pagato in antecedenza, ed in generale di aver scritto come sotto il peso d’un cammino che sta per scadere; e pure di non aver scritto nulla che non approvasse nel suo intimo. Dirò piuttosto che il Dostojevskij aveva poca cura di scrivere bene, che raramente si accorgeva di avere allungato o prolungato, con colpi di scena spesso, un complicato involucro di avvenimenti, nel quale nascondeva, invece, un’eccezionale e sentitissima situazione di spirito, intuita a pieno e colta nella sua vita e ricchezza più intima. Chi si mette a tradurre ed è costretto a seguire il movimento artistico del Dostojevskij da vicino, si accorge subito di queste imperfezioni e trascuratezze, e sente che esse abbondano più dove la materia di spirito è meno calda, dove la pietà, la simpatia per tutto quel che è disgrazia e sventura sono meno forti. In generale il mondo puramente descrittivo, per essi intenderci, dove non è una tortura e un assillo umano, restano nel Dostojevskij, prosaici; sono accessori che egli pone, per necessità, e restano esteriori al dramma.

Perciò le cose più intime del Dostojevskij sono certi scritti minori, dove la preoccupazione psicologica umana è tutta chiusa e concentrata entro poche ore di tempo, pochi metri di spazio, poche figure, e talmente tesa che pare debba scoppiare ad ogni istante: ai quali scritti minori si potrebbero aggiungere alcune scene dei suoi romanzi più lunghi, dove si intravede il primo sgorgare naturale dell’intuizione artistica, sulla quale poi ha poggiato tutto il resto del racconto e delle riflessioni.

(Da «Uomini 22 e Città 3», Firenze, 1920, pp. 134 sgg., ma pubblicato nel 1912)

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