di René Girard
Sotto certi aspetti, il Dostoevskij di Umiliati e offesi è più lontano dal proprio genio che il Dostoevskij del Sosia. È proprio questo allontanamento – si sarebbe tentati di scrivere: questo smarrimento – a suggerire che una rottura è inevitabile. Ma soltanto l’imminenza di questa rottura è rivelata, e non l’imminenza del genio. Se nel 1863 Dostoevskij fosse divenuto pazzo, anziché scrivere i Ricordi dal sottosuolo, non avremmo difficoltà a scoprire in Umiliati e offesi i segni anticipatori di quella follia. E forse, per il Dostoevskij del 1863, non vi era altra via d’uscita che la follia o il genio.
Vediamo bene, adesso, che il cammino verso la maestria romanzesca non è un progresso continuo, un processo di accumulo, paragonabile all’erezione per corsi successivi di un qualunque edificio.
Umiliati e offesi è certamente superiore, per tecnica, alle opere degli esordi; la futura lucidità già affiora, innegabilmente, in certi passaggi e in certi personaggi, ma l’opera si situa nondimeno – considerato lo squilibrio da cui è affetta e lo scarto che rivela fra la prospettiva del creatore e il significato oggettivo dei fatti – al punto estremo dell’accecamento. E questo punto estremo non può che precedere e annunciare la notte definitiva o la luce della verità.
Non vi è compito più essenziale, e tuttavia più trascurato, del raffrontare, in uno stesso scrittore, le opere veramente superiori con quelle che non lo sono. Per facilitare questo raffronto, lasceremo inizialmente da parte i Ricordi dal sottosuolo, opera infinitamente ricca e varia, e ci rivolgeremo a un racconto di sette anni più tardi, L’eterno marito. Se per un momento ci allontaniamo dall’ordine cronologico, è soltanto per ragioni pratiche e per facilitare la comprensione del nostro punto di vista. L’eterno marito è completamente consacrato ai motivi ossessivi che abbiamo riscontrato nelle opere del periodo romantico e nella corrispondenza siberiana; questo racconto ci permetterà dunque di abbozzare, su alcuni punti ben definiti, un primo confronto e una prima distinzione fra i due Dostoevskij, quello che ha del genio e quello che non ne ha.
L’eterno marito è la storia di Pavel Pàvlovic Trusockij, un notabile di provincia che dopo la morte della moglie parte per Pietroburgo allo scopo di ritrovarne gli amanti. Il racconto mette pienamente in luce il fascino che esercita sui protagonisti dostoevskijani l’individuo che li umilia sessualmente.
In Umiliati e offesi l’insignificanza dell’amante suggeriva l’importanza della rivalità nella passione sessuale; nell’Eterno marito la donna è morta, l’oggetto desiderato è scomparso e il rivale permane; il carattere essenziale dell’ostacolo è pienamente rivelato.
Al suo arrivo a Pietroburgo, Trusockij può scegliere fra due amanti della moglie defunta. Il primo, Vel’chàninov, è il narratore dell’Eterno marito; il secondo, Bagautov, ha soppiantato Vel’chàninov nel cuore della sposa infedele e il suo dominio si è rivelato più durevole del precedente. Ma Bagautov muore a sua volta e Trusockij, dopo i funerali a cui assiste in lutto stretto, ripiega, in mancanza di meglio, su Vel’chàninov. Agli occhi di Trusockij è Bagautov – perché lo ha più radicalmente ingannato e schernito – che incarna pienamente l’essenza della seduzione e del dongiovannismo. È di questa essenza che Trusockij si sente privo, proprio perché la moglie lo ha ingannato; è quindi di questa essenza che egli cerca di appropriarsi diventando il compagno, l’emulo e l’imitatore del proprio rivale trionfante.
Per capire questo “masochismo” bisogna dimenticare il bagaglio medico che abitualmente lo oscura al nostro sguardo e leggere, molto semplicemente, L’eterno marito. In Trusockij non vi è un desiderio di umiliazione nel senso consueto del termine. L’umiliazione costituisce, piuttosto, un’esperienza così terribile che inchioda il masochista all’uomo che gliel’ha inflitta o a coloro che gli somigliano. Il masochista non può ritrovare la stima in se stesso se non con una vittoria clamorosa sull’individuo che lo ha offeso; ma questo individuo acquisisce ai suoi occhi dimensioni così favolose da sembrare contemporaneamente l’unico capace di procurare quella vittoria. Vi è nel masochismo una sorta di miopia esistenziale che restringe la visione dell’offeso alla persona dell’offensore. Quest’ultimo stabilisce non solo lo scopo dell’offeso ma anche gli strumenti della sua azione. Ciò significa che la contraddizione, la scissione e lo sdoppiamento sono inevitabili. L’offeso è condannato a girare senza fine intorno all’offensore, a riprodurre le condizioni dell’offesa e a farsi offendere nuovamente. Nelle opere che abbiamo considerato finora, il carattere ripetitivo delle situazioni genera una specie di umorismo involontario. Nell’Eterno marito questo carattere ripetitivo è sottolineato; lo scrittore ne trae effetti comici del tutto consapevoli.
Nella seconda parte del racconto, Trusockij decide di risposarsi e cerca di coinvolgere Vel’chàninov nell’impresa. Non può aderire alla propria scelta finché il seduttore patentato non ne abbia confermato l’eccellenza, finché quest’ultimo non desideri, insomma, la ragazza che egli stesso desidera.
Egli invita dunque Vel’chàninov ad accompagnarlo dalla giovane. Vel’chàninov cerca di esimersi, ma finisce per cedere, vittima, scrive Dostoevskij, di un “bizzarro impulso”. I due uomini si fermano dapprima in una gioielleria e l’eterno marito chiede all’eterno amante di scegliere per lui il regalo da destinare alla futura sposa. Poi vanno a casa della signorina e Vel’chàninov ricade, invincibilmente, nel proprio ruolo di seduttore. Egli piace e Trusockij non piace. Il masochista è sempre l’artefice affascinato della propria infelicità.
Perché si lancia in questo modo nell’umiliazione? Perché è immensamente vanitoso e orgoglioso.
La risposta è paradossale soltanto in apparenza. Quando Trusockij scopre che la moglie gli ha preferito un altro, lo shock che ne prova è terribile perché egli si è fatto un dovere di essere il centro e l’ombelico dell’universo. L’uomo è un vecchio proprietario di servi; è ricco; vive in un mondo di padroni e di schiavi; è incapace di vedere una via di mezzo fra questi due estremi, il minimo scacco lo condanna dunque alla servitù. Marito ingannato, si vota egli stesso al nulla sessuale. Dopo essersi concepito come un individuo da cui irradiavano naturalmente la forza e il successo, si considera un rifiuto che trasuda inevitabilmente impotenza e ridicolaggine.
L’illusione dell’onnipotenza è tanto più facile da distruggere quanto più è totale. Fra l’Io e gli Altri si stabilisce sempre un raffronto. La vanità pesa sulla bilancia e la fa pendere verso l’Io; non appena questo peso viene a mancare, la bilancia, raddrizzatasi bruscamente, penderà verso l’Altro. Il prestigio che attribuiamo a un rivale troppo felice è sempre la misura della nostra vanità. Crediamo di stringere saldamente lo scettro del nostro orgoglio, ma esso ci sfugge al minimo scacco per ricomparire, più splendente che mai, fra le mani di un altro.
Come Ordynov, nella “Padrona”, tenta invano di assassinare Murin, così Trusockij accenna un gesto omicida nei confronti di Vel’chàninov. Più sovente, egli cerca un “modus vivendi” con il rivale affascinante. Come il protagonista di Un cuore debole, egli spera di vedere riversarsi su di sé un po’ di quella felicità favolosa che attribuisce al proprio vincitore. Il “sogno della vita a tre”, fino a qui idillico o patetico, ricompare in una prospettiva grottesca.
L’impulso primario che anima i personaggi dostoevskijani non è quindi quello che suggerivano le prime opere. Il lettore di Umiliati e offesi che intende rimanere fedele alle intenzioni consapevoli dello scrittore giungerà a formulazioni che contraddicono radicalmente il significato latente dell’opera. Il critico Georges Haldas, per esempio, definisce così l’essenza comune a tutti i personaggi: “È la pietà che riporta alla luce quanto il loro cuore ha di più nobile e li fa acconsentire al sacrificio, in se stessi, della parte possessiva di ogni amore”. Il critico percepisce bene che un “elemento torbido” si mescola alla passione, ma è di questo elemento, a sentir lui, che i personaggi finirebbero per trionfare: “Vi è” prosegue “come un sabba dell’amore-passione e della pietà – e anche della carità -, una lotta terribile alla fine della quale è la pietà che vince ed è la passione che perde”.
Lungi dal rinunciare alla “parte possessiva di ogni amore”, questi personaggi non sono interessati che ad essa. Sembrano generosi “poiché non lo sono”. Perché dunque riescono a farsi credere, e a credersi, il contrario di ciò che sono? Perché l’orgoglio è una potenza contraddittoria e cieca che produce sempre, a più o meno lunga scadenza, effetti diametralmente opposti a quelli che ricerca.
L’orgoglio più fanatico è disposto, al minimo scacco, a inchinarsi a terra davanti all’altro; vale a dire che somiglia, esteriormente, all’umiltà. L’egoismo più estremo fa di noi, alla minima disfatta, degli schiavi volontari; vale a dire che somiglia, esteriormente, allo spirito di sacrificio.
La retorica sentimentale che trionfa in Umiliati e offesi non rivela il paradosso, ma se ne serve per dissimulare la presenza dell’orgoglio. L’arte dostoevskijana del periodo maggiore fa esattamente l’opposto. Stana l’orgoglio e l’egoismo dai loro nascondigli; denuncia la loro presenza in comportamenti che somigliano, fino a trarre in inganno, all’umiltà e all’altruismo.
Non percepiamo il masochismo dei personaggi di Umiliati e offesi se non quando andiamo oltre le intenzioni dell’autore, verso una “verità oggettiva” che non può esserci rimproverato di “proiettare” sul romanzo poiché essa diviene esplicita nell’Eterno marito. Nell’opera maggiore non vi è più scarto fra le intenzioni soggettive e il significato oggettivo.
Dei lampi attraversano senza dubbio Umiliati e offesi. Il titolo stesso è una scoperta: esso fa credere a molti che questo romanzo, raramente letto, sia “dostoevskijano” nel senso in cui lo saranno le opere posteriori. L’idea che il comportamento dei personaggi sia radicato nell’orgoglio vi è già espressa: “Sono spaventato” osserva laconicamente Vanja “perché vedo che sono tutti divorati dall’orgoglio”. L’idea, tuttavia, rimane astratta, è isolata, annegata nella retorica idealista.
Nell’Eterno marito, invece, abbiamo una sensazione quasi fisica della vanità morbosa e digrignante del personaggio principale, autentico specchio deformante in cui il dandy Vel’chàninov contempla il “doppio” della propria sufficienza dongiovannesca.
Dopo Umiliati e offesi vi è in Dostoevskij un cambiamento di orientamento al tempo stesso sottile e radicale. Questa metamorfosi ha delle conseguenze intellettuali, ma non è il frutto di un’operazione intellettuale. Di fronte all’orgoglio, l’intelligenza pura è cieca. La metamorfosi non è neppure di ordine estetico; l’orgoglio può assumere tutte le forme, ma può ugualmente fare a meno di forma. Il Dostoevskij di Semipalatinsk, il Dostoevskij che scrive a Vrangel’ le lettere che sappiamo, era incapace di scrivere L’eterno marito. Nonostante i dubbi che già lo assalivano, si ostinava a considerare il proprio orgoglio morboso e la propria ossessione per l’umiliazione sotto una luce adulatoria e ingannevole. Quel Dostoevskij non poteva scrivere che Le notti bianche o Umiliati e offesi. Non si tratta di fare di Trusockij un personaggio autobiografico nel senso tradizionale del termine, ma di riconoscere che questa creazione geniale si fonda sulla consapevolezza acuta di meccanismi psicologici appartenenti al creatore stesso, meccanismi la cui tirannia poggiava, precisamente, sullo sforzo disperato del creatore per nascondersi il loro significato e persino la loro presenza.
[Questo scritto è stato tratto da René Girard, “Dostoevskij dal doppio all’unità”, pubblicato da SE nel 1987 (seconda edizione 1996), nella traduzione di Roberto Rossi.]