di Pauline Kael
È difficile credere che si possa realizzare una grande commedia ambientata durante il Blitz, eppure John Boorman ci è riuscito. Nel suo nuovo film autobiografico, Hope and Glory, ha avuto l’ispirazione di desentimentalizzare l’Inghilterra in tempo di guerra e mostrarci la Seconda guerra mondiale com’era nei suoi occhi di bambino di otto anni: una festa che sembrava non finire mai, giorno dopo giorno, notte dopo notte. La guerra libera i Rohan (ispirati alla famiglia di Boorman) dalla monotonia grigia delle loro vite da impiegati e dalla strada in cui abitano, con la sua fila di villette a schiera suburbane; adesso possono vivere l’emozione delle esplosioni, la corsa ai rifugi, i fasci di luce che perlustrano il cielo notturno, le patriottiche fandonie trasmesse dalla radio e l’uguaglianza che arriva con le tessere annonarie. Bill Rohan (Sebastian Rice Edwards) raccoglie diligentemente schegge, e, insieme agli altri bambini di otto e nove anni, esplora le rovine, distruggendo tutto ciò che si può ancora distruggere. Boorman lascia ai suoi personaggi la libertà di dire ciò che prima era indicibile. Stufa di rannicchiarsi in casa durante i bombardamenti notturni della Luftwaffe, e di ascoltare il boato delle esplosioni e delle sirene, Dawn (Sammi Davis), quindicenne e primogenita dei tre figli dei Rohan, corre fuori per la gioia di muoversi, osserva i pompieri mentre lavorano su una casa in fiamme, e danza nel minuscolo giardinetto di casa. «È bellissimo!» grida a Bill, che esita sulla soglia. Notando qualcosa sul marciapiede, lui corre fuori e lo raccoglie: «Scheggia! Ed è ancora calda». Se la passa di mano in mano per raffreddarla. La madre, Grace (Sarah Miles), scoppia improvvisamente a ridere alla vista della casa in fiamme poco più in là, e rimane scioccata dalla propria reazione. Urla: «Rientra subito, o mi lavo le mani di te!» E poi, come scrive Boorman (la sceneggiatura è stata pubblicata da Faber & Faber): «Un proiettile esplode proprio sopra di loro e si rifugiano nell’uscio aperto. I quattro rimangono lì, incorniciati, a guardare verso il cielo furioso dove infuria la Battaglia d’Inghilterra. Bill osserva, rapito».
L’approccio di Boorman ha perfettamente senso. Non nega gli orrori della guerra: c’è una scena impressionante in cui Grace e i due figli più piccoli cercano di raggiungere il rifugio ma non ce la fanno; le esplosioni bianche li respingono e li sbattono nel soggiorno come marionette al rallentatore. Eppure, a tutto dà una sfumatura comica. Bill e gli altri alunni devono indossare maschere antigas quando vanno al rifugio scolastico, e il preside li costringe a recitare le tabelline per passare il tempo; ne escono suoni aspirati orribilmente disgustosi. In un’altra scena, Grace e i suoi figli sono al cinema, e durante un cinegiornale sulla Battaglia d’Inghilterra compare un avviso che li informa di un raid aereo in corso e li invita a rifugiarsi. Mentre Grace li guida lungo la navata, Bill dice: «Non possiamo vedere la fine?» Dawn gli risponde: «C’è la cosa vera là fuori.» «Non è la stessa cosa,» dice lui. Ed è vero anche per il film che stiamo guardando: è la vita che si svolge fuori dal cinema, ma selezionata, amplificata, levigata. E, nel caso di Hope and Glory, quella vita è stata arricchita da una dose extra di buon senso—una gioiosa luminosità.
Il film richiama ciò che cercò di fare Ingmar Bergman in Fanny e Alexander: creare una visione totale della vita a partire dai ricordi di ciò che, da bambino, percepiva della sua famiglia. Ma, per quanto sia ricco, il film di Bergman si impantana in fantasie gotiche e convenzioni vittoriane; non riesce mai a fare pace con il lato amorale del bambino. Boorman, invece, tratta i ricordi con più leggerezza. Sua madre non amava suo padre e non erano felici insieme, ma lui è sopravvissuto. La guerra è arrivata e ha scombussolato tutto, e se suo padre (David Hayman), una specie di scolaretto patriottico invecchiato, ha cercato di sfuggire al senso di vergogna per essere scivolato dalla classe media a una vita precaria da periferia, e si è arruolato sperando in avventure ma si è ritrovato a fare il dattilografo—beh, almeno è riuscito a fare visita alla sua famiglia. E quando quella villetta a schiera—simbolo dell’inquinamento da carbone e della conformità—è andata distrutta (in un incendio “normale” che non si poteva attribuire ai nazisti), nessuno ne ha sentito la mancanza. La sua distruzione ha dato a Grace e ai bambini la scusa per trasferirsi nella grande, disordinata e aperta casa dei suoi genitori sul Tamigi, dove Bill e la sorellina di sei anni, Sue (Geraldine Muir), potevano pescare e giocare. E siccome si trovavano a Shepperton, vicino agli studi costruiti da Alexander Korda, e lungo il fiume lavoravano spesso troupe cinematografiche, Bill ha potuto sviluppare quegli interessi che lo avrebbero trasformato in John Boorman.
Il film è meravigliosamente privo di lamentele. Il nonno (Ian Bannen) è un vecchio burbero e autoritario che si ubriaca a Natale e sottopone l’intera famiglia ai suoi brindisi in onore di tutte le donne che ricorda con lascivia compiaciuta. Ma è anche lui a insegnare a Bill i segreti del fiume. Di tanto in tanto, Bill riesce a prenderlo in giro senza conseguenze, e quando, poche ore prima dell’inizio del trimestre autunnale, la scuola temuta da Bill viene bombardata e distrutta, il nonno ride come un anarchico da cartone animato. È come se i sogni suoi e di Bill avessero fatto saltare il posto in aria. E non solo i loro: quando gli studenti arrivano per il primo giorno di “servitù”, vedono le macerie e iniziano a fare festa nel cortile. È una celebrazione sfrenata, perché le vacanze saranno prolungate; è anche un’orgia di odio verso il preside, che ama usare la bacchetta, lasciando lividi sul palmo dei bambini. Diceva che la disciplina vince le guerre; ora le bombe hanno messo fine alla sua tirannia. È questa la gioia del film: la guerra ha i suoi orrori, ma distrugge anche molte delle cose che i poveri perbene come Grace Rohan a malapena riuscivano ad ammettere di voler distruggere.
Boorman mantiene alta l’energia in tutte le scene. Non si lascia andare al punto da perdere il controllo, e non cade in nessuna delle sue trappole junghiane. Tutte le cose che potevano andare storte non lo fanno; il film scorre leggero, episodio dopo episodio, un collage di ricordi, sogni, cinegiornali, vecchi film, finti vecchi film. È come una variante inglese e sobria di La notte di San Lorenzo dei fratelli Taviani, anch’esso ambientato durante la Seconda guerra mondiale e visto con gli occhi di un bambino. In quel film, la bambina, ormai adulta, mitizza le sue esperienze belliche, trasformandole in favole della buonanotte per raccontarle a sua figlia, e Boorman ha scritto che anche la sua sceneggiatura è nata dalle storie raccontate ai figli prima di dormire. Molti dei suoi personaggi e aneddoti hanno qualcosa di archetipico, ma sono ancorati a persone e situazioni reali e ben definite. Non ci vengono imposti; si insinuano dentro di noi—forse perché siamo sempre coinvolti nelle battute. Il film ha una splendida chiarezza pop.
La Dawn di Sammi Davis, con le sue fossette e la sua passione per i piaceri, cambia idea continuamente. Vuole il sesso ma non l’amore, e si arrabbia quando si innamora di un soldato canadese burlone con le sue stesse fossette (Jean-Marc Barr). Sammi Davis (era la prostituta adolescente bionda in Mona Lisa, e la ragazza cieca in A Prayer for the Dying) rende la schiettezza di Dawn in modo spiritosamente sfacciato; riesce a trasformare quasi ogni battuta in una stoccata. E, nel ruolo dell’amica di Grace, Molly, Susan Wooldridge (era Daphne Manners in The Jewel in the Crown) ha dei momenti in cui è quasi altrettanto sfrontata e diretta di Dawn. Alcuni personaggi—come il marito di Molly, Mac (Derrick O’Connor)—non hanno momenti comici e perciò risultano poco incisivi. E non tutte le interpretazioni sono memorabili.
(Sarah Miles è teatrale senza essere davvero un’attrice.) Ma si ha la sensazione di vedere queste persone con occhi rinnovati. Il Bill di Sebastian Rice Edwards è tutto ciò che dovrebbe essere: divertente, determinato, con un viso aperto. E anche se il ruolo di Sue è meno impegnativo, Geraldine Muir è una piccola attrice spassosa. La sua interpretazione di ciò che vede attraverso il buco della serratura, prima osservando Dawn e il canadese, poi Mamma e Papà, è un piccolo classico.
Il film in sé è grande—una visione comica su larga scala, con palloni da sbarramento alti trenta metri come parte dell’atmosfera festosa. Nelle scene iniziali, i bambini in una sala cinematografica si lanciano pezzetti di carta, creando una bufera. Il tocco di Boorman qui è così sicuro che sembra quasi ci stia porgendo dei popcorn e dicendo: «Lanciali pure, se vuoi; basta che ti diverti».
The New Yorker, 7 ottobre 1987