16 ottobre 1943, rastrellamento degli ebrei a Roma

«Oggi 16 Ottobre prelevati Ebrei 1022»

Il brano che segue è tratto da «16 ottobre 1943» di Giacomo Debenedetti, Einaudi. Il libro racconta la retata nazista nel Ghetto di Roma che si concluse con la deportazione di oltre mille ebrei, uomini, donne, bambini.

«Zia scendi, i tedeschi portano via tutti…»

L’atroce sorpresa e i piccoli gesti delle vittime nell’ex ghetto romano

di Giacomo Debenedetti

Egli ebrei dormivano né loro letti verso la mezzanotte del venerdì 15 ottobre, allorché dalle strade cominciarono a udirsi schioppettate e detonazioni. Dal 25 luglio, quando Badoglio aveva messo il coprifuoco, e più ancora dall’8 settembre, quasi ogni notte si sentivano spari per le vie e si diceva ch’erano contro la gente che circolava oltre l’ora senza permesso. Ma quegli spari abituali rimanevano isolati, come i rintocchi dell’ora, e di rado giungevano così vicini, e mai così insistenti. Questi invece si intensificano, si stringono, si sovrappongono, diventano una vera sparatoria. E fossero solo spari, ma qualche cosa di più sinistro vi si mescola: colpi che partono secchi, per propagarsi poi quasi ondulati e fare dentro il buio un cratere cupo e svasato. Barùch dajàn emèd, sembra di stare in mezzo a una battaglia. Qualcuno si alza a sedere sul letto. Ma dell’avviso portato sul far della sera dalla piazza di Trastevere, nessuno si ricorda più.

I coraggiosi si avvicinano alle finestre. Pallottole e schegge sibilano e guaiscono a pochi centimetri dalle persiane, si piantano nei vecchi intonachi delle facciate. Attraverso le persiane chiuse si vedono nella via, sotto la pioggia fine e viscida, tra i bagliori della fucileria e gli sprazzi dei petardi, drappelli di soldati che sparano in aria e lanciano bombe a mano verso i marciapiedi.

Dagli elmetti, si direbbe che sono tedeschi; ma l’occhiata è stata rapida, non è prudente rimanere presso la finestra. Ora i jorbetìn si sono messi anche a urlare e schiamazzare: voci e grida squarciate, colleriche, sarcastiche, incomprensibili. Che vogliono? con chi ce l’hanno? dove vanno?

Nelle case ormai tutti sono in piedi. I vicini si riuniscono per farsi coraggio, e viceversa non riescono che a farsi paura a vicenda. I bambini strillano. Che si può dire ai bambini per azzittarli, quando non si sa che dire a se stessi?

Stai buono, ora vanno a Monte Savello, vanno a Piazza Cairoli, tra poco tutto finisce, vedrai. Ma non finisce affatto. Quelli pare che si allontanino, e poi rieccoli, e intanto la sparatoria non è mai cessata. Facessero qualche cosa, sfondassero una porta, una saracinesca, una bottega, almeno si capirebbe il perché. Ma no, sparano, urlano, nient’altro. È come il mal di denti, che non si sa quanto può durare, quanto può peggiorare. Questo non capire è il peggiore degli incubi. Una donna che si è sgravata da poche ore non resiste più all’ossessione, si butta giù dal letto, afferra il neonato, corre nel tinello di una vicina, ma lì si sviene. Le donne la soccorrono: il cognac, la borsa calda, questa almeno è la vita di tutti i giorni, sono i mali di cui si sa il rimedio. Ma quelli giù sparano sempre e urlano da due ore, da tre ore, da più di tre ore.

Ogni anno, alla mensa pasquale – chi ha fatto venga e mangi – si ripone una mezza azzima. Una credenza tramandata da chi sa che antico tempo, forse da quando gli ebrei facevano ancora gli agricoltori, vuole che un boccone di quell’azzima, buttato dalla finestra, acqueti gli uragani, le tempeste, le grandinate, che distruggono il pane, spogliano le viti e gli ulivi, portano la carestia e forse la morte. Chi sa se quella notte qualcuno pensò di estrarre dal cassetto l’azzima avanzata dalla Pasqua precedente – da quando, per l’ultima volta, si era commemorata l’uscita dall’Egitto, la liberazione dei Faraoni – e di lanciarla contro quel finimondo. Il grano era mietuto, le viti vendemmiate; ma un altro raccolto era da salvare, quella progenitura di Israele, che ai Patriarchi era stata promessa numerosa come la rena del mare. Ma se da una finestra fosse caduta l’azzima innocente, i tedeschi avrebbero mirato coi moschetti e i mitragliatori, avrebbero scagliato le bombe a mano contro quella finestra.

Loro soli sapevano la ragione di quell’inferno. E forse la vera ragione era proprio che non ce ne fosse nessuna: l’inferno gratuito, perché riuscisse più misterioso, e perciò più intimidatorio. La gente lì per lì suppose che volesse essere un dispetto, una beffa contro gli ebrei. Più tardi, con la logica e il senno del poi, si pensò che i tedeschi si proponessero di spaventare la gente di Ghetto e – caso mai qualcosa fosse trapelato dei progetti per l’indomani – costringerla a tapparsi in casa, per prenderla tutta.

Verso le 4 del mattino, la sparatoria si placò. Faceva freddo, l’umidità della notte piovosa attraversava i muri. Nella levataccia, tutti erano rimasti in camicia e ciabatte, con appena qualche scialletto o pastrano sulle spalle. I letti abbandonati avevano forse custodito un po’ di tepore. Stanchi, con quel senso di cavo e di disseccato che lascia dentro le orbite una grossa emozione, con le ossa peste, battendo i denti, ciascuno tornò alla sua casa, nel proprio letto. Tra due ore sarebbe stato giorno, qualche cosa si sarebbe finalmente saputa. E poi, a ripensarci, non era capitato niente.

Pare che il primo allarme l’abbia dato una donna di nome Letizia, che il vicinato chiama Letizia l’Occhialona: una grossa ragazza attempata, tutta tumida di tratti e di forme, con gli occhi fissi e i labbroni all’infuori, che le immobilizzano sulla faccia un sorriso inerte e senza comunicativa. Dal quale esce una voce assente, contrariata, estranea a ciò che dice. Verso le 5, costei fu udita gridare:
«Oh Dio, i mamonni!».

«Mamonni» in gergo giudìo-romanesco significa gli sbirri, le guardie, la forza pubblica. Erano infatti i tedeschi che, col loro passo pesante e cadenzato (conosciamo persone per chi questo passo è rimasto il simbolo, lo spavento equivalente auditivo del terrore tedesco), cominciavano a bloccare strade e case del Ghetto. Il proprietario di un piccolo caffè del Portico di Ottavia – un «ariano» che, dalla posizione privilegiata del suo locale, ha potuto assistere a tutto lo svolgersi delle operazioni – era giunto poco prima da Testaccio, dove abita. Transitando per Monte Savello e per il Portico, non aveva notato nulla di anormale. (Ci sarebbe stato il tempo per salvarsi, dopo la sparatoria? o il quartiere era già circondato?). Dice che i passi cadenzati, lui cominciò a sentirli verso le 5 e mezzo (sulle ore non è stato possibile mettere d’accordo i testimoni; quel tempo di sciagura deve essere stato terribilmente elastico, soggetto a valutazioni soltanto psicologiche). Non aveva ancora aperto la bottega, stava mettendo sotto pressione la macchina dell’espresso: socchiuse un battente, e vide.

Vide lungo i marciapiedi due file di tedeschi: a occhio e croce, forse un centinaio. Nel mezzo della via stavano gli ufficiali, che disposero sentinelle armate a tutti i canti di strada. I radi passanti si fermavano a guardare i tedeschi non si interessavano di loro. Solo più tardi cominciarono ad acciuffare chi portasse involti o valigie, indizi di tentata fuga.

Noi seguiteremo a parlare del Ghetto, perché fu l’epicentro della razzia. Ma in altri punti della città il lavoro si era iniziato parecchie ore prima. Risulta, per esempio, che un avvocato, Sternberg Monteldi, da Trieste, era stato preso fin dalle 23 della sera precedente all’Albergo Vittoria, dove abitava con la moglie. Qui cominciano gli interrogativi sui criteri e sul modo come la razzia venne regolata. L’avvocato e la signora erano muniti di passaporto svizzero, quindi non figuravano sui registi della popolazione romana; non avevano fatto denunce razziali, quindi non risultavano ebrei. Come giunsero i loro nomi alle SS? Quanto alla procedura, si sa che in questo caso il fermo venne intimato in maniera durissima: i coniugi furono costretti a vestirsi alla presenza dei militi, che tenevano le armi puntate su di loro.

Questo inizio anticipato avrebbe potuto gravemente pregiudicare i piani tedeschi. Sarebbe bastato che la notizia se ne propalasse come avvenne la mattina successiva, che subito, non appena cominciata l’azione in grande, corse tutta la città, permettendo ad amici e perfino a commissari di P.S. di avvertire parecchi interessati, quelli almeno a cui si poteva telefonare. Giunto la sera prima, un simile allarme avrebbe svuotato una buona metà delle case ebraiche. Invece l’arresto degli Sternberg, quantunque effettuato in un albergo, rimase segreto, le chiacchiere dei camerieri e del portiere di notte non bastarono a farlo trapelare, nemmeno gli uffici di Polizia, a quanto si dice ne ebbero sentore; sicché la mattina dopo i tedeschi poterono operare ordinatamente, secondo i piani prestabiliti e col più ampio successo.

Entriamo ora in una casa di via S. Ambrogio, nel Ghetto. Potremo seguire la razzia in tutte le sue fasi. Verso le 5 (ora psicologica, ripetiamo), la signora Laurina S. viene chiamata dalla strada. È una nipote che le grida: «Zia, zia, scendi! I tedeschi portano via tutti!». Questa ragazza, qualche momento prima, uscendo di casa in via della Reginella, aveva veduto portar via una intera famiglia con sei bambini, il maggiore dei quali di dieci anni. La signora S. si affaccia alla finestra. Vede ai lati del portoncino due tedeschi, armati di moschetto (o di mitra, non sa specificare). Qui si domanderà come abbia potuto la nipote gridare così dalla via, e parole tanto esplicite, alla presenza di due tedeschi (la via è angosciosamente stretta, un budello). Ripetiamo che i tedeschi, in massima, non rastrellarono la gente per via: fuor di casa furono presi soltanto quelli che, infelici, vollero farsi prendere. Né bisogna credere che la tragedia si sia svolta in un’atmosfera di muta e trasecolata solennità: le persone seguitavano a parlare tra di loro, a gridarsi degli avvisi, delle raccomandazioni, come nella vita di tutti i giorni. La fatalità svolgeva il suo lavoro sostanzioso, senza preoccuparsi del cerimoniale, senza badare alle inezie di forma. Il dramma entrava nella vita, vi si mescolava con una spaventosa naturalezza, che lì per lì non lasciava campo nemmeno allo stupore.

Dapprima la signora S. suppose, come tutti, che i tedeschi fossero venuti a portar via gli uomini per il «servizio del lavoro». Questa idea, sparsa probabilmente ad arte, fu la rovina di molte famiglie, che non pensarono a mettere in salvo vecchi, donne e bambini. Comunque, fidando nella presunta immunità delle donne, la S. si rifà cuore, si veste alla meglio, prende carte annonarie e borsa della spesa, poi scende per cercare di capire di che si tratti. Qualche giorno prima è caduta, trascina una gamba ingessata.

Giunta per via, si avvicina ai tedeschi di sentinella, offre loro da fumare, quelli accettano. Dei due, l’uno poteva avere un venticinque anni, l’altro ne dimostrava una quarantina. Come in tutte le Mie Prigioni c’è sempre un carceriere buono, così in questa razzia ci saranno le SS di gran cuore: questi due, per esempio. La leggenda formatasi poi nel Ghetto ha deciso che fossero due austriaci.

«Portare via tutti ebrei…» risponde il più anziano alla donna. Costei si batte la palma sull’ingessatura: «Ma io gamba rotta… Andare via con la mia famiglia… ospedale…».

«Ja, ja» annuisce l’«austriaco», e con la mano le fa cenno di svignarsela. Mentre aspetta la famiglia, la S. pensa di mettere a frutto la sua amicizia con i due soldati per veder di salvare qualche vicino. Chiama anche lei dalla strada: «Sterina! Sterina!».

«Che c’è?» fa quella dalla finestra. «Scappa, che prendono tutti!».

«Un momento, vesto pupetto, e vengo»:

Purtroppo vestire pupetto le fu fatale: la signora Sterina fu presa con pupetto e con tutti i suoi.

Dalla via del Portico di Ottavia giungono lamenti mischiati con grida. La signora S. si affaccia all’angolo della via Sant’Ambrogio col Portico. Com’è verso che prendono tutti, ma proprio tutti, peggio di quanto si potesse immaginare. Nel mezzo della via passano, in fila indiana un po’ sconnessa, le famiglie rastrellate: una SS in testa e una in coda sorvegliano i piccoli manipoli, li tengono suppergiù incolonnati, li spingono avanti coi calci dei mitragliatori, quantunque nessuno opponga altra resistenza che il pianto, i gemiti, le richieste di pietà, le smarrite interrogazioni. Già sui visi e negli atteggiamenti di questi ebrei, più forte ancora che la sofferenza, si è impressa la rassegnazione. Pare che quell’atroce, repentina sorpresa già non li stupisca più. Qualche cosa in loro si ricorda di avi mai conosciuti, che erano andati con lo stesso passo, cacciati da aguzzini come questi, verso le deportazioni, la schiavitù, i supplizi, i roghi. Le madri, o talvolta i padri, portano in braccio i piccini, conducono per mano i più grandicelli. I ragazzi cercano negli occhi dei genitori una rassicurazione, un conforto che questi non possono più dare: ed è anche più tremendo che dover dire: «non ce n’è» ai figli che chiedono pane.

D’altronde è questione di tempo: se non li uccidono prima, verrà l’ora anche per questo. Taluno bacia le proprie creature: un bacio che cerca di nascondersi ai tedeschi, un ultimo bacio tra quelle vie, quelle case, quei luoghi che li hanno veduti nascere, sorridere per la prima volta alla vita. E certi padri tengono la mano sul capo dei figlioli, col medesimo gesto con cui nei giorni solenni hanno impartito la Birchàd Choanìm: «Ti benedica il Signore e ti protegga…» – quella che invoca, per i figli di Israele, e promette la pace.

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Violenza e inganno

I tedeschi tentano di dare atta razzia il carattere di un “trasferimento”. A questo fine consegnano ad ogni ebreo arrestato un foglio di disposizioni bilingue.

Eccone il contenuto:
1. Insieme con la vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti
2. Bisogna portare con sé viveri per almeno 8 giorni, tessere annonarie, carta d’identità e bicchieri.
3. Si può portare via una valigetta con effetti e biancheria personali, coperte, eccetto., danaro e gioielli.
4. Chiudere a chiave l’appartamento e prendere la chiave con sé.
5. Ammalati, anche casi gravissimi, non possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova nel campo.
6. Venti minuti dopo la presentazione di questo biglietto, la famiglia deve essere pronta per la partenza.

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Il viaggio allucinante

Su questa sosta a Padova c’è la annotazione sul suo diario giornaliero della ispettrice della Croce rossa Lucia De Marchi, quel giorno in servizio:

«Alle ore 12, non preannunciato, sosta alla nostra stazione centrale un treno di internati ebrei proveniente da Roma, dopo lunghe discussioni ci viene dato il permesso di soccorso, alle 13 si aprono i vagoni chiusi da 28 ore! in ogni vagone stanno ammassate una cinquantina di persone, bambini, donne, vecchi, uomini giovani e maturi, mai spettacolo più raccapricciante s’è offerto ai nostri occhi. È la borghesia strappata alle case, senza bagaglio, senza assistenza, condannata alla promiscuità più offensiva, affamata e assetata. Ci sentiamo disarmate e insufficienti per tutti i loro bisogni, paralizzati da una pietà fremente di ribellione, da una specie di terrore che domina tutti, vittime, personale ferroviario, spettatori, popolo»

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