Storia della lettura nel mondo occidentale, curato da Guglielmo Cavallo e Roger Chartier per Laterza nel 1995, rappresenta un’opera pionieristica che ha profondamente rinnovato il modo di concepire e studiare la storia culturale dell’Occidente. Il volume si distingue per l’ambizione del suo progetto: tracciare una storia di lunga durata delle pratiche di lettura dall’antichità greca fino alla rivoluzione digitale contemporanea, superando la tradizionale storia del libro per concentrarsi sui lettori e sulle loro modalità concrete di appropriazione dei testi.
L’intuizione fondamentale che guida l’intera opera è che la lettura non costituisce un’invariante antropologica, una pratica immutabile nel tempo, ma piuttosto un insieme di gesti, competenze e convenzioni storicamente determinati che si trasformano in relazione ai mutamenti tecnologici, sociali e culturali. Questa prospettiva rovescia l’approccio tradizionale della storia letteraria, che tendeva a considerare il testo come entità autonoma dotata di un significato intrinseco, per sottolineare invece come ogni testo acquisti significato solo nell’incontro con i suoi lettori, i quali lo interpretano secondo modalità e codici propri del loro tempo e del loro ambiente sociale.
Il riferimento iniziale a Michel de Certeau non è casuale: la distinzione tra la scrittura che accumula e conserva e la lettura come pratica nomade e creativa fornisce il quadro teorico entro cui si muove l’intera ricerca. I curatori sviluppano questa intuizione mostrando come i lettori non siano mai confrontati con testi astratti ma sempre con oggetti materiali specifici – rotoli, codici, libri stampati, schermi – le cui forme influenzano profondamente le possibilità di comprensione e interpretazione. Questa attenzione alla materialità del testo e alle sue trasformazioni costituisce uno degli apporti più innovativi del volume, che anticipa molti sviluppi successivi della storia del libro e della bibliografia materiale.
La struttura cronologica dell’opera permette di seguire le grandi trasformazioni che hanno segnato la storia della lettura occidentale. Il mondo greco-romano emerge come laboratorio iniziale dove si sperimentano diverse modalità di rapporto con lo scritto: dalla lettura come performance vocale e sociale alla graduale affermazione di pratiche silenziose e individuali, dalla funzione inizialmente conservativa del libro alla sua progressiva trasformazione in strumento di lettura effettiva. L’analisi del vocabolario greco per indicare l’atto del leggere – dal semplice “distribuire” al “percorrere attentamente” – rivela una sofisticata consapevolezza delle diverse modalità di appropriazione del testo già nell’antichità.
Il passaggio al medioevo segna una cesura fondamentale, particolarmente nell’Occidente latino dove la lettura si ritira negli spazi monastici e assume connotazioni prevalentemente spirituali. L’affermazione della lettura silenziosa, favorita dalla struttura del codice e dalle esigenze della vita monastica, rappresenta una trasformazione capitale che avrà conseguenze durature. Significativo è il contrasto con Bisanzio, dove la continuità con le pratiche antiche mantiene viva la lettura ad alta voce e un rapporto più secolare con il libro. Questa comparazione illumina come percorsi storici diversi producano culture della lettura radicalmente differenti anche all’interno del mondo cristiano.
La rinascita urbana e universitaria dei secoli XI-XIV introduce nuove pratiche che trasformano il libro in strumento di lavoro intellettuale. L’elaborazione di complessi apparati di consultazione – indici, sommari, rinvii – e la nascita delle biblioteche universitarie con libri incatenati ma accessibili segnano l’emergere di una lettura di studio sistematica e silenziosa. Parallelamente, lo sviluppo della letteratura in volgare e delle biblioteche signorili testimonia la diversificazione dei pubblici e delle funzioni della lettura.
L’analisi delle “rivoluzioni della lettura” in età moderna costituisce uno dei contributi più originali del volume. La prima rivoluzione, che precede Gutenberg, riguarda la generalizzazione della lettura silenziosa; la seconda, nel XVIII secolo, il passaggio dalla lettura intensiva alla lettura estensiva; la terza, contemporanea, l’avvento del digitale. Tuttavia, i curatori mostrano come queste trasformazioni non siano lineari né assolute: già gli umanisti del Rinascimento praticavano forme di lettura estensiva con la tecnica dei luoghi comuni, mentre il romanzo settecentesco genera paradossalmente nuove forme di lettura intensiva ed emotiva.
Particolarmente illuminante è l’analisi dei modelli di lettura che si succedono e si sovrappongono nel tempo. Il modello umanistico, con i suoi emblemi della ruota da libri e del quaderno dei luoghi comuni, rivela una pratica erudita di accumulo e confronto testuale che anticipa per certi versi l’ipertestualità contemporanea. Le letture spirituali delle riforme religiose mostrano come le pratiche di lettura siano profondamente intrecciate con le trasformazioni religiose e come le differenze più significative non corrano necessariamente lungo le linee confessionali tradizionali ma attraversino trasversalmente il mondo cristiano.
L’attenzione alla dialettica tra costrizioni e libertà nella pratica della lettura costituisce un altro elemento di forza dell’opera. Le censure ecclesiastiche e statali, le strategie editoriali, le convenzioni formali dei testi pongono limiti all’interpretazione, ma i lettori mantengono sempre margini di libertà nell’appropriarsi dei testi, nel reinterpretarli, nel sovvertirne i significati previsti. Questa tensione tra controllo e creatività attraversa l’intera storia della lettura e assume forme diverse nelle varie epoche.
Il volume anticipa con notevole lungimiranza le trasformazioni contemporanee della lettura digitale, cogliendone le potenzialità rivoluzionarie: la possibilità per il lettore di intervenire attivamente sul testo, l’abolizione della distinzione tra luogo del testo e luogo del lettore, la realizzazione potenziale dell’antica utopia della biblioteca universale. Queste riflessioni, formulate quando la rivoluzione digitale era ancora agli inizi, si sono rivelate profetiche.
L’opera ha avuto un impatto duraturo sugli studi storici e culturali, contribuendo a fondare la storia della lettura come campo disciplinare autonomo e influenzando profondamente il modo di concepire la storia culturale. La sua forza risiede nella capacità di intrecciare approcci diversi – storia sociale, bibliografia materiale, storia delle mentalità – in una sintesi originale che illumina aspetti fondamentali della civiltà occidentale. Mostrando come le società occidentali siano state fin dall’antichità società della lettura, ma come questa lettura si sia continuamente trasformata, il volume offre una chiave interpretativa potente per comprendere le grandi trasformazioni culturali, religiose e politiche dell’Occidente.
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Ben lungi dall’essere scrittori, fondatori di un luogo proprio, eredi, sul terreno del linguaggio, dei contadini del passato, scavatori di pozzi e costruttori di dimore, i lettori sono viaggiatori: circolano sulle terre altrui, come nomadi che cacciano di frodo attraverso i campi che non hanno scritto, razziando i beni d’Egitto per trarne godimento. La scrittura accumula, immagazzina, resiste al tempo stabilendo un luogo e moltiplica la sua produzione mediante l’espansionismo della riproduzione. La lettura non si garantisce contro l’usura del tempo (ci si dimentica e la si dimentica), non conserva o conserva male quanto ha acquisito e ciascuno dei luoghi ove passa è ripetizione del paradiso perduto¹.
Questo testo di Michel de Certeau stabilisce una distinzione fondamentale fra la traccia scritta, qualunque essa sia, fissa, durevole, conservatrice, e i suoi lettori, posti sempre nella categoria dell’effimero, della pluralità, dell’invenzione. Definisce così il progetto di questo libro, scritto a più mani, che poggia su due idee fondamentali. La prima è che la lettura non è già iscritta nel testo, senza che esista scarto pensabile tra il senso ad esso attribuito (dall’autore, dall’editore, dalla critica, dalla tradizione…) e l’uso o l’interpretazione che i suoi lettori possono farne. La seconda riconosce che un testo esiste solo in quanto c’è un lettore che gli dà un significato:
Che si tratti del giornale o di Proust, il testo non ha un senso che per i suoi lettori; cambia insieme ad essi; si ordina secondo codici di percezione che gli sfuggono. Diventa testo soltanto nel suo rapportarsi all’esteriorità del lettore, attraverso un gioco di implicazioni e di astuzie fra due tipi combinati di «aspettativa»: quella che organizza uno spazio leggibile (una letteralità) e quella che organizza un metodo necessario all’effettuazione dell’opera (una lettura)2.
Il compito degli storici che hanno contribuito a quest’opera è consistito dunque nella ricostruzione delle diverse maniere di leggere che hanno caratterizzato le società occidentali a partire dall’antichità, nelle loro differenze e peculiarità.
Per portare a termine una simile ricerca occorre concentrare l’attenzione sulla maniera in cui avviene l’incontro fra il «mondo del testo» e il «mondo del lettore» — per riprendere le definizioni di Paul Ricoeur3. Ricostruire nelle sue dimensioni storiche un tale processo impone, in primo luogo, di considerare che i significati dei testi dipendono dalle forme e dalle circostanze attraverso le quali i loro lettori (o ascoltatori) li recepiscono e se ne appropriano. Questi ultimi non si confrontano mai con testi astratti, ideali, distaccati da ogni materialità: maneggiano oggetti, ascoltano parole le cui modalità informano la lettura e l’ascolto e, ciò facendo, governano la possibile comprensione del testo. Contro una definizione puramente semantica del testo — che ha dominato non soltanto la critica strutturalista in tutte le sue varianti, ma anche le teorie letterarie più desiderose di ricostruire la ricezione delle opere — bisogna tenere presente il fatto che le forme producono senso e che un testo è investito di un significato e di uno statuto inediti quando cambiano i supporti che lo propongono alla lettura. Ogni storia delle pratiche della lettura è dunque, necessariamente, una storia degli oggetti scritti e delle parole lettrici.
Bisogna tenere presente, inoltre, il fatto che la lettura è sempre una pratica incarnata in determinati gesti, spazi, abitudini. Prendendo le distanze da un approccio fenomenologico, che cancella le modalità concrete della lettura, considerata un’invariante antropologica, bisogna identificare le disposizioni specifiche che distinguono le comunità di lettori, le tradizioni di lettura, le maniere di leggere.
Questo metodo presuppone il riconoscimento di diverse serie di contrasti. In primo luogo, fra le competenze di lettura. La dicotomia, essenziale ma rudimentale, fra alfabeti e analfabeti non esaurisce le differenze relative al rapporto con lo scritto. Non tutti coloro che possono leggere i testi li leggono alla stessa maniera e, in ogni epoca, è grande lo scarto fra i letterati virtuosi e i lettori meno abili. Contrasti, in secondo luogo, fra norme e convenzioni di lettura che definiscono, per ogni comunità di lettori, usi legittimi del libro, maniere di leggere, strumenti e procedure di interpretazione. Contrasti, infine, fra le aspettative e gli interessi assai diversi che i differenti gruppi di lettori investono nella pratica della lettura. Da queste determinazioni, che governano le pratiche, dipendono le maniere in cui i testi possono essere letti, e letti diversamente da lettori che non condividono le stesse tecniche intellettuali, che non intrattengono una stessa relazione con lo scritto, che non attribuiscono né lo stesso significato né lo stesso valore ad un gesto apparentemente identico: leggere un testo.
Una storia di lunga durata delle letture e dei lettori deve dunque occuparsi della storicità dei modi di utilizzazione, comprensione e appropriazione dei testi. Essa considera il «mondo del testo» come un mondo di oggetti, di forme, di rituali le cui convenzioni e i cui concatenamenti indirizzano e condizionano la costruzione del senso. Essa considera, d’altra parte, che il «mondo del lettore» si compone di «comunità di interpretazione» — secondo l’espressione di Stanley Fish4 — cui appartengono i singoli lettori e lettrici. Ognuna di queste comunità condivide, nel suo rapporto con lo scritto, uno stesso insieme di competenze, usi, codici, interessi. Da ciò deriva, in tutto questo libro, una duplice attenzione: alle materialità dei testi, alle pratiche dei loro lettori.
«Nuovi lettori producono nuovi testi, e i loro nuovi significati sono funzione delle loro nuove forme»5. Donald F. McKenzie ha così definito, con grande acume, il doppio insieme di variazioni — variazioni di forme dello scritto, variazioni di identità di pubblici — che ogni storia desiderosa di restituire il significato mobile e plurale dei testi deve prendere in considerazione. In questo libro abbiamo profittato in vari modi di questa constatazione: portando in luce i contrasti fondamentali che oppongono, nella lunga durata, diverse maniere di leggere; caratterizzando nei loro scarti le pratiche di diverse comunità di lettori all’interno di una stessa società; ponendo attenzione alla trasformazione delle forme e dei codici che modificano, al tempo stesso, lo statuto e il pubblico dei diversi generi testuali.
Una simile prospettiva, chiaramente iscritta nella tradizione della storia del libro, tende tuttavia a spostarne le questioni e le metodologie. La storia del libro, difatti, si è data a lungo come oggetto la misurazione della presenza ineguale del libro nei diversi gruppi che compongono una società. Ne è scaturita la costruzione, del resto indispensabile, di indicatori atti a rivelare gli scarti culturali: così, per un luogo e un tempo stabilito, il possesso ineguale del libro, la gerarchia delle biblioteche in funzione del numero di opere in esse contenute o ancora, la caratterizzazione tematica delle collezioni a partire dallo spazio che vi occupano le diverse categorie bibliografiche. In questa prospettiva, riconoscere le letture significa, anzitutto, costituire serie, fissare soglie, produrre statistiche. Si tratta, in sostanza, di ricercare le traduzioni culturali delle differenze sociali.
Un simile approccio ha portato all’accumulazione di un sapere senza il quale gli altri interrogativi sarebbero stati impensabili — e questo libro impossibile. Tuttavia, esso non basta a scrivere una storia delle pratiche di lettura. Anzitutto, esso postula implicitamente che le dicotomie culturali corrispondano necessariamente a classificazioni sociali predeterminate. Le differenze fra le pratiche vengono quindi poste in relazione con opposizioni sociali costruite a priori, sia a livello di contrasti macroscopici (tra dominanti e dominati, élites e popolo), sia a livello di differenziazioni più sottili (ad esempio fra gruppi sociali, gerarchizzati attraverso le distinzioni di condizione sociale, di mestiere, economiche).
Si dà il caso però che le differenziazioni culturali non si ordinino necessariamente secondo una griglia prestabilita di ripartizione del sociale, cui si attribuisce il potere di governare sia la presenza ineguale degli oggetti che la diversità delle pratiche. La prospettiva deve essere rovesciata, individuando gli ambienti o le comunità che condividono uno stesso rapporto con lo scritto. Partire così dalla circolazione degli oggetti e dall’identità delle pratiche, e non dalle classi o dai gruppi, porta a riconoscere la molteplicità dei principi di differenziazione che possono rendere conto degli scarti culturali: ad esempio, le appartenenze di genere o di generazione, le adesioni religiose, le solidarietà comunitarie, le tradizioni educative o corporative…
Per ciascuna delle «comunità di interpretazione» così identificate, il rapporto con lo scritto ha luogo attraverso determinate tecniche, gesti, maniere di essere. La lettura non è soltanto un’operazione intellettuale astratta: essa è messa in gioco del corpo, iscrizione in uno spazio, rapporto con se stessi o con gli altri. È il motivo per cui, in questo libro, un’attenzione particolare è stata rivolta alle maniere di leggere scomparse, o quanto meno marginalizzate, nel mondo contemporaneo. Ad esempio, la lettura ad alta voce, nella sua duplice funzione: comunicare lo scritto a chi non sa decifrarlo, ma anche cementare forme chiuse di socialità, che corrispondono ad altrettante figure del privato — l’intimità familiare, la convivialità mondana, la connivenza erudita. Una storia della lettura non deve limitarsi alla genealogia della nostra maniera contemporanea di leggere, in silenzio e attraverso gli occhi. Essa ha anche, e forse soprattutto, il compito di ritrovare i gesti dimenticati, le abitudini scomparse. La posta è alta, perché rivela non soltanto l’estraneità distante delle pratiche anticamente comuni, ma anche lo statuto principale e specifico dei testi composti per letture che non sono più quelle dei loro lettori di oggi. Nel mondo antico, nel medioevo, ancora nei secoli XVI e XVII, la lettura implicita, ma anche effettiva, di numerosi testi è un’oralizzazione, e i loro «lettori» sono ascoltatori di una voce lettrice. Così, rivolgendosi all’orecchio altrettanto che all’occhio, il testo gioca con forme e formule adatte a sottoporre lo scritto alle esigenze proprie della performance orale.
Qualunque cosa essi facciano, gli autori non scrivono libri. I libri non sono affatto scritti. Sono confezionati da scribi e altri artigiani, operai e altri tecnici, stampatrici e altri macchinari⁶.
Contro la rappresentazione, elaborata dalla letteratura stessa e ripresa dalla più quantitativa delle storie del libro, secondo la quale il testo esiste di per sé, svincolato da ogni materialità, bisogna ricordare che non vi è testo senza il supporto che lo offre alla lettura (o all’ascolto), senza la circostanza in cui esso viene letto (o ascoltato). Gli autori non scrivono libri: essi scrivono testi che diventano oggetti scritti — manoscritti, incisi, stampati e, oggi, informatizzati — maneggiati in maniere diverse da lettori in carne ed ossa le cui modalità di lettura variano secondo i tempi, i luoghi, i contesti.
È questo il processo, troppo spesso dimenticato, che abbiamo posto al centro della nostra opera, la quale mira a rintracciare, all’interno di ciascuna delle sequenze cronologiche considerate, i mutamenti fondamentali che hanno trasformato le pratiche di lettura nel mondo occidentale e, al di là di esse, i rapporti con lo scritto. Da ciò deriva l’organizzazione al tempo stesso cronologica e tematica del nostro volume, articolato in tredici capitoli che vanno dall’invenzione della lettura silenziosa nella Grecia antica fino alle pratiche nuove, consentite e imposte al tempo stesso dalla rivoluzione elettronica del nostro presente.
Il mondo greco e ellenistico: la diversità delle pratiche
«Ogni logos, una volta scritto, si rotola (kulindeitai) dovunque, presso quanti lo intendono, così come presso coloro con cui non ha niente a che fare, e non sa a chi deve e a chi non deve parlare». Questa considerazione, messa da Platone sulla bocca di Socrate nel Fedro, è tutta giocata sul verbo kulindo, «rotolare», il quale viene efficacemente a significare il libro in forma di rotolo che, nel suo itinerario verso i lettori, metaforicamente «si rotola» in ogni direzione, mentre il suo «parlare», legein, non può che riferirsi alla lettura orale, ad alta voce (e che perciò è meglio indicare d’ora in avanti con l’espressione «lettura vocale»). Continua Platone, «se il logos scritto viene offeso (plemmelemumenos) o viene ingiustamente attaccato, ha sempre bisogno dell’aiuto del padre; esso infatti non è capace di respingere un attacco o di difendersi da sé» (Fedro, 275d 4 e 5); frase in cui l’uso del verbo plemmeleo, alla lettera «stonare nell’esecuzione musicale», adombra a sua volta una lettura nella quale l’interpretazione vocale, ove «stonata», vale a dire non consona all’intento dell’autore, può travisare e perciò offendere il discorso scritto.
Il passo di Platone suscita, direttamente o indirettamente, anche altre questioni fondamentali per la storia della lettura nel mondo greco classico. Si deve riflettere, innanzi tutto, sul rapporto tra i sistemi di comunicazione nei termini non soltanto di oralità/scrittura ma all’interno della stessa oralità, che viene a porsi in maniera diversa secondo che essa si esprima come discorso meramente parlato o come resa vocale di uno scritto da parte di un individuo-lettore. Il discorso parlato — quello inteso da Platone come «discorso di verità», utile al processo cognitivo — sceglie i suoi interlocutori, può studiarne le reazioni, chiarirne le domande, contestarne gli attacchi. Il discorso scritto, invece, è come un dipinto: se gli si rivolge una domanda, non risponde, e non fa altro che ripetere se stesso all’infinito. Diffuso su un supporto materiale, inerte, lo scritto non sa a chi deve rivolgersi perché in grado di intenderlo, e a chi non deve parlare perché incapace di recepirlo: non sa insomma chi, nel suo diffondersi incontrollato, gli fornirà lo strumento della voce, chi ne farà emergere un senso mediante la lettura. Ogni lettura costituisce dunque un’interpretazione diversa del testo, direttamente condizionata dal lettore. In positivo — nonostante le riserve di Platone — il libro gode della libertà di «rotolarsi» in ogni direzione, e si presta ad una lettura libera, ad una interpretazione e ad un uso del testo liberi.
Questa novità di un libro che veicola un logos scritto, destinato alla lettura, ha altre implicazioni. È il momento, questo, in cui viene a restringersi la divaricazione — quale si ricostruisce per la Grecia dal secolo VI fino al tardo V a.C. — tra una scarsa presenza del libro e, di contro, una piuttosto larga diffusione dell’alfabetismo e di pratiche di lettura di iscrizioni ufficiali o private fors’anche al livello dei ceti urbani inferiori. Si tratta di una divaricazione che tocca, più in profondità, la funzione stessa della scrittura in quest’epoca. La produzione di scritte esposte alla pubblica lettura e soprattutto le maniere formali di esposizione e le tipologie di messaggio di queste scritte costituiscono uno degli aspetti qualificanti della democrazia ateniese a partire dalla sua istituzione (508/507 a.C.).
Se, come scrive Jesper Svenbro, la scrittura è «posta al servizio della cultura orale […] per contribuire alla produzione di suono, di parole efficaci, di gloria riecheggiante», questa funzione riguarda la composizione scritta nella fase di «auralità» (pubblicazione orale) della produzione testuale greca: si tratta soprattutto di epica o più latamente di opere in versi; e in questa categoria possono rientrare anche iscrizioni o microtesti iscritti su oggetti. Ma la funzione della scrittura, e del libro in particolare, fu anche altra; e fu quella della conservazione del testo. La Grecia antica ebbe netta coscienza che la scrittura era stata «inventata» per fissare i testi e richiamarli, così, alla memoria, in pratica conservarli. Sicure in questo senso si dimostrano testimonianze antiche relative ad esemplari di opere, poetiche o scientifico-filosofiche, dedicate e conservate nei templi, così come all’uso della sphregis, il «sigillo» dell’autore traguardato a garantire l’autenticità testuale dell’opera, che si giustifica solo, perciò, nella prospettiva di un libro destinato a conservare piuttosto che a far risuonare il testo scritto (anche se non se ne possono escludere forme di lettura pubblica ad alta voce, magari da parte dell’autore stesso).
Il tardo secolo V a.C. sembra segnare la linea di demarcazione tra un libro destinato quasi soltanto alla fissazione e conservazione dei testi e un libro destinato alla lettura⁷. Le illustrazioni vascolari attiche di quest’epoca documentano la transizione da scene che mostrano libri come testi d’uso scolastico, e dunque adoperati a fini educazionali ad un qualche livello, a scene di lettura vera e propria nelle quali compaiono figure prima solo maschili ma ben presto anche di donne-lettrici. Queste figure non sono isolate, ma appaiono in contesti rappresentativi di trattenimento e di conversazione, segno che la pratica della lettura era intesa soprattutto come occasione di vita sociale (o associativa). Pur non sconosciuta, la lettura tutta individuale risulta rara, almeno a giudicare dalle scarse — assai scarse, anzi — testimonianze superstiti, iconografiche o letterarie.
Un’altra questione inerisca alla modalità della lettura ad alta voce, la più diffusa in tutto l’arco dell’antichità. È stato rilevato ch’essa riposa sulla necessità di rendere comprensibile al lettore il senso di una scriptio continua indistinta e inerte senza il suono vocale. Ma ugualmente è testimoniata fin da età molto antica una lettura silenziosa⁸. È da chiedersi, da una parte, fino a che punto le due pratiche differiscano ai fini della lettura di una scriptio continua, e da un’altra se le due pratiche non siano state sempre compresenti e non dipendano soltanto dalle situazioni di lettura.
Le prime testimonianze di Euripide e di Aristofane inerenti ad una lettura silenziosa risalgono alla fine del V secolo a.C. e riguardano oggetti diversi dal libro (un messaggio su tavoletta ed un responso oracolare). Si tratta di testimonianze sicure. Ma è da domandarsi se a quella stessa epoca, in certe situazioni, non sia stata praticata anche una lettura silenziosa del libro. «Quando a bordo della nave leggevo per me stesso l’Andromeda» (di Euripide, rappresentata nel 413), confessa Dioniso nelle Rane di Aristofane (vv. 52-3); ed ancora: «nella solitudine voglio leggere (dielthein) questo libro per me stesso», esclama il protagonista in un frammento del Faone di Platone comico (fr. 173, 1-5 Kock), all’incirca contemporaneo di Aristofane, mentre poi, distratto dall’intervento di un interlocutore incuriosito, su richiesta di quest’ultimo, gli comincia a leggere ad alta voce il suo libro, un trattatello di arte culinaria. Non si può escludere che in questi casi l’espressione pros emauton, «per me stesso», rinvii ad una lettura non solo individuale ma anche silenziosa, ad una voce lettrice tutta interiorizzata e perciò rivolta solo a se stessi.
Si deve qui cogliere anche un’altra dimensione della lettura: alla Grecia antica non erano evidentemente sconosciute letture in viaggio e quindi, in qualche modo, «di intrattenimento», al di fuori di obblighi professionali, pur se Dioniso, dio strettamente connesso alla drammaturgia, è praticamente impegnato in una lettura che rientra nel suo «mestiere». Ma la questione è di carattere più ampio ed investe il problema delle fasce di lettori e dell’estensione delle pratiche di lettura a partire dal momento in cui i libri cominciano a diffondersi. Nei dialoghi di Platone i logoi scritti che vengono in considerazione sono solitamente testi filosofici, quelli che circolavano nell’ambito della Scuola Academica⁹. Ed invero le prime raccolte di libri, anche private, di cui si abbia notizia sono di tipo professionale, come si devono ritenere quelle, ad esempio, di Euripide e di Aristotele.
Alla stessa epoca, tuttavia, nasceva anche un altro modello di raccolta privata di libri. «Vuoi forse diventare rapsodo?», chiede Socrate ad Eutidemo; e aggiunge: «si dice, infatti, che possiedi tutto Omero» (Senofonte, Memorabili, IV, 2, 8-10). Eutidemo non vuole diventare rapsodo, ma la domanda di Socrate ha implicazioni altrimenti significative: quel che emerge infatti da questo dialogo, riferito da Senofonte, è il legame, scontato per Socrate, tra possesso di certi scritti (grammata) ed esercizio disciplinare o professionale, dalla medicina all’astrologia, dall’architettura e dalla geometria alla rapsodia. Ma Eutidemo, che rifiuta questa obbligata relazione, desidera solo procurarsi e leggere quanti più libri è possibile: una biblioteca, dunque, non soltanto professionale. Qualche altra testimonianza sembra andare più oltre. Nell’Eretteo di Euripide i versi «giaccia la lancia […], e appeso lo scudo tracio […], possa io dispiegare la voce delle tavolette onde traggono fama i sapienti» (fr. 60 Austin) non possono che riferirsi ad una lettura — ad alta voce — fuori da ogni implicazione professionale (pur se da tavolette e non da un rotolo). Il libro di arte culinaria di cui in Platone comico indica, d’altro canto, che già a quest’epoca — siamo all’inizio del IV secolo a.C. — circolavano certe letture «di consumo».
Il frammento del Faone porta il discorso su alcune maniere di leggere10. Il verbo dierchomai (infinito dell’aoristo dièlthein), qui adoperato dal commediografo, indica il leggere con la massima attenzione, «percorrere» il testo in ogni dettaglio, in contrasto — mirato ad ottenere l’effetto comico — con la banalità del libro che il protagonista vuol leggere: un modesto trattatello di culinaria. La varietà dei verbi utilizzati dai Greci per indicare il «leggere» implica significati o sfumature di significato diversi almeno nella prima fase del loro definirsi semantico. Verbi come nemein o i suoi composti (anamein, epinemein) indicano il leggere nel senso prevalente di «distribuire» il contenuto della scrittura, implicando per ciò stesso una lettura vocale; anagnignoskein focalizza il leggere come momento del «riconoscere», «decifrare» le lettere e le loro sequenze in sillabe, parole, frasi: un «riconoscere» che determinazioni avverbiali mostrano a livelli diversi, tacheos («rapidamente»), bradeos («a stento»), ortos («correttamente»), kata syllaben («sillaba dopo sillaba»); mentre verbi che utilizzano metafore spaziali, dierchomai e dieseimi, «percorrere», si riferiscono ad un testo «percorso», «attraversato dall’inizio alla fine» attentamente e perciò in profondità.
Sembra che in età antica da una pratica di lettura come «distribuzione di un testo» fatta da pochi alfabeti a molti analfabeti, si passi ad una lettura più diffusa e perciò come «riconoscimento» diretto delle lettere ad un qualche livello, fino — tra V e IV secolo a.C. — ad una lettura che nel «percorrere» attentamente il testo lo considera, lo esamina, lo scandaglia. Una testimonianza di Isocrate (Panatenaico, 246) non lascia dubbi sulla distinzione semantica anagnoskein/dieseimi, opponendo l’oratore «coloro che leggono superficialmente» il discorso a «coloro che invece lo percorrono tutto attentamente». In questo stesso ambito compare per la prima volta, con l’uso del verbo pateo al medio, l’immagine del libro «frequentato» di continuo (letteralmente «calpestato»), quindi letto e riletto più volte. Si tratta di una forma di lettura intensiva?
In ogni caso tutto questo mostra che la Grecia antica conobbe pratiche di lettura diverse, correlate alla diversità di competenze e di funzioni, a quanto si rileva dall’articolata gamma di possibilità espressive che la lingua documenta, pur se in epoca più tarda certi significati verbali originariamente distinti vennero ad essere usati l’uno per l’altro o vennero ad assumere sfumature di significato non sempre percepibili.
È difficile dire se gli usi nuovi e accresciuti di cultura scritta in età ellenistica – dimostrati soprattutto dalla produzione e dalla frequentazione di grandi quantità di documenti – abbiano contribuito non solo ad una più larga istruzione, e quindi all’estendersi di un insegnamento scolastico, ma anche ad una più vasta diffusione di pratiche di lettura. Si può osservare – ma senza enfatizzarne il significato – che qualche funzionario dell’amministrazione ha lasciato traccia di letture colte, Callimaco o Posidippo, nei suoi documenti.
Va sottolineato, piuttosto, che in età ellenistica, pur permanendo forme di oralità, il libro riveste ormai un ruolo fondamentale. La letteratura dell’epoca dipende ormai tutta dalla scrittura e dal libro: a questi strumenti sono affidati composizione, circolazione e conservazione delle opere. Anzi, la filologia alessandrina, nell’attribuire, ricontrollare, trascrivere, commentare i testi, riduce a libro, pur se a libro rivolto solo ad una lettura erudita, tutta una letteratura di epoca più antica che non era nata per una destinazione libresca11. La filologia alessandrina, insomma, impone la concezione che il testo è un testo scritto, e che questo si può recepire attraverso le letture conservate grazie al libro. La biblioteca di Alessandria, archetipo delle grandi biblioteche ellenistiche12, è biblioteca nel contempo «universale» e «razionale»: universale perché destinata alla conservazione dei libri di tutti i tempi e di tutta l’ecumene nota, e razionale perché in essa i libri stessi dovevano essere ricondotti ad un ordine, ad un sistema di classificazione (si pensi ai Pinakes di Callimaco) che permettesse di organizzarli secondo autori, opere, contenuti. Ma «universalità» e «razionalità» non potevano che dipendere direttamente da uno scritto, che si poteva valutare criticamente, ricopiare, rinchiudere in un libro, classificare e disporre insieme ad altri libri.
È in questa prospettiva che vengono a definirsi sia per i testi del passato sia per i nuovi una più precisa strutturazione in volumina/rotoli e i caratteri estrinseci del volumen stesso. Stabilita la misura standard di quest’ultimo entro determinati estremi di oscillazione del formato in altezza e in lunghezza, la norma è che ciascun rotolo ospiti un testo autonomo – con l’avvertenza che l’estensione di quest’ultimo è strettamente correlata a genere letterario e struttura dell’opera – o un solo libro di uno scritto composto di vari libri, con l’eccezione sia di testi/libri molto ampi che sono suddivisi in due rotoli/tomi, sia di testi/libri molto brevi, i quali vengono riuniti in un unico rotolo. Ugualmente vengono a definirsi una «mise en colonnes» della scrittura, sistemi di titolatura, e una serie di dispositivi (segni di paragraphos, coronidi) che ripartiscono testi e sezioni testuali. Si tratta di un riordino della produzione letteraria e di una disciplina tecnico-libraria funzionali da un lato alla creazione di grandi biblioteche, dall’altro a rinnovate pratiche di lettura.
Le grandi biblioteche ellenistiche, tuttavia, non erano biblioteche di lettura. Esse erano da una parte manifestazione di «grandeur» delle dinastie al potere (Tolomei, Attalidi), da un’altra campo e strumento di lavoro per una cerchia di eruditi e letterati. Insomma, pur se tecnicamente predisposti alla lettura, i libri venivano accumulati piuttosto che veramente letti. Sulle biblioteche ellenistiche continua ad agire il modello di riferimento, ch’era quello delle raccolte di libri delle scuole scientifico-filosofiche, riservate ad un numero molto ristretto di maestri, scolari e seguaci.
A parte grandi biblioteche, la cui fama è stata tramandata dalle fonti, si conosce assai poco di altre biblioteche pubbliche di età ellenistica. Messe ormai in dubbio biblioteche dei ginnasi insite su spazi architettonici specifici13, è comunque da ammettere – su basi archeologiche di varia indole – che biblioteche vennero istituite in diverse città del mondo ellenistico. Ma è da chiedersi: con quale funzione? E quanti erano realmente in grado di frequentarle? Sembra che la lettura fosse praticata piuttosto in privato da quel pubblico, pur limitato, ch’era capace di praticarla. Dai più o meno ampi frammenti di rotoli greco-egizi superstiti il repertorio risulta quello tradizionale, fatto per la più parte di testi di età classica. In epoca ellenistica si assiste anche al fiorire di una manualistica di carattere tecnico, quali testi di critica filologica e letteraria, o trattati d’uso meramente pratico (tattica militare, agricoltura). Ma in quest’ultimo caso si tratta, forse, di testi di riferimento professionale piuttosto che di testi proposti ad un largo pubblico. L’arte statuaria e sepolcrale dell’epoca mostra sempre più di frequente figure di lettori; ma, diversamente dall’epoca classica, si è di fronte quasi sempre a letture individuali, quasi si fosse stabilito con il libro un rapporto più intimo e privato. Dalla lettura come momento di vita associativa propria della polis si era passati alla lettura come ripiegamento su se stessi, come ricerca interiore, riflesso del resto di atteggiamenti culturali e correnti di pensiero della civiltà ellenistica.
Pure, non mancano segni, rispetto all’età precedente, di un certo allargarsi della lettura. Al di fuori degli ambiti istituzionali eruditi, il nuovo ruolo assunto dal libro è sottolineato dalla composizione in quest’epoca di epigrammi di dedica e di presentazione editoriale in cui il libro è oggetto di una qualche allocuzione o, piuttosto, «parla». La modalità della lettura ad alta voce rende il libro «animato», come fin da età arcaica rendeva «animati» altri materiali iscritti (steli funerarie, oggetti d’uso personale), segno di una più diffusa ricezione libresca dello scritto. In ogni caso il libro entra, con una sua personalità, in un gioco di relazioni con i suoi lettori, con quanti gli si rivolgono o gli «prestano» la voce. Più tardi, il motivo del libro «animato» incontrerà larga fortuna negli autori latini di età imperiale, all’epoca della massima diffusione della lettura14.
Su un altro versante, un più stretto rapporto fra libro e lettore viene istituito in questa stessa epoca dall’autore, che facilita l’accesso al testo, soprattutto ove complesso e articolato in più libri: Polibio scrive un’introduzione al libro XI delle sue Storie perché questa «attira l’attenzione di coloro che vogliono leggere, stimola e incoraggia i lettori, permette di trovare agevolmente ciò che si cerca» (XI, 1a, 2). Gli storici, più in generale, fanno precedere da un sommario ciascuna parte della loro opera per facilitarne lettura e consultazione. Questa pratica continua più tardi e si trova anche in autori latini come Ovidio, che inserisce nelle sue opere rinvii interni per collegarne fasi editoriali o argomenti, o come Plinio, che all’inizio della sua Naturalis historia, dopo la lettera di dedica a Tito, dà sommari numerati libro per libro — con l’indicazione delle relative fonti — dei trentasei che seguono.
Non è un caso che — su tracce già dei sofisti e di Aristotele — in epoca ellenistica si definisce, soprattutto con Dionisio Trace, una vera e propria teoria della lettura, che manuali di retorica e trattati grammaticali impartiscono mediante una precettistica assai dettagliata, intesa a organizzare l’espressività della voce nell’atto di leggere15. Senza l’arte della lettura lo scritto è destinato a rimanere una serie di incomprensibili tracce sul papiro. Ogni anagnosis — «lettura» — individuale o alla presenza di un uditorio deve essere una hypokrisis, una «interpretazione» vocale e gestuale che si sforzi il più possibile di rendere il genere letterario e gli intenti dell’autore; altrimenti il lettore non può che cadere nel ridicolo. La teoria della lettura derivava, infatti, dalla actio oratoria, a sua volta connessa con la prassi teatrale. Di qui la ricerca, da parte degli antichi, di una metodologia ermeneutica in grado di cogliere gli indizi offerti dal testo stesso per traguardarli ad una lettura corretta.
Modalità di lettura a Roma: nuovi testi e nuovi libri
Non c’è alcun dubbio che Roma abbia ripreso dal mondo greco i modi di strutturazione fisica del volumen letterario e certe pratiche di lettura, almeno a partire dall’età degli Scipioni, soprattutto con l’inoltrarsi del secolo II a.C. Prima di quell’epoca gli usi della cultura scritta nel mondo romano si devono ritenere limitati sostanzialmente alla casta sacerdotale e al ceto gentilizio, ed è perciò difficile credere vi fossero libri oltre gli annali massimi compilati dai pontefici, i commentari augurum, vale a dire i libri degli interpreti, e i libri Sybillini, insieme a pochi altri libri reconditi, conservati in loca secreta. E quanto al ceto gentilizio, in quest’ambito più che libri sono testimoniati documenti d’archivio, come commentarii relativi alle magistrature ricoperte e laudationes funebri. Una pratica del leggere, dunque, non si può ritenere andasse al di là di iscrizioni o documenti esposti. A partire dal III-II secolo a.C. gli usi del libro si dimostrano tuttavia più estesi e articolati nelle pieghe di una società ormai in mutamento. Ma si tratta per lo più di libri greci. Tali sono i libri adoperati dai commediografi per trarne ispirazione e facezie, quindi di uso professionale. E la stessa nascita di una letteratura latina è legata in quest’epoca a modelli e quindi a libri greci.
Dapprima il legger libri si dimostra pratica esclusiva delle classi alte e del tutto privata. Nel II e nel I secolo a.C. libri greci giungono come bottini di guerra: nel 168 ne porta Emilio Paolo dalla Macedonia, nell’86 Silla da Atene, nel 71/70 Lucullo dal Ponto. Questi libri — collocati nelle dimore di coloro che li hanno conquistati — vengono a costituire biblioteche private di lettura, nelle quali e intorno alle quali s’incontra la ristretta società colta: Polibio riceveva gli anni della sua amicizia con Scipione Emiliano e Emilio Paolo legandoli a prestiti di libri e a conversazioni suscitate da quei prestiti; più tardi Cicerone si nutre della biblioteca di Fausto Silla, figlio del dittatore, e Catone l’Uticense si immerge nella lettura degli stoici nella biblioteca che il giovane Lucullo ha ereditato dal padre. La biblioteca romana, insistita su un modello ellenistico, è connessa ad un giardino e a dei portici, ma da spazio esclusivo e riservato si avvia a diventare «uno spazio da vivere».
L’età imperiale segna una nuova svolta nelle pratiche di lettura, dovuta, innanzi tutto, ad una più ampia circolazione dell’alfabetismo. Il mondo ormai greco-romano — sia pure con distinzioni tra epoca ed epoca, tra centro e province, tra regione e regione, e all’interno di una stessa regione tra città e campagna e tra città e città — è un mondo di vasta circolazione di cultura scritta. Accanto ad iscrizioni dall’indole più diversa — dalle epigrafi ufficiali ai graffiti — circola una massa di prodotti scritti: cartelli, innalzati nei cortei e relativi a ex-voto o a campagne di guerra vittoriose, libelli e volantini in versi o in prosa distribuiti in luogo pubblico a scopi polemici e diffamatori, gettoni con legende, stoffe scritte, calendari, cahiers de doléances, lettere, messaggi; e si deve tener conto, ancora, della documentazione civile e militare, e di quella della prassi giuridica. Si tratta di una produzione scritta immensa, pur se attestata, sia direttamente che indirettamente, soltanto in minima parte.
Su questa scena di più diffusa capacità di leggere e perciò di circolazione di prodotti scritti, insorge un’accresciuta domanda di libri e di lettura, che trova risposta su un triplice piano: la creazione di biblioteche pubbliche e l’incremento di quelle private, cui fa da complemento il fiorire di una trattatistica intesa a guidare il lettore nella scelta e nell’acquisto di libri; la proposta di testi nuovi (o rimaneggiati) destinati a nuove fasce di lettori; la produzione e la distribuzione di un tipo diverso di libro, il codice, più adeguato alle esigenze di quelle nuove fasce e mutate pratiche del leggere.
Sulla funzione delle biblioteche pubbliche come spazi di lettura a Roma le notizie sono scarse. Di certo non erano biblioteche riservate come quelle ellenistiche, ma si deve parlare, piuttosto, di «biblioteche erudite», nel senso che esse erano aperte a chiunque volesse accedervi, ma in realtà erano frequentate da un pubblico di leggenti medio-alto, il medesimo, o quasi, che sovente disponeva di biblioteche private. Proprio per questo il loro moltiplicarsi può essere messo soltanto in qualche misura in relazione con certe accresciute esigenze di lettura. Se volute dal princeps si trattava, piuttosto, di monumenti celebrativi intesi a conservare le memorie storiche (fungevano, infatti, anche da archivi) e a selezionare e codificare il patrimonio letterario. Biblioteche pubbliche furono pure innalzate dall’euergetismo privato come luoghi di intrattenimento colto della vita urbana.
La selezione operata dalle biblioteche pubbliche poteva talora configurarsi come vera e propria censura di testi sgraditi al potere. Fu il caso di un autore come Ovidio. Ma la circolazione tra i contemporanei e la trasmissione dei testi ovidiani dimostrano d’altro canto quanto quelle biblioteche fossero lungi dall’orientare o condizionare le scelte dei lettori, i quali in privato potevano continuare ad acquistare, farsi trascrivere, leggere o farsi leggere opere escluse dalla conservazione pubblica (o comunque censurate), confortando il moltiplicarsi delle copie e perciò la possibilità di ulteriore sopravvivenza anche di quelle opere16.
L’incremento delle biblioteche private dipese indubbiamente da un’espansione dei bisogni di lettura; ed anche nei casi in cui queste biblioteche furono vanesia ostentazione di potere economico e di una cultura di facciata (si pensi già solo alle raccolte librarie di un parvenu poco istruito come il Trimalchione di Petronio o all’ignorante che accumula libri messo in ridicolo da Luciano), esse indicano che nel mondo delle rappresentazioni della società greco-romana di quell’epoca libri e lettura rientravano negli agi e nei comportamenti di una vita facoltosa. Anche Trimalchione apriva qualche librum e vi leggeva qualche frase; e l’ignorante lucianeo stava sempre con un libro in mano, era capace di leggere con grande abilità, pur se non coglieva gran che del senso dello scritto. Trattati di età imperiale in lingua greca andati perduti ma dei quali si ha notizia, come, tra gli altri, Conoscere i libri di Telefo di Pergamo, o Sulla scelta e l’acquisto di libri di Erennio Filone, o ancora Il bibliofilo di Damofilo di Bitinia erano evidentemente mirati ad orientare il lettore nello scegliere i libri e nel mettere insieme una qualche collezione. Il che fa credere, d’altro canto, sia ad una produzione libraria che poteva disorientare perché più vasta e diversificata rispetto al passato, sia, speculativamente, ad un pubblico non più soltanto d’élite, e perciò tante volte poco avveduto o indeciso nelle sue scelte.
Un’altra risposta all’aumentato bisogno di lettura fu l’insorgere di nuovi testi. Si trattò di un’operazione complessa. Ed è ancora una volta Ovidio a fornircene testimonianza: con la sensibilità di un autore attentissimo alle variazioni, alle esigenze, agli umori del suo pubblico, il poeta, agli originari primo e secondo libro della sua Ars amatoria, aggiunge un terzo libro destinato alle sole donne. Queste in età imperiale si vanno emancipando, e almeno alcune entrano nel mondo della parola scritta, possono leggere il libellus che Ovidio destina a loro. Vagamente anticipata dalla Grecia classica, è forse in quest’epoca che nel mondo antico nasce una vera e propria figura di «lettrice». Su un altro versante, lo stesso Ovidio fa riferimento a libri di contenuto futile, che insegnavano giochi di società e maniere di intrattenimento. E se libri di questo genere circolavano tra individui istruiti, e magari assai colti, c’erano poi scritti destinati ad un pubblico più vasto e indifferenziato, talora anche di istruzione piuttosto scarsa. Si tratta di testi creati (o manipolati) per fasce di lettori nuove e intellettualmente meno agguerrite.
Ad una più larga domanda di lettura risponde infine il codice, la forma libraria diversa dal rotolo, che a quest’ultimo man mano viene a sostituirsi a partire dal II secolo d.C., divenendo il libro preferito per gli scritti e perciò dai lettori cristiani. Questa più diffusa domanda di lettura aveva infatti determinato, soprattutto dall’età di Commodo e dei Severi, una divaricazione tra l’esigenza di testi nuovi — tra cui quelli del cristianesimo avanzante — e meccanismi di produzione e distribuzione libraria propri della cultura tradizionale, quella del rotolo. Quest’ultimo restava legato a mano d’opera servile, a più o meno costose botteghe artigianali, a una materia scrittoria, il papiro, importata dall’Egitto. Il successo del codice — il libro «a pagine» — veniva assicurato da diversi fattori: innanzi tutto il minor costo, giacché la materia scrittoria veniva utilizzata sulle due facce; fuori d’Egitto come supporto si adoperava di norma la pergamena, prodotto animale che si poteva preparare ovunque; la forma più pratica si prestava meglio ad una manifattura non professionale, ad una distribuzione attraverso canali nuovi, ad una lettura più libera nei movimenti, e a letterature di riferimento e di concentrazione intellettuale (la cristiana, la giuridica) che man mano venivano a prevalere nella tarda antichità.
Trasformazioni del libro e trasformazioni delle pratiche di lettura non potevano che andare di pari passo.
Nel medioevo: dalla scrittura monastica alla lettura scolastica
Il codice viene a porsi come lo strumento di passaggio alle maniere di leggere nel medioevo, con l’avvertenza, tuttavia, che — a parte la comune tipologia libraria — la frattura tra vecchie e nuove pratiche fu assai più forte nell’Occidente latino che nell’Oriente greco. Va rilevato, innanzi tutto, un fatto: la centralità che a Bisanzio il libro conserva. «Dimmi, ti prego, come e quando sarà la fine di questo mondo?» chiede Epifanio a sant’Andrea il Folle, suo maestro, e continua: «Da quali segni verrà la dimostrazione che i tempi sono compiuti, e come trascorrerà via la nostra città, la nuova Gerusalemme? Che ne sarà… dei libri?» (PG, III, 854 a). Questa testimonianza, forse più di qualsiasi altra, mostra il libro come oggetto e strumento della civiltà stessa di Bisanzio. Qui del resto rimase in vita per tutto il medioevo un insegnamento pubblico e privato sia inferiore che superiore; l’alfabetismo, confortato dalla continuità di una burocrazia centrale e periferica, non venne mai meno nella società laica, ed anzi, quanti entravano nelle istituzioni religiose avevano imparato a leggere e scrivere di solito al di fuori di queste e prima di entrarvi; si conservarono cerchie di lettura e biblioteche private; il libro continuò ad essere merce, prodotto da copisti-artigiani (talora anche monaci) o da copisti per passione; e almeno ad uso liturgico fu largamente adoperato persino il rotolo, pur se con una mutata disposizione della scrittura rispetto alla tipologia antica. Fenomeno significativo, a Bisanzio il modello della lettura rimase quello formulato molti secoli addietro da Dionisio Trace, ripreso nei commentari bizantini al grammatico, che prescriveva al lettore — per qualsiasi libro — di concentrare l’attenzione su titolo, autore, intento, unità, struttura, risultato dell’opera, implicando perciò un ordine della lettura, uno scandaglio meditato17. Ed ugualmente, a Bisanzio si conservò l’uso antico, già greco-romano, della lettura ad alta voce, di contro alla lettura mormorata o silenziosa dell’Occidente latino medievale: lettura ad alta voce che avvicinava il discorso scritto al discorso parlato, predicato, proclamato. L’antica e mai dismessa eredità di una lingua colta e di strutture retoriche ormai irrigidite — quella che si è voluta chiamare l’«archéologie culturelle» di Bisanzio18 — serve come risposta solo parziale per spiegare questa archeologia delle pratiche di lettura. Capitolo ancora tutto da scrivere, la storia della lettura a Bisanzio è la nuova frontiera con la quale deve misurarsi lo storico della cultura scritta.
Profonda, invece, fu la frattura nell’Occidente latino. Alla lettura dell’otium letterario che nel mondo antico si svolgeva per lo più tra giardini e porticati, e che prevedeva pure piazze e strade urbane come spazi di scritture esposte e di occasioni di lettura, nell’alto medioevo occidentale vennero a sostituirsi pratiche di lettura concentrate nel chiuso delle chiese, delle celle, dei refettori, dei chiostri, delle scuole religiose, qualche volta delle corti: lettura peraltro limitata di solito alle Sacre Scritture e a testi di edificazione spirituale. Soltanto all’interno degli spazi ecclesiastici e monastici fioriscono carmi che celebrano libri, letture, biblioteche; ed anzi una riflessione su questi carmi potrebbe contribuire non poco a delineare quelli che nell’alto medioevo furono i modi di rappresentazione della lettura. Ed è sempre all’interno di quegli spazi che si rinchiudono le lastre funerarie con le loro scritte rivolte perciò ad un numero assai ristretto di leggenti, pur se la formula che molte di esse restituiscono — «o tu che leggi …» — perpetua senza soluzione di continuità una tradizione antica, codificata, di «appello al lettore» proprio di un mondo di molti alfabeti ormai tramontato.
Un altro mutamento che venne a determinarsi nell’Europa dell’alto medioevo fu il passaggio dalla lettura ad alta voce alla lettura silenziosa o mormorata. Vi contribuirono vari fattori: i libri si leggevano soprattutto per conoscere Dio e per la salvezza dell’anima, sicché dovevano essere intesi, ripensati, magari mandati a memoria; il codice stesso, con le sue pagine che sezionavano il testo agevolandone riletture e riscontri, invitava ad una lettura meditata; la vita comunitaria delle cerchie religiose in cui l’atto di lettura sovente si svolgeva obbligava a smorzare i toni della voce. Erano mutati significato e funzione del libro. Si leggevano pochi testi, pur se molti ne venivano scritti giacché la fatica del trascrivere era di per sé preghiera «condotta non con la bocca ma con le mani» (Pietro il Venerabile, epist., I, 20). Il libro, non sempre destinato alla lettura, si pone, piuttosto, oltre che come lavoro pio e strumento di salvezza, come bene patrimoniale, e nelle sue forme più ieratiche, preziose, monumentali, diventa segno del sacro e del mistero del sacro.
Non molti erano gli individui di cultura alta che — come un Raterio vescovo di Verona — tenevano «sempre il naso […] su un libro» (Qualitatis coniectura, 2); ed invece assai pochi erano in genere i libri letti, e questi si leggevano solo in certe occasioni o periodi (la quaresima, in ambito monastico), sicché la mancanza di esercizio impediva una scansione rapida e sicura di parole e frasi quale si richiedeva ad una lettura sonora. Tutto questo imponeva una lettura silenziosa o al più mormorata, quasi ronzio d’ape. Diretta conseguenza ne furono sia una separazione delle parole, atta ad una lettura che non rispondeva più ad un ritmo retorico della frase; sia l’uso di convenzioni grafiche, litterae notabiliores, scritture distintive che guidavano l’occhio tra le partizioni del testo; sia una pratica diversa della punteggiatura e, talora, dei modi di segnalarla che, non più funzionali ad una lettura retorica, servissero a facilitare l’intendimento, o un determinato intendimento, dello scritto. Malcolm Parkes ha messo assai ben in rilievo questo processo.
Ma, come sono testimoniati nel mondo antico maniere ed episodi di lettura silenziosa, così non mancano nel medioevo letture sonore: una lettura ad alta voce di testi liturgici o di edificazione era praticata in chiesa, nella refezione comunitaria, come esercizio scolastico e forse in certe forme di lectio monastica individuale. A lettura ad alta voce e pubblica sembra destinata persino qualche narrazione storica. Pur se l’una o l’altra modalità di lettura fecero norma ciascuna alla sua epoca, va comunque esclusa una dicotomia troppo netta. Forme intermedie di lettura sussurrata o mormorata, inoltre, furono sempre praticate: si pensi al lepido susurro con cui Apuleio, all’inizio dell’opera, invita il lettore a leggere le sue Metamorfosi, o alla ruminatio del monaco che leggeva biascicando le parole a voce bassa.
I secoli tra lo spirare dell’XI e il XIV segnano una svolta nella storia della lettura. Rinascono le città, e con le città le scuole, e le scuole sono sedi di libri. La cornice è quella di una sempre più vasta diffusione dell’alfabetismo, di un incremento dello scritto a tutti i livelli, di maniere e scopi diversi d’uso del libro. Pratiche di scrittura e pratiche di lettura, in qualche modo separate nell’alto medioevo, «si tengono» a vicenda, diventano funzionali le une alle altre in un nesso organico e inscindibile. Si legge per scrivere, per la compilatio, che è il metodo peculiare della composizione delle opere della scolastica. E si scrive in vista della lettura.
Si legge dunque molto e in maniera diversa. La lettura non è più volta al semplice intendimento della lettera scritta (littera); questo intendimento costituisce solo l’inizio, dal quale si deve passare al significato (sensus) del testo per attingerne quindi la sentenza (sententia), intesa come dottrina in tutta la sua profondità. A libri e lettura deve sovrintendere la ratio, l’interlocutrice del de librorum copia del Petrarca, che castiga la mania di accumulare inutilmente volumi su volumi, e che traccia le linee di una teoria (ma anche di una storia) della lettura come pratica che deve «racchiudere» i libri «nel cervello», non «in uno scaffale»20. Sono questi i fondamenti della lectio scolastico-universitaria, il modello di lettura che penetra in profondità lo scritto, dipana il commento e ne distribuisce l’autorità.
Fatto per la lettura, lo studio, il commento, la predica, il libro, o meglio la pagina scritta, viene ad assumere una tipologia funzionale a queste pratiche. La scrittura diventa fitta di compendi, sì da rendere più rapida la lettura; lo spazio-pagina è diviso in due colonne piuttosto strette, in modo che ogni riga venga a rientrare in un campo visuale unitario e perciò più facile da percepire; il testo è frazionato in sequenze tali da agevolarne la consultazione e la comprensione. È nato, insomma, il libro come strumento di lavoro intellettuale, proposto nei suoi diversi aspetti dal saggio di Jacqueline Hamesse. Il libro ormai si utilizza, è la fonte da cui si attingono il sapere o i saperi, non più il depositario della conoscenza da ruminare o anche semplicemente da conservare. Ma frazionata dai complicati dispositivi della pagina scritta, la lettura non implica più la totalità del testo; essa diviene limitata a sezioni particolari. Ad una lettura totale, concentrata, ripetitiva di pochi libri viene a sostituirsi una lettura a spezzoni di molti libri, in un’epoca — quella della scolastica — connotata da un immenso moltiplicarsi di scritti e dalla domanda di un sapere esteso pur se frammentario.
Da modesti dispositivi di suddivisione del testo e dei testi quali s’incontrano nell’alto medioevo — affidati peraltro meno a segni specifici e più all’ornato e al risalto cromatico di iniziali, scritture distintive, fregi — si passa, così, ad un vero e proprio sistema di tecniche ausiliarie di lettura e di consultazione del libro traguardate allo statim invenire, praesto habere, facilius occurrere: rubricazione, segni di paragrafo, titolatura dei capitoli, organica e correlata suddivisione tra testo e commento, sommari, concordanze di termini, indici e tavole analitiche ordinate alfabeticamente.
«Nel contempo viene ad instaurarsi un nuovo ordine dei libri. Nasce nel secolo XIII, con gli Ordini mendicanti, anche il modello di biblioteca destinata non più all’accumulo patrimoniale e alla conservazione dei libri, ma alla lettura; e nasce un sistema bibliotecario che ha come suoi cardini un catalogo, non più nudo inventario ma strumento di consultazione finalizzato a segnalare la collocazione dei libri in una determinata biblioteca o persino area geografica, e il memoriale, una scheda su cui vengono segnalati i volumi in prestito. Sotto il profilo architettonico questa biblioteca è costituita da un’aula oblonga, percorsa al centro da un corridoio vuoto e occupata nelle due navate laterali da due serie, disposte in file parallele, di banchi con i libri a questi incatenati ma offerti alla lettura e allo studio. La pianta è, in sostanza, quella della chiesa gotica; e si tratta di una ripresa che va assai al di là del fatto puramente architettonico, giacché investe la stessa concezione mentale sottesa alla civiltà del gotico. La biblioteca esce dall’isolamento monastico o dall’angusto spazio vescovile delle cattedrali romaniche, facendosi urbana e ampia; e come la chiesa, divenuta lo scenario offerto e fruibile di immagini, ogive, colori, così la biblioteca si presenta come lo scenario del libro, esposto e disponibile. La cornice che definisce questo nuovo modello bibliotecario è il silenzio: silenzioso è l’accesso al libro, trepidamente disturbato solo dal tintinnio della catena che lo lega al banco; silenziosa è la ricerca di autori e titoli ormai ordinati in un catalogo che si può consultare senza mediazioni; silenziosa, perché tutta visiva, è la lettura nel contempo individuale e comune.
Paul Saenger insiste proprio sulle conseguenze che, pur se non immediatamente, la lettura visiva tutta propria e sottratta a qualsiasi interferenza ebbe per le maniere d’uso del libro, per il formarsi di una coscienza critica di fronte al testo scritto, per l’elaborazione del pensiero, per le pratiche devozionali, per il dissenso, per l’erotismo. Siamo alle soglie dell’età moderna. Ed invero il diffondersi dell’alfabetismo fra i laici tra i secoli XIII-XIV fece sì che alla lettura scolastico-universitaria venissero ad affiancarsi altri modelli. È in quest’epoca che nasce il libro in lingue volgari, talora scritto dallo stesso lettore-consumatore21. Pur non mancando di lettori della cultura ufficiale, il libro in volgare circola soprattutto nelle mani di una «borghesia laica» — mercanti e artigiani — più o meno saldamente alfabetizzata ma che ignorava o quasi il latino.»
«Un altro modello di lettura è quello cortese, proprio delle aristocrazie europee istruite, talora altamente colte. I libri delle corti sono per lo più libri di intrattenimento e di devozione, ma la loro funzione trascende quella della sola lettura. I libri sono anche ornamento, segno di cortesia, di civiltà, di viver squisito; sono esibizione di ricchezza e di fasto riverberati nel corredo figurativo opulento o nelle legature rivestite di pelli pregiate, di tessuti fini, di metalli preziosi; sono oggetti che richiamano, restituiscono, celebrano lo splendore del principe e della sua corte. Si formano così, con esemplari per lo più commissionati a librai esperti o ricevuti in dono o variamente ereditati, le biblioteche signorili, tanto diverse dalle religiose nel repertorio, formato da opere in lingue volgari che cantano d’armi e d’amore, che raccontano storie più o meno fantastiche, che «volgarizzano» grandi testi della tradizione classica; e costituito, per la parte latina, anche di letture devozionali, Bibbie, libri d’ore, breviari. In queste biblioteche, nel Quattrocento, l’Umanesimo irrompe con i suoi libri di autori classici greci e latini, i quali vengono a collocarsi accanto ai moderni e ai libri di intrattenimento e di devozione. E i ritmi del tempo libero delle corti si consumano anche in queste letture, fatte — piuttosto che nella biblioteca vera e propria — negli spazi di soggiorno, di svago, di riposo della residenza signorile.»
In età moderna: una geografia contrastata della lettura
Tra i secoli XVI e XIX la geografia delle pratiche di lettura nel mondo occidentale dipende, in primo luogo, dalle evoluzioni storiche che iscrivono i rapporti con la cultura scritta entro determinate congiunture di alfabetizzazione, scelte religiose, ritmi di industrializzazione radicalmente diversi. Queste differenze tracciano frontiere salde e durevoli: fra un’Europa presto alfabetizzata e un’Europa che lo è solo più tardi, tra i Paesi rimasti cattolici e quelli guadagnati alla Riforma, tra le aree segnate da uno sviluppo precoce e quelle che restano a lungo dominate da un’economia tradizionale. Questi scarti si riflettono sui regimi di censura, sull’attività di edizione, sul commercio librario, sul mercato del libro. Si accentuano, quindi, nelle transizioni che caratterizzano le «rivoluzioni» della lettura: quella che, fra il medioevo e l’inizio dell’età moderna, fa della lettura silenziosa e attraverso gli occhi una norma interiorizzata e una pratica comune; quella che, fra i secoli XVIII e XIX, familiarizza i lettori con una produzione stampata più numerosa, più accessibile e aperta ad accogliere nuove formule editoriali.
Queste differenze geografiche nella storia della lettura si riflettono nelle fonti disponibili. Certo, molte serie documentarie si ritrovano dovunque, o quasi. Così, gli inventari post mortem che consentono di misurare la presenza ineguale del libro e la composizione delle biblioteche private. Così i cataloghi delle librerie e quelli delle biblioteche vendute all’asta, che disegnano l’offerta di lettura. Così i regolamenti e i cataloghi delle istituzioni che, a partire dal secolo XVIII, autorizzano la lettura senza acquisto: da una parte le biblioteche di prestito (circulating libraries, cabinets littéraires, Leihbibliotheken), dall’altra le società di lettura (book clubs o subscription libraries, chambres de lecture, Lesegesellschaften). Così le liste di sottoscrizione che indicano i protettori dichiarati e i lettori potenziali di un’opera particolare.
Sulla trama comune di questi archivi massicci e seriali, le possibilità di toccare più da vicino la circolazione dei libri o la pratica del leggere differiscono molto secondo le situazioni nazionali. Nell’area del Mediterraneo e nei suoi prolungamenti coloniali, gli interrogatori degli inquisitori raccolgono le dichiarazioni degli accusati sulle opere che hanno letto, la via per cui le hanno avute e, più importante ancora, la maniera in cui le hanno comprese. Nei Paesi dell’Europa del Nord e nelle colonie inglesi di America, le confessioni dei lettori ordinari sulle loro letture sono da ricercare altrove: nelle autobiografie spirituali volute dal protestantesimo puritano o pietista, nei racconti di vita imperniati su una traiettoria personale che conduce dall’ignoranza degli umili alla cultura erudita, nei libri contabili, nei giornali e nelle memorie che, a causa del progresso dell’alfabetizzazione, non sono più appannaggio esclusivo di notabili e letterati, o ancora – caso più eccezionale – nelle lettere che alcuni lettori hanno rivolto ad autori o editori.
In ogni area nazionale, linguistica o culturale, le pratiche di lettura si trovano così al centro di un processo storico essenziale. In Italia, in Spagna, in Portogallo, anche in Francia, ma senza l’Inquisizione, i lettori devono temere o aggirare le censure della Chiesa e degli Stati che intendono ostacolare la diffusione delle idee considerate pericolose per l’autorità cattolica e per i sovrani assoluti. In Germania, una nuova maniera di leggere, caratterizzata come una Leserevolution, associa nella seconda metà del secolo XVIII la diffusione capillare dell’Aufklärung e la costituzione di un nuovo spazio pubblico. In Inghilterra la rivoluzione industriale, a sua volta, sradica le pratiche tradizionali e conduce, infine, all’apparizione di nuove categorie di lettori e alla costituzione di un nuovo mercato del libro a stampa. In ognuno di questi casi, la storia delle maniere di leggere permette di considerare in modo nuovo e originale un tratto costitutivo della storia e dell’identità nazionale: il peso delle proibizioni imposte dalla Controriforma cattolica, le forme proprie dell’Illuminismo tedesco, la costruzione di rapporti fra le classi (e fra i sessi) nelle società protestanti d’Inghilterra e d’America.
Rivoluzioni
La prima delle trasformazioni che interessano le pratiche della lettura nell’età moderna è di natura tecnica: essa rivoluziona, alla metà del secolo XV, i modi di riproduzione dei testi e di produzione del libro. Con i caratteri mobili e il torchio da stampa, la copia manoscritta non è più l’unica risorsa disponibile per garantire la moltiplicazione e la circolazione dei testi. Abbassando fortemente il costo di fabbricazione del libro, ripartito sulla totalità degli esemplari di una stessa tiratura; abbreviando la durata della sua fabbricazione, che rimaneva lunga al tempo del manoscritto — anche dopo l’invenzione della pecia e la suddivisione del libro da trascrivere in fascicoli separati —, l’invenzione di Gutenberg permette la circolazione dei testi su una scala impossibile in precedenza. Ogni lettore può avere accesso ad un più gran numero di libri. Per di più, la stampa consente la riproduzione identica (o quasi, a causa delle eventuali correzioni in corso di tiratura) dei testi in un gran numero di esemplari, modificando le condizioni stesse della loro trasmissione e ricezione.
Bisogna dunque ritenere che l’invenzione e la diffusione della stampa comportino di per se stesse una rivoluzione fondamentale della lettura? Forse no, e per più di una ragione. In primo luogo, è chiaro che, nelle sue strutture essenziali, il libro non viene ad essere rivoluzionato dalla nuova tecnica. Fino all’inizio del secolo XVI almeno, il libro a stampa resta dipendente dal manoscritto, del quale imita l’organizzazione della pagina, le scritture, l’aspetto. Come il manoscritto, esso deve essere realizzato a più mani: la mano del miniatore che dipinge miniature e iniziali istoriate o semplicemente ornate; la mano del correttore, o emendator, che aggiunge segni di punteggiatura, rubriche e titoli; la mano del lettore, infine, che iscrive sulla pagina segni, note e indicazioni marginali.
Anche al di là di questa dipendenza diretta, il libro resta, prima e dopo Gutenberg, un oggetto simile, composto a partire da fogli piegati, riuniti in fascicoli e raccolti sotto una stessa legatura o copertina. Non sorprende dunque il fatto che i sistemi di reperimento testuale, troppo spesso associati alla stampa, le siano largamente anteriori. Così i segni, come le segnature e i richiami, che devono permettere di raccogliere uno dopo l’altro i fascicoli evitando i disordini. Così i contrassegni che devono aiutare la lettura: numerando carte, colonne o righe e visualizzando le suddivisioni della pagina (mediante il ricorso ad iniziali ornate, rubriche, lettere marginali); istituendo una relazione analitica, e non soltanto spaziale, fra il testo e le glosse; sottolineando attraverso la differenza dei caratteri o i colori degli inchiostri la distinzione fra testo commentato e commentario. L’organizzazione in fascicoli del codex, manoscritto e a stampa, e la sua chiara suddivisione, ne consentono una facile indicizzazione. Le concordanze, le tavole alfabetiche, gli indici sistematici si generalizzano dunque già a partire dall’epoca del manoscritto, ed è negli scriptoria monastici e nelle botteghe degli stazionari che vengono inventate le modalità di organizzazione del materiale scritto che verranno poi riprese dai tipografi.
Infine, gli ultimi secoli del manoscritto vedono l’affermarsi di una gerarchia durevole dei formati, che distingue il grande in-folio, il «libro da banco», che deve essere appoggiato per poter essere letto e che è libro di università e di studio; il libro umanistico, più maneggevole e di formato medio, che offre alla lettura i testi classici e le novità; infine il libellus, il libro portatile, da tasca o da capezzale, dagli usi multipli, dai lettori più numerosi e meno agiati. Di questa ripartizione il libro a stampa rimane diretto erede, associando formati, tipologie testuali, momenti e modi di lettura.
C’è ancora un’altra ragione per sottolineare la continuità fra «print culture» e «scribal culture». L’invenzione della stampa non ha, in effetti, un’importanza decisiva nel lungo processo che fa passare sempre più lettori da una lettura necessariamente oralizzata, indispensabile per la comprensione del senso, ad una lettura possibilmente silenziosa e visuale. Se le due maniere di leggere coesistono già dall’antichità greco-romana, è nel corso di un lungo medioevo, come mostra Paul Saenger, che la possibilità di leggere in silenzio, dapprima riservata all’ambito degli scribi monastici, guadagna gli ambienti universitari prima di diventare, nei secoli XIV e XV, una pratica comune alle aristocrazie laiche e erudite. Il percorso prosegue dopo Gutenberg, inculcando progressivamente nei lettori più popolari una maniera di leggere svincolata dall’oralizzazione. Una prova e contrario di tale evoluzione è fornita dalla situazione delle società occidentali contemporanee, in cui la categoria di «analfabetismo» designa non solo la parte della popolazione che è del tutto incapace di leggere, ma, in senso più ampio, i lettori — ancora numerosi — che non sono in grado di comprendere un testo se non leggendolo ad alta voce.
La prima «rivoluzione della lettura» dell’età moderna è dunque largamente indipendente dalla rivoluzione tecnica che modifica nel secolo XV la produzione del libro. Essa è forse più saldamente radicata nel mutamento che trasforma, nei secoli XII e XIII, la funzione stessa della scrittura, quando al modello monastico della scrittura, che assegna allo scritto un compito di conservazione e di memoria ampiamente dissociato da ogni lettura, si sostituisce il modello scolastico della lettura, che fa del libro, al tempo stesso, l’oggetto e lo strumento del lavoro intellettuale. Quale che ne sia l’origine, l’opposizione fra lettura necessariamente oralizzata e lettura possibilmente silenziosa segna una cesura capitale. La lettura silenziosa, difatti, istituisce un rapporto con lo scritto che può essere più libero, più segreto, completamente interiore. Essa consente una lettura rapida e abile, che non si lascia fuorviare né dalle complessità dell’organizzazione della pagina, né dalle relazioni multiple stabilite fra il discorso e le glosse, le citazioni e i commentari, i testi e gli indici. Essa autorizza anche usi diversi dello stesso libro, letto ad alta voce, per altri o con altri, finché la socialità o il rituale lo esige, e letto in silenzio, per se stesso, nel ritiro dello studio, della biblioteca o dell’oratorio. La rivoluzione della lettura ha preceduto quindi quella del libro, giacché la possibilità della lettura in silenzio è, almeno per i lettori colti, uomini di Chiesa o notabili laici, molto anteriore alla metà del XV secolo. La loro maniera nuova di considerare e di maneggiare lo scritto non deve dunque essere imputata troppo frettolosamente alla sola innovazione tecnica (l’invenzione della tipografia).
Lo stesso vale, evidentemente, per la seconda «rivoluzione della lettura» dell’età moderna, dovuta all’industrializzazione della fabbricazione del libro a stampa. Secondo una tesi classica, nella seconda metà del XVIII secolo, alla lettura «intensiva» farebbe seguito una lettura diversa, qualificata come «estensiva». Il lettore «intensivo» era posto a confronto con un corpus limitato e circoscritto di libri, letti e riletti, memorizzati e recitati, ascoltati e conosciuti a memoria, trasmessi di generazione in generazione. I testi religiosi, e in primo luogo la Bibbia in terra riformata, erano gli oggetti privilegiati di questa lettura fortemente impregnata di sacralità e di autorità. Il lettore «estensivo», quello della Lesewut, della «rabbia di leggere», che si impadronisce della Germania all’epoca di Goethe, è un lettore del tutto diverso: consuma testi stampati numerosi, diversi, effimeri; li legge avidamente e con rapidità; li sottomette ad una considerazione critica che non sottrae più nessun campo al dubbio metodico. Un rapporto comunitario e rispettoso con lo scritto, fatto di riverenza e obbedienza, cederà così il passo ad una lettura libera, disinvolta, irriverente.
La tesi, discutibile, è stata infatti discussa. Numerosi sono, in effetti, i lettori «estensivi» all’epoca della lettura «intensiva». Pensiamo ai lettori umanisti. I due oggetti emblematici della loro maniera di leggere sono «la ruota da libri» — che permette la lettura di molti libri alla volta — e il «quaderno dei luoghi comuni», che raccoglie nelle sue diverse rubriche citazioni, informazioni, osservazioni messe insieme dal lettore. Entrambi gli oggetti testimoniano una pratica colta che accumula le letture, che procede per estratti, trasposizioni, confronti e che, per i più eruditi, fa da fondamento all’esercizio della critica filologica.
D’altra parte, è al momento stesso della «rivoluzione della lettura» che, con Rousseau, Bernardin de Saint-Pierre, Goethe o Richardson si dispiega la più «intensiva» delle letture, quella attraverso la quale il romanzo si impadronisce del lettore, lo vincola al suo dettato e lo governa come faceva, in passato, il testo religioso. La lettura della Nouvelle Héloïse, di Paolo e Virginia, dei Dolori del giovane Werther o di Pamela trasferisce gesti antichi ad una forma letteraria nuova. Il romanzo è continuamente riletto, appreso a memoria, citato e recitato. Il suo lettore è invaso da un testo che lo abita; si identifica con i personaggi e decifra la propria vita attraverso le finzioni dell’intreccio. In questa «lettura intensiva» di nuovo tipo è l’intera sensibilità a trovarsi coinvolta. Il lettore (che è spesso una lettrice) non può trattenere la sua emozione né le sue lacrime; sconvolto, prende egli stesso la penna per esprimere i suoi sentimenti e, soprattutto, per scrivere all’autore che, con la sua opera, è diventato un vero direttore di coscienza e di vita.
I lettori di romanzi non sono, del resto, i soli lettori «intensivi» all’epoca della «rivoluzione della lettura». La lettura dei più e dei più umili, nutrita dai titoli del commercio ambulante, rimane guidata da abitudini antiche. La frequentazione dei chapbooks, della «Bibliothèque bleue», della literatura de cordel, conserva a lungo i tratti di una pratica rara, difficile, che presuppone l’ascolto e la memorizzazione. I testi che compongono il repertorio del commercio ambulante fanno così l’oggetto di un’appropriazione che gioca sul riconoscimento (dei generi, delle opere, dei motivi), più che sulla scoperta dell’inedito, e che rimane estranea alle aspettative dei lettori frettolosi, insaziabili e scettici.
Queste considerazioni portano a mettere in dubbio un’opposizione troppo semplice e troppo netta fra due stili di lettura. Ma esse non smentiscono, secondo Reinhard Wittmann, la diagnosi che situa nella seconda metà del XVIII secolo una delle rivoluzioni della lettura. Le prove a sostegno di questa ipotesi vengono ben individuate in Inghilterra, in Germania e in Francia: la crescita della produzione del libro, che triplica o quadruplica tra l’inizio del secolo e gli anni Ottanta; la moltiplicazione rapida dei quotidiani; il trionfo dei piccoli formati; l’abbassamento del prezzo del libro, dovuto alle contraffazioni; il moltiplicarsi delle istituzioni che consentono di leggere senza acquistare — società di lettura o biblioteche di prestito. Il tema — spesso trattato alla fine del secolo da pittori e scrittori — della lettura contadina, patriarcale e biblica, compiuta durante la riunione serale dal padre di famiglia che legge ad alta voce per la famiglia raccolta, esprime il rimpianto per una lettura perduta. In questa rappresentazione idealizzata dell’esistenza contadina, cara all’élite colta, la lettura comunitaria viene a significare un mondo in cui il libro è riverito e l’autorità rispettata. Questa figura mitica serve evidentemente a denunciare i gesti ordinari di una lettura contraria, cittadina, negligente, disinvolta. Descritto come un pericolo per l’ordine politico, come un «narcotico» (l’espressione è di Fichte) che distoglie dai veri Lumi, o come una sregolatezza dell’immaginazione e dei sensi, il «furore dei libri» colpisce tutti gli osservatori contemporanei. Esso gioca senza dubbio un ruolo essenziale, ovunque in Europa ma soprattutto in Francia, nei processi di dissociazione dei sudditi dal loro principe e dei cristiani dalle loro chiese.
La trasmissione elettronica dei testi e le maniere di leggere che essa impone segnano, ai giorni nostri, la terza rivoluzione della lettura avvenuta a partire dal medioevo. Leggere su uno schermo, difatti, non è come leggere da un codice. La nuova rappresentazione dello scritto modifica, in primo luogo, la nozione di contesto, sostituendo alla contiguità fisica fra testi presenti in un unico oggetto (libro, rivista o giornale) la loro posizione e distribuzione all’interno di architetture logiche — quelle che governano le basi di dati, gli schedari elettronici, i repertori e le parole-chiave che rendono possibile l’accesso all’informazione. Essa ridefinisce, in tal modo, la «materialità» delle opere, spezzando il legame fisico che esisteva tra l’oggetto stampato (o manoscritto) e il testo o i testi di cui esso è portatore, e conferendo al lettore — e non più all’autore o all’editore — il dominio sulla suddivisione o sulla presentazione del testo che appare sullo schermo. L’intero sistema di identificazione e di trattamento dei testi viene dunque a trovarsi sovvertito. Leggendo su uno schermo, il lettore di oggi — e, più ancora, quello di domani — ritrova qualcosa della posizione del lettore dell’antichità, che leggeva un volumen, un rotolo. Ma — e la differenza non è sottile — con il computer il testo si svolge verticalmente ed è dotato di tutti i sistemi di riferimento propri del codice (paginazione, indice, tavole…). L’incrocio fra le due logiche operanti nella lettura dei precedenti supporti della scrittura manoscritta e a stampa (volumen, codex) indica chiaramente l’istituzione di una relazione del tutto originale ed inedita nei confronti del testo.
Tale logica viene ad iscriversi in una completa riorganizzazione dell’«economia della scrittura». Assicurando una possibile simultaneità alla produzione, alla trasmissione e alla lettura di uno stesso testo, e riunendo in uno stesso individuo i compiti, finora sempre distinti, della scrittura, dell’edizione e della distribuzione, la rappresentazione elettronica dei testi annulla le antiche distinzioni che separavano i ruoli intellettuali e le funzioni sociali. Di colpo, essa obbliga a ridefinire tutte le categorie che informavano sino ad ora le aspettative e le percezioni dei lettori. Ciò vale per i concetti giuridici che definiscono lo statuto della scrittura (copyright, proprietà letteraria, diritti d’autore…); le categorie estetiche che, a partire dal secolo XVIII, caratterizzano le opere (integrità, stabilità, originalità); i principi normativi (deposito legale, biblioteca nazionale) e biblioteconomici (catalogazione, classificazione, descrizione bibliografica), stabiliti in funzione di modalità diverse di produzione, conservazione e comunicazione dello scritto.
Nel mondo dei testi elettronici, due costrizioni, ritenute fino ad oggi imperative, possono essere eliminate. La prima è quella che limita strettamente i possibili interventi del lettore nel libro. Dal XVI secolo in poi, vale a dire dall’epoca in cui il tipografo si è assunto la responsabilità dei segni, dei marchi e dei titoli che all’epoca degli incunaboli erano aggiunti manualmente sulla pagina stampata dal correttore o dal possessore del libro, il lettore può insinuare la propria scrittura unicamente negli spazi vergini del libro. L’oggetto stampato gli impone la sua forma, la sua struttura, i suoi spazi. Esso non presuppone in alcun modo la partecipazione materiale, fisica, di colui che legge. Se il lettore intende, comunque, iscrivere la sua presenza nell’oggetto, egli non può farlo altrimenti che occupando, surrettiziamente, i luoghi del libro trascurati dalla composizione tipografica: contropiatti della legatura, carte lasciate bianche, margini del testo…
Con il testo elettronico le cose vanno in maniera diversa. Non soltanto il lettore può sottomettere i testi a operazioni molteplici (può indicizzarli, annotarli, copiarli, spostarli, ricomporli…), ma può, addirittura, divenirne coautore. La distinzione, immediatamente visibile nel libro a stampa, fra scrittura e lettura, autore del testo e lettore del libro, scompare a favore di una diversa realtà: il lettore di fronte allo schermo diviene uno degli autori di una scrittura a più mani o, quanto meno, si trova nelle condizioni di costituire un testo nuovo a partire da frammenti liberamente ritagliati e montati. Come il possessore di manoscritti, che poteva riunire in una stessa raccolta, uno stesso libro-zibaldone, opere di natura assai diversa, il lettore dell’età elettronica può costruire a suo piacimento insiemi testuali originali, la cui esistenza, organizzazione e apparenza non dipendono che da lui. E, come se non bastasse, può intervenire in qualsiasi momento sui testi, modificarli, riscriverli, farli propri. In questo modo, l’intero rapporto con lo scritto si trova sovvertito.
Al tempo stesso il testo elettronico autorizza, per la prima volta, l’abolizione di un’altra costrizione. Fin dall’antichità, gli uomini dell’Occidente sono stati ossessionati dalla contraddizione fra il sogno di una biblioteca universale, che riunisse tutti i testi mai scritti, tutti i libri mai pubblicati, e la realtà, necessariamente deludente, delle biblioteche realmente esistenti che, per quanto grandi esse fossero, non potevano fornire che un’immagine parziale, lacunosa, mutila, del sapere universale. L’Occidente ha fornito a questa nostalgia dell’esaustività impossibile e agognata due figure esemplari e mitiche: la biblioteca d’Alessandria e quella di Babele. L’elettronica, che permette la comunicazione di testi a distanza, annulla la distinzione, fino ad oggi incancellabile, fra luogo del testo e luogo del lettore. Essa rende pensabile, promesso, il sogno antico. Distaccato dalle sue materialità e dalle sue localizzazioni antiche, il testo nella sua rappresentazione elettronica può teoricamente raggiungere qualsiasi luogo e qualsiasi lettore. Supponendo che tutti i testi esistenti, manoscritti o a stampa, fossero trasformati in testi elettronici, la disponibilità universale del patrimonio scritto diverrebbe possibile. Ogni lettore, dovunque si trovi, alla sola condizione di trovarsi di fronte ad una stazione di lettura collegata con la rete che garantisce la distribuzione dei documenti informatizzati, potrà consultare, leggere, studiare qualunque testo, quali che siano la sua forma e la sua localizzazione originaria.
Come mostra Armando Petrucci, nel nostro mondo contemporaneo la lettura tradizionale subisce al tempo stesso la concorrenza dell’immagine e la minaccia di perdere i repertori, i codici e i comportamenti inculcati dalle norme scolastiche o sociali. A questa prima crisi se ne aggiunge una seconda, ancora minoritaria e diversamente avvertita secondo i Paesi: quella che trasforma il supporto dello scritto e che, di colpo, obbliga il lettore a nuovi gesti e nuove pratiche intellettuali. Dal codice allo schermo, il passo è altrettanto importante di quello compiuto dal rotolo al codice. Con esso, è l’ordine dei libri che fu quello degli uomini e delle donne d’Occidente dai primi secoli dell’era cristiana ad essere messo in questione. Si affermano o si impongono così nuove maniere di leggere che non è ancora possibile caratterizzare totalmente, ma che implicano, indubbiamente, pratiche di lettura senza precedenti.
Tipologia
Scandita dalle tre rivoluzioni che ne hanno trasformato le pratiche fra medioevo e XX secolo, la storia della lettura mette in evidenza alcuni modelli principali che si imposero l’uno dopo l’altro. Il primo di essi, analizzato in questo libro da Anthony Grafton, può essere qualificato come «umanistico». Esso caratterizza le letture colte dell’epoca rinascimentale a partire da una tecnica intellettuale specifica: quella dei «luoghi comuni».
Due oggetti costituiscono, al tempo stesso, i supporti e i simboli di questa maniera di leggere. Il primo è la ruota da libri. La sua esistenza è antica, ma i tecnici del Rinascimento si sono sforzati di perfezionarla grazie ai progressi della meccanica. Mossa da una serie di ingranaggi, la ruota da libri consente al lettore di far apparire simultaneamente di fronte a lui diversi libri aperti, disposti su ciascuno dei leggii che compongono l’apparecchio. La lettura che un tale strumento consente è una lettura di più libri alla volta. Il lettore che la pratica è un lettore che confronta, paragona, collaziona i testi, che li legge per estrarne citazioni ed esempi, e che li annota in maniera da ritrovare e indicizzare più facilmente i passi che hanno attirato la sua attenzione.
Il quaderno dei luoghi comuni è il secondo oggetto emblematico della lettura umanistica. Si tratta, al tempo stesso, di uno strumento pedagogico che ciascuno scolaro o studente si sente in dovere di possedere e di un complemento indispensabile della lettura erudita. Apprendista o esperto, il lettore copia in fascicoli organizzati per temi e rubriche frammenti di testi che ha letto, distinti secondo il loro interesse grammaticale, il loro contenuto o la loro esemplarità dimostrativa. Composti sulla base di letture, i quaderni dei luoghi comuni che si sostituiscono alle antiche arti della mnemotecnica, possono a loro volta divenire una risorsa per la produzione di nuovi testi. L’abbondanza dei materiali che contengono, e che fanno coesistere citazioni testuali e cose viste, fatti osservati ed esempi letti, nutre l’ideale retorico della copia verborum ac rerum, necessaria ad ogni argomentazione. Prodotto della lettura erudita, i quaderni dei luoghi comuni costituiscono nel secolo XVI un vero e proprio genere editoriale, dal momento che autori prestigiosi (Erasmo, Melantone) e librai-editori li moltiplicano e li specializzano, accumulando opere utilizzabili in diritto, pedagogia, teologia.
La lettura che caratterizza la tecnica dei luoghi comuni ha i suoi specialisti: questi lettori «professionisti» impiegati dalle famiglie aristocratiche per accompagnare i figli nei loro studi o per assumere presso i padri i ruoli multipli di segretario, lettore ad alta voce e, secondo il termine di Anthony Grafton e Lisa Jardine, di «facilitator». Ad essi spetta infatti comporre le epitomi e i sunto, le raccolte di citazioni e di estratti che devono aiutare il loro padrone o il loro protettore aristocratico nella lettura dei classici necessari al suo rango o alla sua professione. Ma al di là di questi «professionisti» – spesso vecchi laureati o professori universitari – la lettura fondata sul metodo dei luoghi comuni è condivisa da tutto il pubblico colto. Da questo punto di vista, l’esempio di Jean Bodin è perfettamente esemplare. Da un canto, egli raccomanda a chi vuole conoscere la storia di leggere compilando tre quaderni in cui raccogliere le materie umane, gli avvenimenti naturali e le cose divine. D’altra parte, egli stesso sembra praticare questa tecnica, dal momento che il suo libro pubblicato nel 1596, l’Universae Naturae Theatrum, è interamente costruito a partire dall’accumulo, per ogni questione trattata, di citazioni, osservazioni e informazioni organizzate alla maniera di una raccolta di luoghi comuni. Come tale, almeno, il libro è stato letto, come attestano le annotazioni marginali ritrovate su certi suoi esemplari, che assegnano i passi distinti dal lettore alle diverse rubriche di una nomenclatura dei luoghi comuni.
Rari sono nel Rinascimento i lettori colti che si allontanano da questo modello dominante. Montaigne è uno di essi. I suoi gesti di lettore si oppongono uno per uno a quelli dei lettori eruditi: leggendo, egli non tiene alcun quaderno dei luoghi comuni, rifiutandosi di copiare e compilare; non annota i libri che legge per trarne estratti e citazioni, ma fa figurare nell’opera stessa un giudizio globale; infine, nella redazione degli Essais non utilizza repertori di luoghi comuni, ma compone liberamente, senza attingere a ricordi di lettura o senza interrompere la concatenazione dei pensieri con riferimenti libreschi. Montaigne è dunque un lettore singolare che rifiuta regole e gesti della lettura di studio: non legge mai la notte, non legge mai seduto, legge senza metodo, e la sua biblioteca, ben lungi dall’essere una risorsa aperta e soggetta a spostamenti al pari di tutte le grandi biblioteche umanistiche, costituisce il luogo privilegiato per rifugiarsi al di fuori del mondo. Nulla è più adatto a mostrare l’estraneità di una simile pratica e, per contrasto, la forza dominante del modello cui essa si oppone, che gli sforzi fatti per sottomettere l’estraneità degli Essais a una divisione per loci communes o ad una riorganizzazione tematica che consenta una lettura più agevole al lettore che voglia attingerne estratti ed esempi. L’irriducibile originalità di Montaigne si percepisce meglio rapportandola alle convenzioni e alle abitudini che hanno governato la lettura erudita del Rinascimento.
Le riforme religiose dei secoli XVI e XVII installano in Occidente un secondo grande modello di lettura. Come mostrano i contributi di Jean-François Gilmont e di Dominique Julia, la diffusione su larga scala di un nuovo corpus di testi cristiani modifica profondamente il rapporto dei fedeli con la cultura scritta. Si stabiliscono nuove classificazioni, ben poco rispettose della classica dicotomia storiografica fra protestantesimo e cattolicesimo. L’opposizione spesso evocata fra il protestantesimo come religione dello scritto, fondata sulla lettura personale del testo biblico, e il cattolicesimo come religione della parola e dell’ascolto, e dunque della mediazione ecclesiastica, non è più accettabile al giorno d’oggi.
In primo luogo, sull’uno e sull’altro versante della frontiera confessionale operano gli stessi dispositivi di proscrizione e prescrizione che mirano a indirizzare i fedeli verso i soli testi autorizzati. Certo, le interdizioni non hanno ovunque lo stesso rigore o gli stessi appoggi – si pensi al ruolo giocato nella Chiesa romana dagli Indici dei libri proibiti e le condanne emesse dai tribunali dell’Inquisizione. Ma tutte le Chiese si sforzano di trasformare i cristiani in lettori e di appoggiare ad una produzione moltiplicata di libri di insegnamento, di devozione e di liturgia i nuovi gesti richiesti dalla riforma religiosa. La lettura diviene così, nella sua definizione spirituale e devozionale, interamente determinata dal rapporto con Dio. Essa non trova più il suo fine in se stessa, ma deve nutrire l’esistenza cristiana del fedele, condotto al di là del libro attraverso il libro stesso, portato dai testi decifrati, commentati, decifrati all’esperienza singolare e immediata del sacro.
D’altra parte, il contrasto più grave in materia di lettura cristiana sembra instaurarsi fra il luteranesimo e il cattolicesimo da una parte, e i protestantesimi riformati, calvinista o pietista dall’altra. Al pari del cattolicesimo romano, il luteranesimo, almeno fino alla fine del secolo XVII, non è una religione della lettura individuale della Bibbia. Nella Germania luterana, ma anche nell’Europa del Nord, la Bibbia è un libro da parrocchia, da pastori o da candidati al ministero, che non deve essere messo nelle mani di quanti rischierebbero di farne una lettura eterodossa e pericolosa. Di qui il ruolo essenziale, nei Paesi luterani e cattolici, della parola clericale e di tutti i libri che hanno il compito di indicare la corretta interpretazione della Scrittura. Catechismi, salteri, storie bibliche (riscritture del testo biblico) costituiscono il materiale privilegiato, del resto assai simile da una parte e dall’altra della frontiera confessionale, di questa mediazione di lettura.
Nei territori guadagnati al calvinismo e al puritanesimo, la frequentazione personale e familiare del testo biblico ha comportato pratiche di lettura del tutto diverse. La relazione diretta, senza intermediari, fra il fedele e la Parola sacra fa della frequentazione della Bibbia un’esperienza spirituale fondamentale e innalza la lettura del testo sacro a modello di tutte le letture possibili. Fatta a se stessi in silenzio o ad alta voce alla famiglia raccolta, praticata in chiesa o nella dimensione privata, presente in ogni momento dell’esistenza, la lettura della Bibbia definisce un rapporto con lo scritto di intensità singolare. Questo modello originale di lettura, che può essere visto come la forma compiuta della «lettura intensiva», domina tutti i lettori, religiosi o laici, membri di comunità calviniste o luterane, puritani e, a partire dagli ultimi decenni del XVII secolo, con la seconda Riforma, pietisti.
La storia delle pratiche di lettura induce quindi a rimuovere l’opposizione troppo semplice tracciata fra protestantesimo e cattolicesimo, per mettere piuttosto in evidenza le prossimità per lungo tempo inavvertite fra Chiesa romana e religione luterana, come differenze durevoli all’interno del mondo della Riforma. Questa storia consente anche di iscrivere nelle società occidentali, in contrasto con i modelli cristiani dominanti, pratiche diverse — ad esempio quelle delle comunità ebraiche analizzate in questo volume da Robert Bonfil. Al di là delle differenze che si evidenziano nel rapporto con lo scritto, ciò che queste letture minoritarie, spesso proibite e perseguitate (pensiamo all’esempio spagnolo), manifestano è un’appropriazione deviata dei testi, che ricostruisce una tradizione e una religione a partire dai frammenti incontrati nelle opere cristiane che condannano le tesi eretiche. Oltre le stesse comunità ebraiche, queste letture «in profondità», che decifrano i testi per trovarvi proprio quello che essi mirano a censurare e a obliterare, costituiscono una pratica di difesa per tutti i lettori (protestanti in terra di Controriforma, cattolici nei Paesi riformati, spiriti ribelli in regime di assolutismo…) che un ordine dominante si sforza di allontanare dalle opere che nessuno deve leggere.
Con la crescita generale dell’alfabetizzazione, l’ingresso nella cultura scritta a stampa di nuove classi di lettori (donne, fanciulli, operai) e la diversificazione della produzione tipografica, il XIX secolo (oggetto dello studio di Martyn Lyons) conosce una grande dispersione dei modelli di lettura. Il contrasto è forte, fra l’imposizione di norme scolastiche che tendono ovunque a definire un ideale unico, controllato e codificato, della lettura lecita e, d’altra parte, l’estrema diversità delle pratiche proprie ad ogni comunità di lettori, dotata di un’antica familiarità con lo scritto o accostatasi solo di recente alla stampa. Certo, non tutti i lettori degli Antichi Regimi occidentali leggevano allo stesso modo e tra i più virtuosi, lettori per eredità, per professione o per abitudine, e i più maldestri, quelli delle stampe degli ambulanti, gli scarti erano grandi. Ma con l’accesso quasi generalizzato alla competenza di lettura determinato nel secolo XIX, nell’Europa più sviluppata, dall’acculturazione allo scritto, a scuola e fuori dalla scuola, la frammentazione delle maniere di leggere e dei mercati del libro (o del quotidiano) instaura, dietro le apparenze di una cultura condivisa, una frammentazione più estrema delle pratiche. La tipologia dei modelli dominanti di rapporto con lo scritto, così come essi si sono avvicendati a partire dal medioevo (dal modello monastico della scrittura al modello scolastico della lettura, dalla tecnica umanistica dei luoghi comuni alle letture spirituali e religiose del cristianesimo riformato, dalle maniere popolari di leggere alla «rivoluzione della lettura» dell’età dei Lumi) cede il passo, nelle società contemporanee, ad una dispersione degli usi che corrisponde a quella del mondo sociale. Con il secolo XIX, la storia della lettura entra nell’età della sociologia delle differenze.
La lettura fra costrizioni e invenzione
La storia della lettura è stata a lungo divisa fra due tipi di approcci: quelli che intendevano modificare o andare oltre la storia letteraria tradizionale; quelli che si fondavano su una storia sociale degli usi dello scritto. L’estetica della ricezione alla tedesca, la «reader-response theory» all’americana, i lavori fondati sul formalismo russo e ceco, più storici degli strutturalismi francese e americano, sono stati altrettanti tentativi per «estrarre» la lettura dall’opera, per comprenderla come un’interpretazione del testo che non è interamente determinata dai concatenamenti linguistici e discorsivi. Su un altro versante, la storia della lettura ha trovato potenti sostegni nella storia dell’alfabetismo e della scolarizzazione, in quella delle norme e delle competenze culturali e in quella della diffusione e degli usi della stampa. Essa è apparsa come il prolungamento possibile, necessario, degli studi classici che hanno disegnato, per diversi siti europei, la congiuntura della produzione editoriale, la sociologia dei possessori di libri, la clientela dei librai, dei gabinetti letterari e delle società di lettura.
L’analisi bibliografica alla maniera inglese e americana ha proposto un’articolazione possibile fra queste due famiglie di approcci. Da una parte, essa mostra come le forme del libro e le disposizioni della pagina influenzano la costruzione del senso del testo. D’altra parte, essa raccoglie, sul libro stesso, le tracce della sua circolazione (note di possesso, ex-libris, menzioni di acquisto, di dono, di prestito…), della sua lettura (sottolineature, annotazioni, indici personali, testi manoscritti…). Ciò facendo, essa ricorda che i testi sono sempre comunicati ai loro lettori in forme (manoscritte o a stampa, scritte o orali) che li sottopongono a determinate costrizioni, senza peraltro distruggere la loro libertà.
La storia della lettura che, collettivamente, proponiamo in questo libro si propone di incrociare questi diversi approcci, anche se, ben intesa, essa è più storica che letteraria. Essa si pone un duplice obiettivo: riconoscere le costrizioni che delimitano la frequentazione dei libri e la produzione del senso; inventariare le risorse che la libertà del lettore è in grado di attivare — una libertà sempre delimitata da una rete di dipendenze multiple, ma che può ignorare, modificare o sovvertire i dispositivi destinati a ridurla.
Di questi dispositivi, i primi sono quelli istituiti dalla legge e dal diritto. Censure e autocensure, ma anche il regime giuridico che stabilisce il diritto degli autori e quello degli eredi sono altrettanti meccanismi che imbrigliano i lettori. Per difetto, privando la maggior parte di essi delle opere proibite, riservate alla minoranza di coloro che, privilegiati o audaci, sono clienti dei venditori clandestini. Per eccesso, perché i testi espurgati, emendati o rimaneggiati per volontà dei censori o degli esecutori testamentari si trovano allontanati dalla loro forma primitiva e dall’intenzione del loro creatore.
Le strategie editoriali pongono anch’esse dei limiti alle pratiche di lettura. Senz’altro, inventando generi nuovi, allo stesso tempo testuali ed editoriali, e mettendo a disposizione dei meno fortunati edizioni tipografiche a buon mercato (dapprima libri della «Bibliothèque bleue», chapbooks, pliegos sueltos, in seguito quotidiani e collezioni popolari), gli editori propongono al pubblico una gamma sempre più ampia e diversificata di letture possibili. La libertà dei lettori, tuttavia, non si può esercitare se non all’interno di queste scelte, compiute a partire da preferenze o interessi che non sono necessariamente i loro. Anche se queste preferenze non sono tutte né sempre soltanto commerciali, sono esse a governare le politiche editoriali e a modellare l’offerta di lettura. Questo controllo «a monte» dei lettori, attraverso le decisioni degli editori, avviato all’epoca dell’industrializzazione della stampa, delle concorrenze multiple e dei pubblici nuovi, ha caratterizzato in maniera durevole le società dell’Antico Regime.
All’interno dei territori così offerti ai loro percorsi, i lettori s’impadroniscono dei libri (o degli altri oggetti stampati), danno loro un senso, li investono delle loro aspettative. Questa appropriazione non è priva di regole né di limiti. Le prime provengono dalle strategie messe in atto dal testo, che intende produrre effetti, dettare gesti, obbligare il lettore. Le trappole che gli sono tese e in cui deve cadere senza neanche rendersene conto sono concepite in funzione dell’inventiva ribelle che gli viene sempre attribuita. Altri codici di lettura, al tempo stesso costrittivi e alternativi, sono forniti dall’illustrazione. Accompagnandosi spesso al testo a stampa, essa istituisce un protocollo di lettura che deve e enunciare insieme ad altri segni, ma in una stessa grammatica, ciò che è formulato dallo scritto, o offrire alla vista, in un linguaggio specifico, ciò che la logica del discorso è impotente a mostrare. Tuttavia, in entrambi i casi (che indicano due regimi di funzionamento assai differenziati del rapporto fra testo e immagine), l’illustrazione, incaricata di guidare l’interpretazione, può diventare il supporto di un’«altra» lettura, distaccata dalla lettera del testo, creatrice di un suo spazio proprio.
Questa dialettica della costrizione e dell’invenzione implica l’incrocio fra una storia delle convenzioni che regolano la gerarchia dei generi, che definiscono le modalità e i registri del discorso, e un’altra storia, quella degli schemi di percezione e di giudizio propri a ciascuna comunità di lettori. Uno degli oggetti principali della storia della lettura risiede dunque nell’identificazione degli scarti che, nella lunga durata, si determinano fra i lettori o i lettori immaginati, designati, previsti dalle opere e, d’altra parte, i loro pubblici molteplici e successivi.
Le variazioni della mise en texte delle opere producono anch’esse uno scarto simile. Dipendendo, secondo i casi, dalla volontà dell’autore, dalle scelte dell’editore o dalle abitudini dei tipografi (o dei copisti), le forme date alla presentazione dei testi hanno un duplice significato. Da un canto, esse traducono la percezione che gli artefici dei testi o dei libri hanno delle competenze dei lettori; dall’altro, tendono ad imporre una maniera di leggere, a modellare la comprensione e a controllare l’interpretazione. Nel manoscritto e nel libro a stampa queste differenze formali, materiali si collocano a livelli diversi. In primo luogo la linea di scrittura, con la comparsa nell’alto medioevo della separazione delle parole, che è una condizione essenziale perché sia possibile la lettura silenziosa. La pagina, in secondo luogo, due volte trasformata: nell’epoca più tarda del libro manoscritto, attraverso la scomparsa dei testi collocati nei margini (rubriche, glosse, commentari); nei secoli XVI e XVII, attraverso l’apparizione e poi la generalizzazione degli a capo e della divisione in paragrafi. Il libro stesso, infine, cui la tecnica tipografica conferisce la sua identità, declinata sul frontespizio, e una nuova maneggevolezza assicurata dalla generalizzazione e dalla fissazione del duplice dispositivo della paginazione e dell’indicizzazione.
La storia delle pratiche della lettura proposta da questo libro intende incrociare questi approcci diversi, queste diverse maniere di comprendere l’incontro fra i testi e i loro lettori. Un’unica idea fa da filo conduttore a tutti i saggi: fissare sullo studio delle trasformazioni delle maniere di leggere lo sguardo nuovo che si può rivolgere alle evoluzioni maggiori (culturali, religiose, politiche) che hanno sconvolto le società occidentali dall’antichità al giorno d’oggi. Assai presto, nel mondo greco, queste società sono state società dello scritto, del testo, del libro. Dunque, società della lettura. Ma la lettura non è un’invariante antropologica priva di storicità. Uomini e donne occidentali non hanno letto sempre alla stessa maniera. Molti modelli diversi hanno governato le loro pratiche: molte «rivoluzioni della lettura» hanno modificato i loro gesti e le loro abitudini. Sono i modelli e le rivoluzioni di cui la nostra opera intende stilare l’inventario e produrre la comprensione.
Guglielmo Cavallo — Roger Chartier
NOTE
1. M. de Certeau, L’invention du quotidien, Paris 1990² (1ª ed. 1980), I, Arts de faire, p. 251.
2. Ivi, p. 247.
3. P. Ricoeur, Temps et récit, Paris 1985, III, Le temps raconté, pp. 228-63 [trad. it. Tempo e racconto, III, Il tempo raccontato, Milano 1988].
4. S. Fish, Is There a Text in this Class? The Authority of Interpretative Communities, Cambridge, Mass., 1980 [trad. it. C’è un testo in questa classe? L’interpretazione nella critica letteraria e nell’insegnamento, Torino 1987].
5. D.F. McKenzie, Bibliography and the Sociology of Texts, The Panizzi Lectures (London 1985), London 1986, p. 20.
6. R. Stoddard, Morphology and the Book from an American Perspective, «Printing History», XVII (1990), pp. 2-14.
7. Basta qui rammentare il classico lavoro di E.G. Turner, Athenian Books in the Fifth and Fourth Centuries B.C., London 1977 [trad. it. I libri nell’Atene del V e IV secolo a.C., in Libri, editori e pubblico nel mondo antico. Guida storica e critica, a cura di G. Cavallo, Roma-Bari 1992², pp. 5-24]
8. B.M.W. Knox, Silent Reading in Antiquity, «Greek, Roman and Byzantine Studies», IX (1968), pp. 421-35.
9. Da notare che assai più aperto e favorevole allo scritto è l’atteggiamento di Platone ove non si tratti di discorso filosofico e «di verità», a quanto rileva, con ampia discussione, G. Cerri, Platone sociologo della comunicazione, Milano 1991, pp. 119-28.
10. Sulle maniere di leggere in relazione ai verbi che le significano si veda — oltre all’articolo di B. Chantraine, Les verbes grecs signifiant «lire», in Mélanges Henri Grégoire, II, Bruxelles 1950, pp. 115-26, e ai lavori di Svenbro — i contributi di G.F. Nieddu, Decifrare la scrittura, «percorrere il testo: momenti e livelli diversi dell’approccio alla lettura nel lessico dei Greci, «Giornale italiano di filologia, XL (1988), pp. 17-37, e di J.D. Allan, Anagignosko and Some Cognate Words, «The Classical Quarterly», n.s., XXX (1980), pp. 244-51.
11. Sui vari momenti del passaggio da una cultura orale ad una cultura compiutamente scritta mi limito a rimandare al quadro tracciato da L.E. Rossi, L ideologia dell’oralità fino a Platone, in Lo spazio letterario della Grecia antica, a cura di G. Cambiano, L. Canfora e D. Lanza, I, La produzione e la circolazione del testo, 1, La polis, Roma 1992, pp. 77-106.
12. È d’obbligo il rimando a L. Canfora, La biblioteca scomparsa, Palermo 1986.
13. R. Nicolai, Le biblioteche dei ginnasi, «Nuovi annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari», I (1987), pp. 17-48.
14. M. Citroni, Le raccomandazioni del poeta: apostrofe al libro e contatto col destinatario, «Maia», n.s., XXXVIII (1986), pp. 111-46.
15. G.M. Rispoli, Decadimento e lettura nella teoria retorica e grammaticale greca, «Koinonia», XV (1991), pp. 93-133.
16. Su tutta la problematica inerente alla trasmissione dei testi latini in età più antica si rimanda al lavoro di O. Pecere, I meccanismi della tradizione testuale, in Lo spazio letterario di Roma antica, a cura di G. Cavallo, P. Fedeli e A. Giardina, III, La ricezione del testo, Roma 1990, pp. 297-386.
17. J. Diethart-Ch. Gastgeber, Sechs eindringliche Hinweise für den byzantinischen Leser aus der Kommentarliteratur zu Dionysios Thrax, «Byzantinische Zeitschrift», LXXXVI-LXXXVII (1993-94), pp. 386-401.
18. E. Patlagean, Discours écrit, discours parlé à Byzance, «Annales. Economies, Sociétés, Civilisations», XXXIV (1979), pp. 264-78: articolo nel quale si legge una serie di acute osservazioni sulla cultura scritta a Bisanzio.
19. Fondamentale sulle pratiche di lettura in quest’epoca è il saggio di F. Alessio, Conservazione e modelli di sapere nel medioevo, in La memoria del sapere. Forme di conservazione e strutture organizzative dall’antichità a oggi, a cura di P. Rossi, Roma-Bari 1988, pp. 99-133.
20. Francesco Petrarca, de remediis utriusque fortunae, 1, 43, ed. G. Contini, in Mostra di codici petrarcheschi laurenziani, Firenze 1974, pp. 75-81 (precisamente, p. 79).
21. Su questa e altre questioni inerenti al rapporto tra libro, lettura e pubblico negli ultimi secoli del medioevo basti il rimando ad A. Petrucci, Il libro manoscritto, in Letteratura italiana Einaudi, II, Produzione e consumo, Torino 1983, pp. 499-524.