In questo saggio, Jurij Lotman interpreta la Divina Commedia di Dante come una vasta costruzione simbolica e architettonica dell’universo, in cui l’orientamento spaziale riflette un significato morale e metafisico. Attingendo alla semiotica, Lotman evidenzia come Dante codifichi la struttura cosmica nella forma poetica, rendendo la Commedia un testo decifrabile in cui l’“alto” simboleggia la verità divina e il “basso” la degradazione spirituale. Il paradosso della discesa all’Inferno accompagnata da un’ascesa spirituale si risolve all’interno del quadro simbolico di Dante, in cui l’asse del movimento ha un peso sia fisico sia metafisico. Lotman contrappone la ricerca lineare e moralmente orientata di Dante alla ricerca della conoscenza, moralmente indifferente, di Ulisse, mostrando come, sebbene entrambi siano “eroi del viaggio” che varcano confini, solo Dante integri conoscenza e virtù in una visione cosmica unificata. Ulisse, che rappresenta una curiosità scientifica proto-rinascimentale separata dall’etica, viene infine condannato. Al contrario, Dante — sia pellegrino che poeta — incarna una visione del mondo in cui conoscenza, ascesa morale e significato simbolico sono inseparabili. Lotman conclude che Dante aveva previsto una crisi moderna: la separazione tra scienza e morale, tra intelletto e coscienza — una frattura culturale che egli contrastò profondamente attraverso la sua cosmologia poetica integrata.
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Dante si paragonava a un “geometra” (Paradiso, XXXIII, 133–134).1 Forse oggi lo definiremmo più propriamente cosmologo o astronomo, se pensiamo a come già nella Vita Nuova vi fossero leggi di movimento cosmico complesse e appositamente calcolate. Ma, più di ogni altra cosa, sarebbe corretto chiamarlo architetto, poiché l’intera Divina Commedia è un vasto complesso architettonico, una costruzione dell’universo. Questo approccio comporta il trasferimento della psicologia della creazione individuale sull’universo cosmico: il mondo, in quanto creazione di qualcuno, deve avere uno scopo e un significato; e di ogni dettaglio possiamo allora chiederci: “Che cosa significa?”. Se questa domanda, che è naturale porre di fronte a un’opera architettonica, viene rivolta alla Natura e all’Universo, implica che li stiamo trattando come testi semiotici il cui significato va decifrato. E come per l’architettura, il primo elemento è la semiotica dello spazio.
Se il mondo è come un vasto messaggio inviato dal Creatore, allora vi è un messaggio misterioso codificato nel linguaggio della sua struttura spaziale. Dante decifra questo messaggio ricreando il mondo una seconda volta nel suo testo; egli assume così la posizione di trasmettitore del messaggio piuttosto che di suo ricevente, e la poetica della Divina Commedia è quindi orientata alla codifica. Ma ciò che rende particolare la posizione di Dante come autore è che, pur adottando il punto di vista del Creatore, non abbandona quello dell’umanità. È questo l’aspetto che illustreremo nel seguito. Ci soffermeremo sul significato dell’asse spaziale “alto/basso” nel mondo creato da Dante. Questo asse, tuttavia, ha due accezioni distinte nella Commedia: in un senso è relativo e opera solo sulla Terra. In tal senso il “basso” è identificato con il centro di gravità del globo, e l’“alto” con ogni raggio diretto verso l’esterno dal centro.
Quando noi fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de l’anche,
lo duca, con fatica e con angoscia,
volse la testa ov’ elli avea le zanche,
ed aggrappossi al pel com’ om che sale,
sì che ‘n inferno i’ credea tornar anche.
Ed elli a me: «Tu imagini ancora
d’esser di là dal centro, ov’ io mi presi
al pel del vermo reo che ‘l mondo fóra.
Di là fosti cotanto quant’ io scesi;
quand’ io mi volsi, tu passasti ‘l punto
al qual si traggon d’ogne parte i pesi.
(Inferno, XXXIV, 76–81; 106–111)
Ma l’edificio cosmico di Dante possiede anche un alto e un basso assoluti. Mentre persone situate ai poli opposti del globo “si trovano l’una di fronte all’altra con le piante dei piedi” (Convivio, III, v, 12), l’asse verticale assoluto è quello di cui Dante scrive nel Convivio: “Se una pietra potesse cadere dalla stella polare, cadrebbe nell’Oceano, e se qualcuno fosse sopra quella pietra, la stella polare sarebbe sempre sopra la sua testa” (ibid., 9). Questo asse penetra la Terra: il suo estremo inferiore è rivolto verso Gerusalemme, passa attraverso l’Inferno, il centro della Terra, il Purgatorio e termina nel centro splendente dell’Empireo. È lungo questo asse che Lucifero fu precipitato dal cielo.
I commentatori hanno spesso osservato la contraddizione tra l’alto e il basso relativi e quelli assoluti in Dante. Pavel Florenskij, filosofo e matematico, tentò di spiegare questa contraddizione utilizzando concetti di geometria non euclidea e fisica relativistica.2 Florenskij illustrò la sua idea servendosi proprio della Divina Commedia. Commentando i versi dell’Inferno citati sopra, Florenskij scrisse:
Dopo questo confine, il poeta ascende al monte del Purgatorio e viene trasportato attraverso le sfere celesti. Ora, la domanda è: in quale direzione? La via sotterranea attraverso cui sono saliti è stata formata dalla caduta di Lucifero, scagliato giù dal cielo. Dunque, il luogo da cui fu scacciato si trova da qualche parte nei cieli, nello spazio che circonda la terra, e sul lato di quell’emisfero che i poeti raggiunsero. Il monte del Purgatorio e Sion, che sono diametralmente opposti, sorsero come conseguenza della caduta di Lucifero, ma hanno un significato opposto. Così Dante si muove sempre in linea retta e in cielo si ritrova con i piedi rivolti verso il luogo della sua discesa; guardando da quel punto, dall’Empireo, verso la Gloria di Dio, si ritrova, senza voltarsi, a Firenze… Dunque, muovendosi sempre in linea retta e capovolgendosi una sola volta lungo il percorso, il poeta ritorna nello stesso luogo e nella stessa posizione in cui era partito. Se non si fosse capovolto durante il tragitto, sarebbe tornato in linea retta nello stesso punto, ma a testa in giù. La superficie percorsa da Dante è quindi tale che una linea retta su di essa, con un solo capovolgimento di direzione, riporta al punto di partenza in posizione eretta, mentre un movimento rettilineo senza capovolgimento riporta il corpo nello stesso luogo ma capovolto. Questa superficie è quindi chiaramente: 1) un piano riemanniano, poiché contiene linee rette chiuse, e 2) una superficie monofacciale, poiché si capovolge quando la si percorre perpendicolarmente. Queste due condizioni sono sufficienti a descrivere lo spazio di Dante come costruito secondo la geometria ellittica… Nel 1871 C. F. Klein dimostrò che una superficie sferica è come una superficie bifacciale, mentre una superficie ellittica è monofacciale. Lo spazio di Dante è estremamente simile a quello ellittico. Ciò getta una luce inaspettata sulla nozione medievale della finitezza del mondo. Ma queste idee geometriche generali hanno recentemente ricevuto un’inaspettata rilettura concreta nel principio di relatività.3
Florenskij, nel suo zelo di mostrare quanto la mente medievale sia più vicina al pensiero del ventesimo secolo rispetto all’ideologia meccanicistica del Rinascimento, si lascia forse trasportare un po’ troppo (per esempio, il ritorno di Dante sulla terra [Paradiso, I, 5–6] è solo accennato e non vi sono basi per supporre che abbia viaggiato in linea retta); ma il problema della contraddizione nella Commedia tra lo spazio reale-quotidiano e lo spazio cosmico-trascendentale, da lui messo in evidenza, è fondamentale, anche se la soluzione a tale contraddizione va cercata in un’altra direzione.
Secondo le idee di Aristotele, l’emisfero boreale, essendo meno perfetto, occupa la posizione inferiore, mentre l’emisfero australe quella superiore del globo. Così, quando Dante e Virgilio scendono lungo la scala relativa dell’asse “alto/basso” terrestre, cioè quando si inoltrano dalla superficie terrestre verso il centro della Terra, si stanno in realtà muovendo lungo l’asse assoluto in direzione ascendente. La soluzione di questo paradosso si trova nella semiotica di Dante. Nel sistema di credenze dantesco, lo spazio ha un significato, e ogni categoria spaziale possiede un proprio valore semantico.4 Ma il rapporto tra espressione e contenuto non è arbitrario, a differenza dei sistemi semiotici basati su convenzioni sociali. Per usare la terminologia di Saussure, qui non abbiamo a che fare con segni, ma con simboli. Per lo Pseudo-Dionigi l’Areopagita, una delle funzioni del simbolo è quella di “manifestare il mondo trascendente sul piano dell’essere… Tuttavia, la funzione di significazione è limitata dai vincoli dell’isomorfismo, sebbene tale isomorfismo sia in linea di principio diverso dalla mimesi classica”.5 Il contenuto, il significato del simbolo, non è legato alla sua espressione tramite convenzione (come avviene nell’allegoria), ma traspare attraverso di essa. Quanto più un testo si colloca in alto nella gerarchia, vicino alla luce celeste che è il vero contenuto di tutta la simbolica medievale, tanto più intensamente il significato traspare da esso e tanto più diretta e meno convenzionalizzata sarà la sua espressione. Quanto più ci si allontana dalla fonte della verità, tanto più fiocamente essa si rifletterà, e tanto più arbitrario sarà il rapporto tra contenuto ed espressione. Così, al livello più alto, la verità è accessibile alla contemplazione diretta attraverso l’occhio dello spirito, mentre al livello più basso la verità si intravede tramite segni convenzionali. Poiché i peccatori e i demoni di vari gradi usano solo segni convenzionali, essi possono mentire, tradire, ingannare e commettere perfidia – tutte modalità di separare contenuto da espressione. I giusti conversano anch’essi mediante segni, ma non ne fanno un uso distorto, e, attingendo alle fonti supreme della verità, possono penetrare nel mondo simbolico dei significati, privo di convenzioni.
Così, tra un gradino della gerarchia e l’altro, il rapporto tra contenuto ed espressione cambia. Più si sale, maggiore è la carica simbolica e minore è la convenzionalità. Ma, semanticamente, ogni nuovo livello gerarchico sarà isomorfo rispetto agli altri, per cui si stabilisce una relazione di equivalenza tra elementi di livelli differenti che abbiano significati simili.
Tutto ciò è direttamente rilevante per il nostro compito di comprendere le nozioni di “alto” e “basso” nella Commedia di Dante. L’asse “alto/basso” organizza l’intera architettonica semantica del testo: tutte le parti e i canti della Commedia sono marcati dalla loro posizione su questa coordinata fondamentale. Di conseguenza, il movimento nel testo dantesco è sempre una discesa o un’ascesa, e questi concetti hanno un significato simbolico: dietro la discesa o l’ascesa reale si intravede l’ascesa o la discesa spirituale. Tutti i peccati, che Dante dispone secondo una rigida gerarchia, possiedono un ancoraggio spaziale, cosicché la gravità del peccato corrisponde alla profondità della posizione del peccatore.
La discesa di Dante e Virgilio nell’Inferno ha il significato di una discesa verso il basso. Il paradosso, secondo cui mentre discendono salgono, è sottolineato nel verso sulla Luna che, passando nell’emisfero australe, si trova sotto i piedi dei poeti in cammino: “E già la luna è sotto i nostri piedi” (Inferno, XXIX, 10). Di conseguenza, in un senso più alto, questa discesa è un’ascesa (poiché scendendo all’Inferno e contemplando l’abisso del peccato Dante si eleva moralmente in senso assoluto, la sua discesa equivale a un’ascesa); ma allo stesso tempo, secondo criteri terreni, si tratta di una vera e propria discesa, con tutte le caratteristiche fisiche che essa comporta, incluso l’affaticamento dei viaggiatori. Questo viaggio verso il basso conduce i poeti alla “città dolente” (Inferno, III, 1), dove assistono ai tormenti infernali.
La complessa dialettica tra convenzionalità e non convenzionalità che si manifesta non appena iniziamo a riflettere sull’asse semiotico fondamentale dello spazio dantesco ci conduce al centro della gerarchia morale della Commedia. I commentatori hanno spesso osservato come la collocazione dei peccati nei cerchi dell’Inferno sia significativa: Dante si discosta dalle norme ecclesiastiche e dalle idee comunemente accettate. Se un lettore del Trecento non poteva che stupirsi del fatto che gli ipocriti fossero collocati nella sesta bolgia dell’ottavo cerchio e gli eretici solo nel sesto cerchio, allora il lettore moderno sarà sorpreso che l’omicidio (primo girone del settimo cerchio) sia punito meno severamente del furto (settima bolgia dell’ottavo cerchio) o della falsificazione (decima bolgia dell’ottavo cerchio). Ma esiste una logica rigorosa.
Abbiamo già detto che, quanto più ci si allontana dalle altezze della Verità e dell’Amore Divino, tanto maggiore è il grado di arbitrarietà nel legame tra espressione e contenuto. Nella vita terrena, gli uomini sono guidati da simboli divini nelle questioni di Fede e da segni convenzionali nei rapporti tra loro. La convenzionalità di questi segni contiene in sé la possibilità di una doppia interpretazione: essi possono essere utilizzati come strumenti di verità (quando le convenzioni sono rispettate) o di menzogna (quando le convenzioni sono violate o distorte). Il Diavolo è il padre della menzogna, colui che ispira a violare le convenzioni e qualsiasi altro tipo di accordo. Quando l’associazione vera tra espressione e contenuto viene alterata, questo è un peccato peggiore dell’omicidio, perché la Verità viene offesa e la Menzogna, con tutte le sue implicazioni infernali, viene scatenata.6 C’è dunque una logica profonda nel fatto che Dante giudichi le azioni malvagie meno gravi dei peccati che comportano la falsificazione dei segni, siano essi parole (e i peccati siano calunnia, adulazione, cattivi consigli, ecc.), beni materiali (contraffattori, alchimisti, e così via), documenti (falsari), fiducia (ladri), oppure idee e segni di rispetto (ipocriti e simoniaci). Ma i peggiori di tutti sono i traditori, coloro che infrangono patti e obbligazioni. Un atto peccaminoso è un singolo male, mentre la violazione dei legami semiotici preordinati distrugge le fondamenta stesse della società umana e trasforma la Terra nel regno di Satana, cioè nell’Inferno.
All’Inferno regna naturalmente la menzogna, poiché i legami tra segno e contenuto sono spezzati, e la menzogna non è una deviazione dalla norma, ma la regola stessa. I diavoli mentono quando dicono a Virgilio, nel canto XXI, che solo il sesto ponte sopra la bolgia è crollato, mentre in realtà tutti i ponti sono stati distrutti. Ma anche Dante, nel canto XXXIII, giura ad Alberigo che gli toglierà il ghiaccio dagli occhi, per poi infrangere il suo giuramento: “E cortesia fu lui esser villano” (Inferno, XXXIII, 150). Il crimine più grave, il tradimento, diventa valore nel luogo dove la villania è cortesia.
L’opposizione tra Verità e Menzogna, nel modello spaziale, si realizza nell’opposizione tra la linea retta diretta verso l’alto e il movimento circolare su un piano orizzontale. Era opinione diffusa che il movimento circolare fosse caratteristico della stregoneria e della magia, e, dal punto di vista del cristianesimo medievale, appartenesse al Demonio. Si confronti Sant’Agostino, che negava il movimento circolare del tempo e la ripetizione ciclica degli eventi, contrapponendovi l’idea di un movimento lineare del tempo: “Cristo è morto una sola volta per i nostri peccati”.7
Il modello etico dello spazio è da Dante correlato al suo modello cosmico. Quest’ultimo fu influenzato dalle idee di Aristotele, Tolomeo, Al-Farghani e Alberto Magno, ma soprattutto da quelle di Pitagora. Alla luce delle idee pitagoriche sulla perfezione del cerchio e della sfera tra le figure geometriche e i corpi, si può spiegare la costruzione circolare dell’Inferno nel modo seguente: il cerchio è immagine di perfezione; un cerchio posto in alto è perfezione del bene, ma il cerchio in basso è il male assoluto. L’architettura dell’Inferno è dunque la rappresentazione del male assoluto. Il sistema pitagorico delle opposizioni binarie ha influenzato Dante, e in particolare l’opposizione tra la linea retta, equivalente del bene, e la curva, equivalente del male. I movimenti dei peccatori all’Inferno si svolgono lungo curve chiuse e circolari, mentre quello di Dante è lungo una spirale ascendente che diventa infine una retta verticale. Ma naturalmente l’individualità di Dante si staglia sullo sfondo pitagorico, poiché non è il centro della sfera bensì la cima dell’Asse il suo punto di orientamento spaziale ed etico-religioso. I pitagorici avevano selezionato un certo numero di opposizioni fondamentali come “dispari/pari”, “sinistra/destra”, “finito/infinito”, “maschile/femminile”, “unità/molteplicità” e “luce/oscurità”, ma per Dante l’opposizione fondamentale è quella tra “alto/basso”, che non rivestiva importanza per i pitagorici.8
Il modello spaziale del mondo dantesco forma dunque un continuum su cui si inscrivono le traiettorie dei percorsi e dei destini individuali. Dopo la morte, l’anima compie un viaggio attraverso questo continuum della Costruzione del Mondo e giunge al punto che corrisponde al suo valore morale. Le anime dei beati sono nella pace eterna, mentre i peccatori sono in continuo moto ciclico: talvolta ciò prende la forma del movimento nello spazio (fughe e circoli infiniti), talvolta quella di trasformazioni ripetute — coloro che sono tagliati a pezzi vengono ricomposti per essere di nuovo tagliati; quelli che sono bruciati risorgono dalle ceneri per essere bruciati ancora; quelli scorticati ricrescono di pelle per poi essere nuovamente scorticati, e così via.9
La figura di Dante si staglia su tutto ciò: egli è libero di muoversi in tutte le direzioni, poiché il suo cammino verso l’alto include anche la conoscenza di tutte le vie della menzogna. Ma oltre a Dante, un altro personaggio nella Commedia ha il diritto di muoversi liberamente: Ulisse. L’episodio di Ulisse è unico, come hanno notato molti studiosi.10
L’immagine di Ulisse nella Commedia è duplice. Egli si trova nelle “bolge dei mal consiglieri” perché ha dato consigli fraudolenti. Considerando quanto detto sopra, questo fatto non dovrebbe sorprenderci. Il nostro interesse si concentra piuttosto sul racconto del suo viaggio e della sua morte. Ulisse e Dante seguono entrambi un percorso individuale, e i loro viaggi condividono una caratteristica comune: sono eroi della linea retta.11 La somiglianza è evidente anche nel fatto che i loro viaggi sono aperti, si lanciano entrambi verso l’infinito; partendo da luoghi precisamente nominati, si muovono in una direzione prestabilita, sebbene senza una meta esplicitamente indicata. Ma tra loro vi è una differenza essenziale: il senso del viaggio di Dante si riassume nella sua tensione verso l’alto; ogni passo è valutato in funzione di ciò, come passo in discesa o in ascesa. Il viaggio di Ulisse è l’unico, nella Commedia, per cui l’asse alto/basso non ha rilevanza: il suo intero cammino si svolge sull’orizzontale. Mentre Dante è collocato all’interno del globo cosmico cristallino, il cui spazio tridimensionale è attraversato da un asse verticale (e il fatto che Dante ne indichi e misuri anche la deviazione non ne toglie il significato metafisico — Purgatorio IV, 15–16, 67–69, 137–138), Ulisse viaggia, per così dire, su una mappa. Così, quando Dante, dai Gemelli, guarda giù verso la Terra, vede “di là da Cadice il folle volo d’Ulisse” (Paradiso, XXVII, 82–83).
Ulisse è in due sensi il doppio di Dante. Primo: entrambi sono “eroi del viaggio”, a differenza degli altri personaggi, i cui peccati o virtù li inchiodano a luoghi precisi dell’universo dantesco. Dante e Ulisse sono in costante movimento e, cosa ancora più importante, oltrepassano i confini degli spazi proibiti. La folla degli altri personaggi o resta ferma in un luogo, o si affretta verso un luogo stabilito, i cui confini definiscono il loro posto nell’Universo. Solo Dante e Ulisse sono esiliati — volontari o forzati —, spinti dalla passione, varcando i limiti che separano un’area del cosmo da un’altra. Secondo: entrambi percorrono la stessa rotta, nella stessa direzione, verso il Purgatorio — Dante attraverso l’Inferno e le cavità formatesi nel corpo di Lucifero dopo la sua caduta, Ulisse via mare, oltre la Spagna, Gibilterra, il Marocco. Sebbene il viaggio di Dante si svolga nel mondo infernale e quello di Ulisse nello spazio geografico reale, essi hanno lo stesso obiettivo. Ciò è confermato dal fatto che Dante, nel suo cammino attraverso il Purgatorio e il Paradiso, per così dire raccoglie il testimone di Ulisse. Due volte il poeta ricorda l’eroe annegato, e in entrambi i casi il ricordo è ricco di significato.
Durante la seconda notte nel Purgatorio, gli appare la Sirena, che gli dice: “Io volsi Ulisse del suo cammin vago / al canto mio” (Purgatorio, XIX, 22–23). L’immagine della Sirena richiama alla mente il coraggio di Ulisse durante le sue avventure marine nell’Odissea, ma la doppiezza della Sirena, la sua capacità di separare la forma esteriore dall’essenza interiore e di celare ciò che è ripugnante sotto una bellezza apparente (la capacità di trasformarsi è per Dante un segno della menzogna: per questo i bugiardi e gli ingannatori sono puniti all’Inferno), è un richiamo al mondo dell’inganno e alle bolge del male in cui Dante ha collocato Ulisse.
La seconda volta che si fa riferimento a Ulisse è quando il poeta si avvicina alla costellazione dei Gemelli. Trovandosi nel punto antipodale rispetto a quello in cui Ulisse è perito, Dante vola verso il meridiano delle Colonne d’Ercole e da lì sempre più su, nell’infinito, ripetendo il viaggio di Ulisse fino a giungere al punto in cui questi morì, sul meridiano di Sion–Purgatorio. Proprio sull’asse della caduta di Lucifero, che passa attraverso il luogo dove la nave di Ulisse si infranse, Dante si eleva verso l’Empireo. Il suo viaggio, dunque, prosegue quello di Ulisse dal momento stesso del naufragio. Ma fino a quel punto, essi si erano rispecchiati l’uno nell’altro.
Ma lo scopo di ogni raddoppiamento è proprio quello di mettere in evidenza le differenze sulla base della somiglianza. Ed è questo il nostro intento qui.
Come Dante, anche Ulisse unisce il desiderio di conoscere l’umanità con quello di comprendere i segreti del mondo: “a questa tanto picciola vigilia / d’i nostri sensi ch’è del rimanente, / non vogliate negar l’esperienza, / di retro al sol, del mondo sanza gente” (Inferno, XXVI, 115–118). È evidente che Dante è ispirato da questa nobile fame di conoscenza. Nella Commedia si riscontra spesso un confronto tra le persone autentiche e le creature dall’aspetto umano ma dalla natura bestiale (si veda nel XIV canto del Purgatorio l’enumerazione degli abitanti lungo l’Arno: i porci di Porciano, gli aretini canini, i lupi fiorentini e le volpi pisane). Molti dei tormenti infernali sono metafore bestiali rese concrete. Così, le parole di Ulisse ai compagni, che ricordano loro di essere uomini e non bestie, e di essere chiamati alla nobile conoscenza e non a un’esistenza animalesca, hanno un significato particolare per il poeta: “Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza” (Inferno, XXVI, 118–120).
Ma Dante e Ulisse percorrono vie diverse verso la conoscenza. Per Dante, la conoscenza è sempre legata a un’ascesa costante lungo l’asse dei valori morali; è una conoscenza che nasce dal perfezionamento morale di chi la cerca. La conoscenza eleva, e una morale più alta illumina la mente. Ma la sete di sapere di Ulisse è indifferente alla morale, non è né morale né immorale, si situa su un altro piano e non si preoccupa di problemi etici. Persino il Purgatorio, per lui, è solo una macchia bianca sulla mappa, e l’obiettivo di raggiungerlo non è altro che un viaggio per scoprire una terra sconosciuta. Dante è un pellegrino, Ulisse un viaggiatore. Per questo Dante, nel suo pellegrinaggio attraverso le regioni infernali e cosmiche, ha sempre una Guida, mentre Ulisse è condotto soltanto dalla propria audacia e dal proprio coraggio. Alla mente e al carattere dell’esploratore egli unisce la ribellione di Farinata. Il furfante epico, l’eroe ingannevole del racconto popolare che in Omero era diventato il re astuto di Itaca, diventa in Dante l’uomo del Rinascimento, il primo scopritore e viaggiatore. Questa immagine affascina Dante per la sua integrità e forza, ma lo respinge per la sua indifferenza morale. Ma in questa figura dell’eroe avventuroso del suo tempo, del cercatore, di colui che è curioso in tutti i campi tranne che in quello della morale, Dante scorgeva qualcosa d’altro: non solo i tratti del futuro immediato, la mentalità scientifica e l’atteggiamento culturale dell’età moderna; egli vedeva l’imminente separazione della conoscenza dalla morale, della scoperta dai suoi risultati, della scienza dalla persona umana.
Dunque, le differenze tra Dante e Ulisse non sono solo un conflitto ormai storico tra la psicologia del Medioevo e quella del Rinascimento.
Nella storia della cultura mondiale accade spesso che i pensatori posti sulla soglia di una nuova epoca ne colgano il senso e le conseguenze più chiaramente delle generazioni successive, già immerse in essa. Posto sulla soglia dell’età moderna, Dante vide uno dei pericoli più grandi del futuro. L’integrità era essenziale per il suo ideale: la sua conoscenza enciclopedica, che comprendeva virtualmente tutto l’arsenale scientifico del suo tempo, non era conservata nella sua mente come un insieme di informazioni separate, ma formava un unico edificio integrato che a sua volta si fondeva con l’ideale dell’impero universale e della costruzione armonica del cosmo. Al centro di questa vasta costruzione stava l’essere umano, potente come i giganti del Rinascimento, ma integrato nel mondo circostante e quindi impregnato di sentimento morale. Dante presagiva la nostra tendenza moderna a escludere la persona individuale, alla iperspecializzazione, che ha portato alla separazione della mente dalla coscienza e della scienza dalla morale — e questa tendenza gli era profondamente estranea.
Sarebbe naturalmente ingenuo identificare Dante, eroe della Commedia, con Dante autore. Dante-personaggio è l’antipodo di Ulisse, poiché ci ricorda che nessuno dei dannati deve essere compianto; ma Dante-autore non può fare a meno di provare pietà per Ulisse e un coinvolgimento emotivo nei suoi confronti. Il pensiero di Dante scaturisce dalla complessa relazione dialogica tra queste immagini.