Parlare della bellezza nel pensiero di Tommaso d’Aquino significa inoltrarsi in una regione della filosofia in cui l’estetica, lungi dall’essere un ambito autonomo e separato della riflessione, si presenta come una dimensione essenziale dell’ontologia, cioè dello studio dell’essere in quanto essere, della sua struttura, delle sue proprietà, delle sue modalità di manifestazione e di conoscenza. Non ci troviamo di fronte a un’estetica nel senso moderno del termine, vale a dire a un sistema di teorie sull’arte o sul gusto, ma piuttosto a una teoria della bellezza come proprietà trascendentale dell’essere, connessa intimamente alla verità e alla bontà, e per questo non riducibile né a un fatto psicologico né a un’impressione soggettiva, bensì fondata metafisicamente nella struttura stessa della realtà. In questo senso, l’affermazione secondo cui il bello sarebbe qualcosa di ineffabile, di cui non si potrebbe parlare, appare radicalmente estranea allo spirito del pensiero tomista, che al contrario ritiene possibile, e anzi necessario, analizzare razionalmente ciò che nel mondo si presenta come bello, poiché il bello è sempre, in ultima analisi, manifestazione intelligibile dell’essere.
Là dove i moderni tenderebbero a separare il bello dal vero, riducendolo eventualmente a un’impressione estetica soggettiva, Tommaso insiste sul carattere oggettivo del bello, e sulla sua intelligibilità: il bello è ciò che, una volta conosciuto, provoca piacere. La definizione più nota in proposito è quella secondo cui pulchra sunt quae visa placent, una formula che ha il pregio della concisione e della chiarezza, ma che va compresa nel suo significato profondo: visa non significa semplicemente “visto con gli occhi”, bensì conosciuto, colto dall’intelletto; placent non designa un piacere epidermico, ma il gaudio dell’intelligenza nel cogliere una forma conforme alle proprie attese razionali. La bellezza è dunque oggetto della contemplazione, e il piacere estetico è un effetto della conoscenza: siamo di fronte a una teoria gnoseologica del bello, in cui ciò che conta è la forma, ossia ciò che fa sì che una cosa sia quella che è.
La forma è, per Tommaso, principio dell’essere e dell’intelligibilità. Le cose sono, e sono conoscibili, in virtù della loro forma. Ora, la bellezza scaturisce proprio dalla forma: è il risplendere della forma nella materia, il suo manifestarsi con chiarezza, proporzione, integrità. Sono questi, del resto, i tre criteri attraverso cui Tommaso descrive la bellezza: integritas, proportio, claritas. L’integrità è la pienezza dell’essere: ciò che è bello non deve essere mutilato o difettoso, ma deve possedere tutte le parti che gli competono secondo la sua natura. La proporzione è l’armonia interna tra le parti, l’equilibrio, la simmetria, la corrispondenza tra le dimensioni: un corpo proporzionato è più bello di uno deformato, un discorso ordinato è più piacevole di un discorso caotico. La chiarità è infine quella qualità luminosa e rivelatrice che fa sì che la forma risalti, che sia percepita, che si offra allo sguardo dell’intelletto senza opacità, senza confusione.
Il concetto di claritas è forse il più affascinante dei tre, e anche il più metafisico: implica l’idea che la forma debba manifestarsi in modo tale da colpire, da emergere, da essere riconosciuta come tale. Si potrebbe dire che la clarità è ciò che consente il passaggio dal sensibile all’intelligibile, che permette all’occhio dell’anima di scorgere, dietro la materia, il disegno, l’essenza, la ragione profonda dell’ente. In questo senso, la bellezza non è una qualità aggiunta all’essere, ma una modalità del suo rivelarsi, una dimensione della sua intelligibilità. Si è in presenza del bello quando ciò che è si manifesta in modo perfetto, ordinato, luminoso. La bellezza, dunque, non è semplicemente ciò che attrae, ma ciò che svela; non è ciò che seduce, ma ciò che illumina.
Questo legame tra bellezza e verità conduce a una concezione profondamente unitaria dell’essere: ciò che è vero, è anche bello; ciò che è pienamente reale, è anche pienamente splendente, pienamente ordinato, pienamente conoscibile. Non è possibile, in quest’ottica, una vera bellezza che sia disgiunta dalla verità o dalla bontà: il bello, il vero e il bene sono tre modi con cui l’essere si offre all’intelligenza e al desiderio dell’uomo. Il vero si rivolge alla conoscenza, il bene alla volontà, il bello alla contemplazione. Ma sono tre aspetti di un medesimo essere, e non tre entità separabili. Da qui deriva anche la dignità conoscitiva dell’arte: essa non è un gioco arbitrario, non è una finzione soggettiva, ma una modalità di accesso all’essere. L’artista, infatti, non è un creatore ex nihilo, ma un artefice che lavora nella materia per rendere visibile una forma. L’opera d’arte è bella nella misura in cui riesce a tradurre una forma intelligibile in un oggetto sensibile dotato di ordine, proporzione e chiarezza.
Tuttavia, perché tutto questo possa accadere, occorre che anche lo spettatore sia adeguatamente preparato. Il piacere estetico, nella prospettiva tomista, non è un riflesso automatico, ma un effetto della conoscenza: esso dipende dalla capacità dell’intelletto di cogliere la forma. E questa capacità, a sua volta, presuppone un certo grado di educazione, di affinamento dell’anima, di esercizio dello sguardo interiore. Non si tratta di un elitismo intellettualistico, ma di una concezione gerarchica della conoscenza: così come ci sono diversi gradi dell’essere, così ci sono diversi gradi di accesso alla bellezza. Il bambino che contempla un fiore coglie già qualcosa del suo splendore; il botanico ne coglie la struttura; il poeta ne celebra l’armonia; il mistico vi scorge un riflesso dell’eterno. Tutti vedono, ma non tutti vedono allo stesso modo.
L’anima educata alla bellezza è dunque un’anima allenata alla forma, capace di riconoscerla, di amarla, di desiderarla. Per questo motivo, la contemplazione del bello ha anche un valore morale e spirituale: essa dispone l’anima all’ordine, alla pace, all’elevazione. La bellezza, in quanto risplendere della forma, richiama l’anima all’intellegibile, alla causa prima di ogni ordine, a quella fonte ultima da cui ogni bellezza deriva. In Dio, infatti, la bellezza non è una proprietà tra le altre, ma l’identità stessa dell’essere, della verità, della bontà. Egli è ipsum esse subsistens, l’essere in quanto tale, puro atto, forma purissima, e perciò bellezza assoluta. Tutte le bellezze del mondo sono partecipazioni imperfette della bellezza divina. Quando un’opera d’arte riesce, essa non fa che condurre l’anima verso l’alto, verso la fonte, verso il principio.
Di qui anche il ruolo pedagogico dell’arte, che non è mero intrattenimento, ma educazione all’essere. Un’arte che distorce, che confonde, che opacizza, non è solo brutta, ma falsa: manca di verità, e dunque di bellezza. Un’arte che nobilita la forma, che illumina la materia, che porta ordine là dove c’è disordine, è invece un atto di conoscenza, e anche un atto di amore. Chi ama il bello, ama l’essere; chi ama l’essere, ama la verità; chi ama la verità, ama Dio.
Tutto questo fa sì che la riflessione sulla bellezza, in Tommaso, non sia mai un puro esercizio teorico, ma un itinerario che coinvolge l’intero essere umano: intelletto, volontà, sensibilità, immaginazione. La bellezza è, in questo senso, il segno più alto della vocazione umana alla contemplazione: essa ci ricorda che non siamo fatti solo per agire, ma anche per comprendere; non solo per desiderare, ma anche per godere; non solo per possedere, ma anche per ammirare. La bellezza è il linguaggio segreto con cui l’essere ci parla, ci interpella, ci seduce verso il suo principio. Non si tratta di un mistero ineffabile, ma di una manifestazione intelligibile: qualcosa che può e deve essere pensato, detto, argomentato. E se è vero che esistono bellezze che ci lasciano senza parole, è altrettanto vero che proprio per questo dobbiamo cercare le parole per avvicinarle. Perché tacere di fronte al bello non è segno di rispetto, ma di impotenza.
Alla luce di queste considerazioni, è evidente quanto sia fuorviante affermare che il bello è ciò di cui non si può parlare. È invece uno dei modi più alti in cui l’essere si manifesta, e proprio per questo la filosofia, che dell’essere si occupa, deve dedicare ad esso le sue migliori energie. Parlare della bellezza significa parlare della forma, e parlare della forma significa parlare dell’intelligibilità del reale, della sua struttura, della sua finalità, della sua origine. Significa, in ultima analisi, riconoscere che l’uomo è un essere capace di riconoscere il senso, di cogliere il disegno, di amare l’ordine. E che nella bellezza del mondo si cela una chiamata: non a possedere, ma a comprendere; non a dominare, ma a contemplare; non a usare, ma a ringraziare.
Questa è la lezione che emerge con forza dal pensiero di Tommaso, e che ancora oggi possiamo raccogliere come antidoto contro ogni forma di estetismo vuoto, di soggettivismo emotivo, di nichilismo percettivo. La bellezza, ci insegna, non è ciò che ci piace, ma ciò che merita di piacere; non è ciò che ci colpisce, ma ciò che ci fonda; non è ciò che passa, ma ciò che resta. Essa è il volto sensibile della verità, l’eco visibile dell’essere, il riflesso luminoso della sapienza divina.
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BIBLIOGRAFIA CRITICA
Fonti primarie:
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Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, in particolare I, q. 5 (De bono in communi), q. 39 (De Trinitate), I–II, q. 27 (De amore), edizione consigliata: Sancti Thomae Aquinatis Opera Omnia, cura dei PP. Editori di Lione, 1889–1906.
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Tommaso d’Aquino, De Veritate, in particolare q. 1 (De veritate in communi) e q. 20 (De bello), a cura di R. Spiazzi, Edizioni Studio Domenicano, Bologna.
Studi e commenti:
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Étienne Gilson, Il pensiero di San Tommaso d’Aquino, trad. it. di A. Russo, Marietti, Torino, 2004.
Un’opera fondamentale per comprendere la struttura metafisica del pensiero tomista, con attenzione anche alla bellezza come proprietà dell’essere. -
Umberto Eco, Arte e bellezza nell’estetica medievale, Laterza, Roma-Bari, 1987.
Testo imprescindibile per seguire la genesi e le trasformazioni della nozione di bello nel Medioevo, con un capitolo approfondito su Tommaso. -
Josef Pieper, La bellezza e l’arte, trad. it. di R. Fontana, Morcelliana, Brescia, 1993.
Filosofia dell’arte in prospettiva tomista: uno studio sobrio e penetrante sulla claritas come epifania del senso. -
Jacques Maritain, Arte e scolastica, trad. it. di L. Pareyson, SEI, Torino, 1945.
Un tentativo moderno (e criticabile) di aggiornare la dottrina tomista al linguaggio contemporaneo dell’estetica. -
Jean-François Courtine, La philosophie de l’art au Moyen Âge, Vrin, Paris, 1990.
Volume denso e tecnico, per lettori avanzati, che colloca la riflessione tomista nella storia più ampia dell’estetica medievale.
Confronti moderni:
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Immanuel Kant, Critica del giudizio, trad. it. di G. Gentile, Laterza, Bari.
Utile per un confronto con l’idea di bellezza come “piacere disinteressato” e come giudizio estetico autonomo. -
Hans Urs von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica, vol. I, trad. it. di A. Sicari, Jaca Book, Milano.
Un confronto alto e sistematico tra l’estetica classica (greca e tomista) e una teologia della bellezza centrata su Cristo.