Nel momento in cui si cerca di definire la natura del conflitto in corso nella Striscia di Gaza, non è irrilevante osservare chi propone le definizioni, da dove le propone, e quale assetto di potere contribuisce a stabilire il campo semantico entro cui esse diventano accettabili o inaccettabili. Un recente editoriale apparso sul New York Times a firma di Bret Stephens, intitolato “No, Israel Is Not Committing Genocide in Gaza”, offre un esempio paradigmatico del modo in cui la grande stampa occidentale – in particolare quella americana – concorre alla costruzione di una narrazione funzionale non tanto alla comprensione dei fatti, quanto al loro contenimento all’interno di un quadro preconfezionato di alleanze, interessi e, soprattutto, impunità.
Stephens sostiene che Israele non stia perpetrando un genocidio perché, se davvero lo volesse, “avrebbe potuto essere più sistematico e letale”. Da un punto di vista logico, si tratta di un’argomentazione fallace, ma il punto non è la logica. Il punto è l’intenzione politica sottesa a questa costruzione discorsiva: ridurre l’accusa di genocidio a un problema di numeri, di efficienza tecnica, di metodicità militare, disinnesca alla radice qualsiasi giudizio etico-politico. È il discorso di chi vuole congelare la realtà in formule neutre, laddove la realtà è invece dinamica, sfuggente, a tratti indicibile. Ci troviamo davanti a una delle consuete operazioni ideologiche camuffate da realismo: negare la qualificazione giuridica di genocidio significa, nella sostanza, negare il fondamento stesso della denuncia morale. È una partita che si gioca più nel campo della legittimazione geopolitica che in quello della verità storica. E come tutte le partite geopolitiche, si gioca con regole asimmetriche. Se la Russia invade l’Ucraina, è genocidio. Se Israele rade al suolo Gaza, è autodifesa imperfetta. La differenza non sta nei morti – sono decine di migliaia in entrambi i casi – ma nel posizionamento strategico dei contendenti rispetto agli Stati Uniti, e quindi rispetto alla narrazione dominante.
Stephens non è uno sprovveduto. Conosce bene i limiti del discorso che propone. Ma il suo ruolo non è quello di convincere il lettore informato. È quello di fornire una copertura intellettuale a una linea politica. È l’editorialista che parla per conto di, non su qualcosa. E in questo senso, le sue parole non sono che l’estensione, su carta, della deterrenza israeliana: una forma di dominio che si esercita non soltanto sul terreno, ma anche nel dominio delle rappresentazioni.
Il punto è che, oggi, la rappresentazione è tutto. Se riesci a far passare l’idea che 60.000 morti – tra cui 17.000 bambini – non costituiscano un genocidio, hai già vinto. Hai spostato l’asticella della moralità pubblica verso un grado di tolleranza dell’orrore che rende possibile la prosecuzione delle operazioni militari senza conseguenze politiche rilevanti. Hai disattivato la soglia dell’indignazione. E quindi hai dato una forma alla realtà che permette di amministrarla secondo logiche di potenza. Del resto, l’idea che Israele possa compiere un genocidio è inaccettabile per l’Occidente non perché sia infondata, ma perché mette in discussione l’architettura simbolica su cui si regge gran parte della sua proiezione internazionale. Israele, sin dalla sua fondazione, ha incarnato un’eccezione geopolitica: uno Stato costruito su una negazione – quella della presenza araba palestinese – e sul riconoscimento esclusivo del proprio diritto ad esistere, qualunque ne sia il prezzo umano. Come ha detto esplicitamente Golda Meir, i palestinesi “non esistono”. Da qui la difficoltà ontologica, prima ancora che giuridica o morale, di riconoscere un genocidio: non si può sterminare ciò che non esiste.
In questo quadro, l’editoriale di Stephens non è un’opinione isolata, né un semplice esempio di cattivo giornalismo. È parte integrante di una campagna più ampia: quella volta a ridisegnare i confini del dicibile. Un’operazione sofisticata, che mira a svuotare di senso le parole più gravi – genocidio, crimine contro l’umanità, diritto internazionale – per lasciarne intatta la funzione retorica. Le parole rimangono, ma diventano gusci vuoti, recitabili nei consessi internazionali senza produrre effetti. È l’ideologia in forma postmoderna: tutto è relativo, tutto è opinabile, tutto è reversibile. Tranne l’impunità di chi domina.
È in questo senso che si può parlare di “genocidio giornalistico”: non perché l’articolo in sé uccida, ma perché legittima l’uccisione come fatto neutro, amministrabile, statisticamente compatibile con il mantenimento dell’ordine. È una forma di complicità strutturale. Ed è anche il segno di un passaggio d’epoca: nel tempo delle guerre infinite e delle verità mobili, non si combatte più per la verità, ma per il controllo delle sue definizioni. La questione, allora, non è solo morale. È strategica. Chi definisce cosa è genocidio, definisce cosa è lecito fare. E quindi detta le regole della prossima guerra.