Umberto Eco ha rappresentato, per la casa editrice Bompiani, una figura centrale non soltanto in quanto autore di opere di risonanza internazionale, ma anche e forse soprattutto come intellettuale capace di orientare scelte editoriali, di riconoscere la qualità, di tenere insieme coerenza culturale e apertura alla novità, esercitando per molti anni una funzione di guida interna che ha reso Bompiani, almeno per una stagione, un luogo vivo del pensiero italiano ed europeo. Quando quella realtà editoriale ha iniziato a trasformarsi sotto la spinta di logiche industriali estranee al lavoro intellettuale propriamente detto, Eco ha ritenuto necessario compiere un gesto che fosse al tempo stesso individuale e collettivo, simbolico e operativo: la fondazione de La nave di Teseo, nel 2015, insieme a un gruppo di scrittori ed editori decisi a riaffermare un’idea forte di progetto culturale. Non si è trattato di una scissione polemica, né di un’operazione nostalgica, ma di una rifondazione, condotta a partire da una domanda radicale: cosa significa, oggi, mantenere la continuità in un mondo che cambia incessantemente le proprie strutture materiali, i suoi mezzi di produzione e trasmissione, le forme stesse della parola scritta?
Il nome scelto per la nuova casa editrice – La nave di Teseo – non è, come talvolta accade, un richiamo mitologico decorativo, bensì un’indicazione precisa di metodo, una dichiarazione di principio che obbliga a interrogarsi sul concetto stesso di identità. Il paradosso, che risale a Plutarco ma che attraversa l’intera tradizione filosofica, pone una questione che ogni forma culturale viva prima o poi si trova a fronteggiare: se un oggetto, un organismo, una struttura viene modificato gradualmente in tutte le sue parti, fino a non conservarne più alcuna componente originaria, esso può ancora essere considerato lo stesso? La nave su cui Teseo viaggiò, e che gli Ateniesi conservarono con cura sostituendo via via ogni parte deteriorata, continua a essere percepita come la nave di Teseo, anche quando della struttura iniziale non rimane più nulla, se non la forma e il nome. Tuttavia, se le parti che la compongono sono interamente nuove, che cosa giustifica la permanenza dell’identità? È la funzione a determinarla? È la forma che resta costante, nonostante il mutamento della materia? Oppure l’identità è un’illusione costruita dal linguaggio e dalla memoria, che regge finché non si impone la consapevolezza del cambiamento avvenuto?
Questo interrogativo, lungi dall’essere confinato all’ambito teorico, si presenta con urgenza ogni volta che un’istituzione, un progetto, una comunità deve decidere se proseguire un cammino adattandosi alle trasformazioni del tempo oppure se ricominciare da capo, tentando di salvare non ciò che era, ma ciò che ha senso mantenere. La cultura non può fondarsi su una logica puramente conservativa, perché la sua vitalità implica il mutamento; ma nemmeno può affidarsi interamente alla discontinuità, perché senza una tensione alla coerenza e alla memoria essa si dissolve in frammenti privi di direzione.
È in questa prospettiva che il paradosso della nave di Teseo diventa paradigma del lavoro editoriale: ogni libro pubblicato, ogni scelta di traduzione, ogni collana inaugurata rappresentano un’asse che viene sostituita o rinnovata, e al tempo stesso un tentativo di conservare la rotta, la visione, il senso complessivo del viaggio. La nave di Teseo, come progetto editoriale, assume questa duplice responsabilità: rinnovare senza tradire, trasformare senza perdere la propria fisionomia, aprirsi al nuovo senza rinunciare al compito – non delegabile – di trasmettere, custodire, elaborare criticamente l’eredità della tradizione. Non si tratta, quindi, di affermare che l’identità resti intatta attraverso il tempo, ma piuttosto di riconoscere che l’identità stessa è una costruzione in movimento, un processo che richiede vigilanza, attenzione, discernimento. Una casa editrice non è un marchio né un semplice insieme di titoli, ma una forma di pensiero, e come ogni pensiero autentico essa vive solo nella misura in cui si espone al rischio del cambiamento, senza confonderlo con la dismissione di ogni principio. In questo senso, l’identità non è ciò che si possiede, ma ciò che si conquista ogni giorno, nella tensione tra il permanere e il mutare, tra il fedeltà e il dubbio, tra la memoria e la creazione.
Eco, con la fondazione de La nave di Teseo, ha indicato una via possibile per il pensiero editoriale contemporaneo: non la ripetizione dell’identico, né l’inseguimento della novità come valore in sé, ma l’attraversamento del tempo come campo di lotta e di discernimento, in cui la cultura si definisce non per ciò che conserva passivamente, ma per ciò che sceglie di portare con sé, come una nave che attraversa il mare aperto sapendo che ogni viaggio ne consumerà le assi, ma non necessariamente il nome.