Ritrovarsi a Tokyo

Guillaume Senez fa film come chi scava in un campo già arato cento volte ma ha ancora il coraggio di pensare che qualcosa lì sotto possa germogliare.

di Alberto Piroddi

Guillaume Senez fa film come chi scava in un campo già arato cento volte ma ha ancora il coraggio di pensare che qualcosa lì sotto possa germogliare. Con Ritrovarsi a Tokyo, ci prende per la gola con una storia che suona familiare, quasi logora — un padre che cerca sua figlia, un’assenza mai risolta — ma poi ci stringe per la gola con qualcosa di più subdolo: la convinzione che il cinema non debba rispondere, ma restare. Il film è fatto di presenze leggere, di tensioni che non si sciolgono e soprattutto di silenzi che, invece di essere riempiti, vengono lasciati lì a fermentare.

Jay è un francese a Tokyo, non per lavoro o per piacere, ma perché lì si è rifugiata, protetta dall’apparato legale giapponese, la figlia che la madre gli ha tolto nove anni prima. Lui è un uomo smarrito, non tanto per il dolore — quello l’ha metabolizzato da tempo — ma per l’inerzia a cui lo ha condannato. Non può vederla, non può parlarle, non può nemmeno avvicinarsi. Così si riduce a guidare un taxi in una città dove tutto è codice, regola, ordine. È un film su un uomo che vive in un paese che non lo vuole, alla ricerca di una figlia che non lo conosce.

Senez — e qui è lui a dirlo — ha concepito il film come un ibrido tra documentario e finzione, lasciando che il testo respirasse con i suoi attori. Ha scritto il copione, certo, ma poi ha lasciato che molto accadesse sul set, che la vita contaminasse la narrazione. È per questo che i dialoghi sembrano imperfetti, sospesi, pieni di esitazioni. Senez non voleva parole perfette, voleva parole vere. E per riuscirci ha diretto come un entomologo con l’ossessione per il dettaglio e il rifiuto per l’effetto.

Nel film, Lily entra nel taxi di Jay senza sapere chi lui sia. È una delle premesse più cariche di tensione della storia del cinema recente, e Senez la gira come se fosse una passeggiata qualunque. Nessuna musica. Nessun ralenti. Solo due persone in uno spazio chiuso che si parlano da sconosciuti. L’effetto è devastante. E lo è perché sa di verità. Senez dice di essersi ispirato a un caso reale, ma quel che conta è come riesce a mantenere l’emozione sotto traccia. Il film non cerca mai il pathos. Si accontenta dell’attrito. Quando Jay “rapisce” la figlia portandola con sé per un giorno — sottraendo il taxi con cui lavora — non c’è nessun gesto eroico. Non è una rivendicazione. È una richiesta d’asilo, una sospensione del tempo. In quell’arco di ore improbabili, i due cominciano a giocare, a ridere, a guardarsi. E non perché lo sceneggiatore l’abbia previsto, ma perché gli attori, come spiega il regista in un’intervista, hanno trovato quel ritmo sul set, spesso improvvisando. Il copione non è stato imposto, è stato ascoltato. Ed è per questo che Ritrovarsi a Tokyo ha la leggerezza di un istante catturato per sbaglio.

Lily non è una proiezione, né una metafora. È una ragazzina con un’età incerta, come tante adolescenti in transito. Non chiede nulla, non si lamenta, non cerca spiegazioni. E Jay, dal canto suo, non forza la mano. Senez ha detto che non voleva cadere nella “pornografia emotiva” — ed è l’intuizione più lucida di tutto il progetto. Ogni volta che il film potrebbe diventare drammatico, lo schiva. Come se l’unica vera catarsi fosse restare in silenzio abbastanza a lungo da non rovinare tutto.

C’è un momento, apparentemente quieto, in cui Jay e Lily trascorrono la notte sotto lo stesso tetto; nulla accade, nessuna confessione, nessun abbraccio, nemmeno un accenno di gesto che possa essere interpretato come una svolta emotiva, eppure è proprio in quella sospensione — in quell’intimità così pudicamente trattenuta — che il film tocca il suo punto di massima tensione. Perché è proprio l’assenza di un evento, la rinuncia deliberata al culmine, a generare un senso di densità emotiva che si insinua sotto pelle, lasciando addosso il peso di qualcosa che si è percepito senza che sia mai stato mostrato. Quando arriva il mattino, con la sua luce fredda e quasi indifferente, si ha l’impressione di essere stati spettatori di un atto sottilmente trasgressivo, non per ciò che è successo ma per ciò che si è intuito e che il film — con rara intelligenza — si rifiuta di esplicitare. Senez, che ha fatto della discrezione la sua poetica, non gira la scena come momento culminante, non la isola con la regia o con la musica; la lascia semplicemente accadere, consapevole che il rispetto per i personaggi non passa attraverso la dichiarazione delle emozioni, ma attraverso la sottrazione, attraverso quella forma di pudore narrativo che dice di più proprio quando tace. È un principio che molti registi amano enunciare con solennità, ma che solo pochi, e tra questi Senez, hanno davvero il coraggio di mettere in pratica.

Quando Jay viene arrestato, ormai prossimo alla fine del film, non c’è alcuna enfasi, nessun sussulto drammaturgico a scandire il momento, perché lo spettatore, abituato a un racconto che ha costantemente rifuggito il gesto spettacolare, sa già che il colpo di scena non verrà — e infatti non arriva. L’arresto, eseguito con un’efficienza quasi amministrativa, privo di pathos o reazioni convulse, appare più come un atto di riassegnazione burocratica che come un punto di rottura narrativa: è il mondo, impassibile e regolato, che riprende possesso del protagonista, che lo reinserisce nella griglia da cui aveva cercato di deviare anche solo per un giorno. Ma proprio quando sembra che tutto si sia chiuso con quella freddezza asettica, su un aereo che lo sta riportando in Francia come un pacco scomodo, Jay scopre sul suo telefono la presenza invisibile di un gesto tanto semplice quanto carico di significato: Lily ha installato un’app di geolocalizzazione, un piccolo segnale silenzioso che, pur senza dirlo, gli consente di continuare a seguirla, come a suggerire che quel legame, appena riconquistato, non sarà del tutto reciso. È forse l’unico vero atto d’amore del film, ed è tanto più potente perché avviene in assenza, perché non cerca testimoni, perché non vuole essere accolto come una dichiarazione ma come un’offerta muta. Senez, coerente con la sua poetica del non-finito, non costruisce una conclusione né una morale: lascia uno spiraglio, una traccia da seguire, l’idea che ciò che conta non è l’approdo ma la possibilità, remota ma viva, che qualcosa continui.

Tokyo, nel film, non esiste come spazio urbano, ma come zona neutra. Il regista ha detto chiaramente di non voler costruire una Tokyo-cartolina: voleva una città che potesse essere ovunque. E ci riesce. Il Giappone è ridotto a luci fredde, rumori di fondo, corridoi impersonali. È il contrario dell’esotismo. È lo sfondo ideale per un film che non vuole farci viaggiare ma farci restare.

Tokyo, in questo film, non si configura come un luogo riconoscibile o narrativamente connotato, ma come un’area neutra, priva di quegli elementi distintivi che solitamente trasformano le città in protagoniste accessorie della messa in scena; Senez, del resto, lo ha dichiarato con una nettezza che non ammette ambiguità: non gli interessava offrire allo spettatore una Tokyo da cartolina, un insieme di scorci pittoreschi pensati per l’estraneo in cerca di fascinazioni esotiche, bensì un ambiente urbano che potesse fungere da contenitore anonimo, replicabile, quasi astratto. E nel suo intento riesce pienamente. Il Giappone, così come viene percepito dallo sguardo del film, si riduce a un insieme di segnali visivi e sonori tenui, distaccati — luci al neon che non abbagliano, suoni ovattati che sembrano arrivare da altrove, corridoi lunghi e deserti che conducono a nulla. È un paesaggio de-personalizzato, e in questa rarefazione ambientale si delinea l’antitesi più netta rispetto a ogni tentazione folkloristica: non c’è alcuna volontà di sedurre con la differenza culturale, ma solo il desiderio — anzi, la determinazione — di far parlare lo spazio come tempo sospeso, come stasi. Ed è proprio in questa assenza di geografia emotiva che Tokyo diventa lo sfondo perfetto per un film che non vuole condurci da nessuna parte, ma trattenerci esattamente lì dove siamo, costringendoci a restare.

Mei Cirne-Masuki, esordiente assoluta, attraversa il film con una leggerezza che non somiglia alla timidezza degli attori alle prime armi, ma piuttosto a quella qualità trasparente — quasi diafana — che appartiene a chi non interpreta un ruolo bensì abita una condizione, senza bisogno di filtri o sovrastrutture recitative. Senez, consapevole della delicatezza di questa presenza, ha scelto di lavorare con lei non come con un’interprete da dirigere, ma come con una persona reale da ascoltare, evitando di piegarla a una forma preordinata o di imboccarla con un’idea precisa di personaggio da eseguire. L’intero film, nella sua architettura silenziosa, poggia proprio sulla sua spontaneità, su quel modo incerto ma autentico con cui Mei si muove nelle inquadrature, come se stesse imparando a essere vista mentre viene filmata. Non c’è, da parte del regista, alcuna imposizione, nessuna ossessione per il controllo del gesto o del tono: c’è piuttosto una fiducia rara, quella che consiste nel rinunciare all’autorità per preservare la verità.

La forza di Ritrovarsi a Tokyo risiede proprio nella sua riluttanza a farsi più grande del racconto che contiene, come se il film, consapevole dei propri limiti produttivi, scegliesse di non compensarli con artifici ma di abitarli pienamente, lasciando che dentro quell’apparente modestia si agitino la paura, il desiderio, la memoria e quella forma muta di rinuncia che spesso accompagna gli affetti interrotti. Tutti elementi che il cinema contemporaneo, sempre più incline a disinnescare il sentimento con l’ironia o a gonfiarlo fino all’enfasi, ha ormai imparato a evitare o, peggio, a ridicolizzare. Senez, invece, li assume come materia prima, senza travestirli, affidandosi a loro con la leggerezza di chi non sente il bisogno di dimostrare nulla — né al pubblico, né a sé stesso. E proprio per questo, il film non si configura come una storia d’amore tra padre e figlia, ma come il tentativo, quasi clandestino, di mostrare che l’amore, quando infine si manifesta, non ha più necessità di essere nominato, perché è già troppo tardi per definirlo e, allo stesso tempo, ancora abbastanza presto per viverlo. E a volte, questo è tutto ciò che si può chiedere.

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