La guerra tra Iran e Israele si estenderà alla Turchia? | Intervista con Naim Babüroğlu

Naim Babüroğlu analizza il conflitto Israele-Iran come parte di un piano USA per ridisegnare il Medio Oriente, con la Turchia potenziale prossimo bersaglio.

Un’intervista con l’analista militare e storico turco, Naim Babüroğlu, affronta con lucidità e toni allarmati la situazione geopolitica attuale in Medio Oriente, focalizzandosi sul conflitto tra Israele e Iran, sulle sue radici storiche e sulle sue implicazioni strategiche per la Turchia e per l’intera regione. Secondo Babüroğlu, gli eventi attuali non sono il frutto di una dinamica recente ma di un progetto strategico cominciato almeno vent’anni fa, con Israele che ha atteso il momento propizio per colpire i vertici militari e politici dell’Iran, come dimostrato da attacchi mirati a figure chiave del regime.

Ripercorrendo la storia recente, l’intervistato ricorda come la rivoluzione islamica del 1979 abbia radicalmente mutato il ruolo geopolitico dell’Iran. L’arrivo di Khomeini al potere, con l’appoggio implicito della Francia e l’uscita di scena dello scià, portò alla fondazione della Repubblica islamica e alla brutale eliminazione dell’opposizione laica e liberale. Per gli Stati Uniti, la perdita dell’Iran fu un colpo durissimo, segnando la trasformazione di un alleato strategico in un nemico giurato. Da allora, USA e Israele hanno considerato Teheran un pericolo esistenziale. In questo contesto si inseriscono l’inasprimento delle sanzioni, le accuse di proliferazione nucleare e l’isolamento diplomatico, anche se è chiaro che i progetti iraniani per l’arricchimento dell’uranio non erano all’inizio un casus belli, ma solo un pretesto per una strategia già pianificata.

Babüroğlu ricorda un episodio chiave avvenuto nel 2001, poco dopo l’11 settembre: l’allora generale Wesley Clark rivelò che il Pentagono aveva già in programma, nel giro di una settimana dagli attentati, di attaccare l’Iraq, nonostante non vi fosse alcun legame con al-Qaida. Pochi giorni dopo, emerse un piano ancora più ambizioso: rovesciare i regimi di sette Paesi — Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran. Questo disegno strategico si è progressivamente concretizzato: Iraq e Libia sono stati devastati, la Siria è stata smembrata, e il Libano è ormai uno Stato fallito. Restava solo l’Iran, ora al centro dell’attenzione militare.

Il generale accenna anche a un accordo segreto del 2015 tra Israele e Arabia Saudita per la stabilizzazione della regione attraverso la creazione di uno Stato curdo indipendente, con l’obiettivo di frammentare i Paesi ritenuti ostili — Iran, Siria, Iraq e, infine, la Turchia — alimentando tensioni etniche. Israele sostiene apertamente le milizie curde in Siria e Iraq, considerandole un alleato contro Teheran. Inoltre, molti Stati arabi — Emirati, Bahrein, Arabia Saudita — si sono avvicinati a Israele, marginalizzando i palestinesi e ridisegnando la mappa politica della regione.

La svolta, secondo Babüroğlu, è arrivata il 7 ottobre 2023, con l’attacco di Hamas a Israele, da lui paragonato all’11 settembre americano. La portata simbolica e mediatica dell’evento, abilmente sfruttata da Tel Aviv, ha fornito il pretesto ideale per lanciare l’offensiva su Gaza, colpire Hezbollah in Libano, e infine colpire l’Iran. L’apparato militare israeliano era già pronto da tempo, con comandi militari sotterranei, piani di evacuazione e gestione mediatica studiati nei minimi dettagli. Israele ha così intrapreso un’operazione totale di neutralizzazione di tutti i “tentacoli” iraniani: Hamas, Hezbollah, le milizie sciite in Siria e Iraq.

L’intervento di Israele, tuttavia, avviene con il pieno supporto occidentale. USA, Francia e Regno Unito sono coinvolti attivamente nella difesa del territorio israeliano da missili e droni iraniani, attraverso sistemi multilivello dislocati in Iraq, nel Golfo Persico, in Giordania e nel Mediterraneo orientale. In particolare, l’intervento militare occidentale si concretizza attraverso sistemi antimissile, navi da guerra e basi aeree nei Paesi arabi, con il coordinamento di CENTCOM (il comando centrale statunitense). Il radar NATO di Kürecik (in Turchia), pur teoricamente non condivisibile con Paesi non NATO, fornisce nei fatti informazioni in tempo reale a Israele grazie alla mediazione di USA e altri alleati.

Secondo Babüroğlu, anche se la NATO formalmente non entrerà in guerra, le sue potenze di punta — USA, Francia, Regno Unito — lo sono già. La Turchia, pur non coinvolta direttamente, è esposta a rischi crescenti: sia per la presenza della base di Kürecik, che potrebbe essere vista da Teheran come obiettivo, sia per i rischi derivanti dalla pressione demografica e politica che l’instabilità iraniana potrebbe generare. Un crollo dell’Iran comporterebbe un’ondata migratoria ben più vasta di quella siriana, dato che l’Iran ha una popolazione quattro volte superiore. Milioni di profughi potrebbero dirigersi verso l’Anatolia, aggravando le tensioni sociali e le fragilità economiche interne.

Babüroğlu sottolinea inoltre che dietro l’attacco a Teheran c’è una doppia strategia americana: da un lato distruggere l’Iran come minaccia militare, dall’altro favorire la creazione di uno Stato curdo indipendente spezzando territori da Siria, Iraq, Iran e Turchia. In questo contesto, la Turchia rappresenta l’ultimo anello della catena. Non ci si attende un attacco diretto, ma un’erosione interna del tessuto nazionale attraverso richieste di autonomia, federalismo, gestione delle risorse regionali, fino a una progressiva secessione. Secondo l’analista, il Partito DEM (erede politico del movimento curdo) manifesta apertamente questa agenda, richiamando apertamente il diritto all’autodeterminazione in aree ricche di risorse come l’Altopiano del Sud-Est.

In questo scenario, Babüroğlu invita la Turchia a non concentrarsi su riforme costituzionali interne, ma a rafforzare l’unità nazionale e a chiudere le porte a qualsiasi progetto federale o secessionista. A suo parere, l’unico modo per resistere a questa offensiva multipla — etnica, geopolitica, migratoria, militare — è tornare alla politica estera di Mustafa Kemal Atatürk: non intromettersi nei conflitti arabi, non provocare la Russia, non farsi strumentalizzare dalle potenze imperiali. L’unità nazionale, conclude, è la difesa più solida contro ogni minaccia esterna. La Turchia deve evitare, come ammonisce il proverbio, di seminare vento per raccogliere tempesta.

Il quadro delineato è inquietante: l’Iran appare ormai destinato al collasso, Israele agisce come longa manus americana, e la regione si avvia verso un nuovo assetto, con guerre a bassa intensità, crisi umanitarie e nuovi equilibri etnico-statuali. Babüroğlu si appella infine alla lezione della storia: chi dimentica gli errori del passato è destinato a ripeterli. E chi ignora Atatürk, oggi, rischia di ritrovarsi domani con il destino di una Siria o di un Iraq.

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