Jeffrey Sachs: NATO e Russia sull’orlo della guerra nucleare

Jeffrey Sachs: NATO e Russia sull’orlo della guerra nucleare

In questo intervento, il professor Sachs analizza il declino della diplomazia, della razionalità e dell’istinto di autoconservazione in Occidente. Mentre le forze nucleari russe venivano attaccate, i leader politici e i media occidentali hanno reagito con entusiasmo.

Nel commentare le dinamiche internazionali più recenti, è inevitabile prendere atto di un fenomeno tanto inquietante quanto trascurato: la scomparsa quasi totale del pensiero strategico all’interno delle élite occidentali. Una forma di autoipnosi collettiva ha trasformato il confronto tra potenze nucleari in una partita a Risiko priva di conseguenze. L’attacco ucraino – pianificato o almeno diretto con il supporto dell’intelligence occidentale – a basi strategiche russe contenenti vettori nucleari, è un evento che, se osservato con gli strumenti tradizionali dell’analisi geopolitica, rasenta l’insensatezza. È come se si fosse smarrito il senso del limite, quel principio cardine che, per tutta la durata della Guerra Fredda, aveva imposto ai contendenti la prudenza del mutuo riconoscimento.

La dottrina della deterrenza si reggeva, infatti, su una tacita intesa: mai colpire le capacità nucleari dell’altro, pena l’innesco di una reazione potenzialmente finale. Il solo fatto che oggi questo tabù venga infranto con leggerezza, se non con aperto compiacimento mediatico, segnala un cambio di paradigma che non è stato né elaborato né discusso pubblicamente. Gli Stati Uniti – o meglio, la loro macchina securitaria permanente – hanno agito come se non ci fosse più bisogno di simulare un ordine basato su regole. Il disarmo progressivo dei trattati nucleari, iniziato con l’uscita unilaterale dall’ABM Treaty nel 2002, è stato il sintomo, non la causa, di questa trasformazione. Quel che conta davvero è la convinzione radicata in una parte significativa dell’establishment americano che la diplomazia sia un orpello del passato, adatto ai deboli, un linguaggio per perdenti.

Nell’assenza di un pensiero strategico condiviso, si è insinuata un’ideologia della forza come fine in sé. L’idea che si possa sferrare un colpo micidiale all’infrastruttura strategica russa, senza attendersi conseguenze, è frutto di un’allucinazione imperialista che ha smesso di confrontarsi con la realtà multipolare. Questo stato di cose è aggravato dalla subalternità dell’Europa, non più soggetto geopolitico ma mera protesi del potere americano. Le dichiarazioni e le posture dei leader europei – da Macron a Scholz, passando per gli eredi sbiaditi delle famiglie socialdemocratiche – rivelano l’inesistenza di un pensiero autonomo, figlio di una lunga decadenza che ha spogliato il continente della propria tradizione diplomatica. L’Europa non media, non propone, non frena: si accoda, silente e disciplinata, a una traiettoria imposta da altri, persino quando questa sembra condurre dritta verso l’abisso.

La pace non è più una categoria del pensiero politico. Non esistono movimenti organizzati che mettano in discussione l’interventismo perenne; non esistono partiti di massa che rivendichino una politica estera fondata sulla stabilità e sulla coesistenza. Persino le Chiese tacciono, paralizzate da una retorica dei “valori” che ha finito per diventare il paravento dell’espansionismo militare. Non si discute più delle ragioni dell’altro – Russia, Cina, Iran – perché l’altro non è più un attore, ma una caricatura del Male. In questo senso, la categoria dell’avversario ha ceduto il passo a quella del nemico ontologico: chi non si piega, va spezzato. Il risultato è la fine del dialogo, ma anche della razionalità politica.

Il collasso delle istituzioni democratiche, ampiamente descritto ma raramente spiegato, si manifesta proprio qui: nel silenzio assoluto che circonda decisioni di guerra assunte in ambienti opachi, senza alcun vaglio parlamentare, senza dibattito pubblico, senza rendicontazione. L’opinione pubblica – quella residua, non ancora evaporata nella nebbia dei social e dell’infotainment – è largamente ostile all’escalation. Eppure, nessuna forza politica rilevante intercetta questo disagio. Il sistema partitico, nell’insieme, ha smesso di rappresentare; è diventato un meccanismo autoreferenziale, che seleziona il personale politico non sulla base della competenza o della visione, ma dell’allineamento a una linea data, fissata altrove.

In questo scenario si è aperto un varco inquietante: la politica estera come monopolio del cosiddetto deep state, ossia di quelle componenti stabili e non elettive dell’apparato statale – intelligence, Pentagono, agenzie strategiche – che agiscono in piena autonomia, spesso in contrasto con la linea nominale dei governi. Lo si è visto con Trump, che pur dichiarando di voler porre fine alla guerra, resta silente di fronte ad atti che la intensificano. Lo si è visto con Biden, la cui amministrazione alterna dichiarazioni distensive a operazioni belliche coperte. Lo si vede ogni giorno con il ruolo crescente delle agenzie angloamericane nel determinare la traiettoria del conflitto.

Ma questa nuova forma di potere strategico non si fonda più sull’equilibrio, bensì sull’azzardo. E qui si manifesta il cortocircuito. La stessa logica che porta a colpire i bombardieri strategici russi, nella convinzione che Mosca non reagirà per timore dell’escalation, è la logica che può indurre Mosca a reagire per evitare di apparire debole. Il gioco a somma zero, in un contesto nucleare, diventa una roulette russa. Eppure, questa elementare considerazione sembra sfuggire del tutto ai decisori occidentali. La loro è una razionalità binaria, mutuata più dai videogiochi che dai testi di strategia. Ragionano in termini di vincitori e vinti, non di sopravvivenza comune.

In questo contesto, la domanda decisiva non è tanto se Mosca risponderà – perché prima o poi lo farà – ma come e quando. Una rappresaglia diretta contro territori NATO sarebbe un passo irrevocabile verso la catastrofe. Più probabile, ma non meno drammatica, è l’intensificazione dello sforzo militare in Ucraina, con l’obiettivo dichiarato di annientare il regime di Kiev, percepito come marionetta strategica dell’Occidente. La spirale, a quel punto, sarà difficilmente arrestabile.

L’alternativa esiste, ma richiede lucidità e coraggio: rientrare nel perimetro della diplomazia, riconoscere le legittime preoccupazioni di sicurezza altrui, ricostruire un quadro multilaterale di controllo degli armamenti. Richiede, soprattutto, una cesura netta con la narrazione dominante, quella che riduce la politica internazionale a una lotta morale tra il Bene e il Male, e la strategia a una sequenza di provocazioni da rivendicare su Twitter. È chiedere troppo? Forse. Ma l’alternativa è la dissoluzione della ragione geopolitica nell’irrazionalità bellica. Ed è lì che ci stiamo dirigendo, senza alcun freno.

Torna in alto