Sbatti il mostro in prima pagina

Recensione di Roberto Alonge per "Cinema Nuovo". Sbatti il mostro in prima pagina è un film su un particolare tipo di giornale, il quotidiano “indipendente”, verso il quale il lettore medio è per forza di cose più sprovveduto, più disponibile alla manipolazione.
Sbatti il mostro in prima pagina

Regia: Marco Bellocchio; soggetto e sceneggiatura: Sergio Donati; collaborazione alla sceneggiatura: Goffredo Fofi; fotografia (eastman-color): Luigi Kuveiller e Menczer Erico; musica: Ennio Morricone; scenografia: Dante Ferretti; montatore: Ruggero Mastroianni; interpreti: Gian Maria Volontè (Bizanti), Carla Tatò (la moglie di Bizanti), Fabio Garriba (il giornalista Roveda), Laura Betti (Zigaina), Corrado Solari, Jacques Herlin, Michel Bardinet, John Steiner, Gisella Burinato; produzione: Ugo Tucci per la Juppiter Generale Cinematografica-Uti Produzioni Associate, Roma, e Labrador Films, Parigi, (Italia-Francia, 1972); distribuzione: Euro International Films.

Sbatti il mostro in prima pagina è un film su un particolare tipo di giornale, il quotidiano “indipendente”, verso il quale il lettore medio è per forza di cose più sprovveduto, più disponibile alla manipolazione. Il primo interesse del film risiede nel sottolineare la falsificazione giornalistica (si veda la lucida scena-lezione in cui Bizanti corregge a colpi di eufemismi l’articolo di Roveda; o la provocazione di Roveda spinto alla conferenza stampa per trame un “pezzo” ad effetto sulla “selvaggia aggressione” al cronista), la funzionalità rispetto al potere politico di tale falsificazione (il legame fra giornale e polizia, fra giornale e industriali). Il caso Martini, opportunamente montato sí da indiziare di omicidio un esponente di Lotta Continua, è il capolavoro del giornalismo servo dei padroni: da un lato la cronaca nera, l’assassinio, la violenza carnale, i miti della verginità, della moralità; dall’altro lato le ossessioni dell’estremismo politico, della rivoluzione, in una saldatura felicemente onnicomprensiva di tutti i mostri della fantasia borghese. Le inquadrature che fissano i titoli del giornale si succedono con una logica stringente: prima l’annuncio dell’assalto al quotidiano, poi la notizia della ragazza violentata e le proteste sulla “verginità indifesa”, infine il ritrovamento della equazione: lo stupratore e l’assassino è un sovversivo di sinistra. Crimine sessuale ed estremismo politico potranno tornare a disgiungersi, forse, ma dopo le elezioni (significativa la chiusa: Bizanti scopre il vero colpevole, ma gli impone il silenzio; e la scena seguente mostra Almirante in piazza Navona per un comizio “oceanico”).

Il film mette a nudo, sí, la manipolazione come funzione del potere politico, ma potere politico su che cosa? Potere politico sulla classe operaia, ovviamente. Ma proprio il film sconta una sconcertante approssimazione di analisi. Nel finale c’è una battuta assai importante del padrone del giornale, l’industriale che paga i fascisti: tutti al loro posto, polizia a reprimere, giudici a condannare, giornali a persuadere, solo gli operai non stanno al gioco, non producono. Qui era la chiave per una corretta impostazione del film. Le montature dei giornali, la repressione della polizia e della magistratura, le bombe e le manifestazioni di piazza fasciste sono tutti momenti particolari di un progetto complessivo che è il tentativo capitalistico di tornare a esercitare un comando politico sulla classe operaia, per la costrizione al lavoro. Non ha senso scegliere Milano, i cortei fascisti, le bombe, se non si mostrano anche i cortei operai che proprio a Milano, dopo il ’69, hanno giocato il ruolo decisivo di dura e cosciente avanguardia di classe. È chiaro che sono noti i limiti della formazione politica di Bellocchio, che proviene dall’Unione; stupisce invece che al film non abbia giovato la collaborazione alla sceneggiatura di Goffredo Fofi che pure è stato a contatto con esperienze nuove di organizzazione autonoma operaia.

Queste osservazioni non significano peraltro chiedere alla pellicola quello che essa non poteva dare. Il personaggio operaio c’era infatti, ed è Mario Boni. Ma appunto si tratta di un personaggio trattato in modo superficialissimo, con scarsi dati informativi. Il giovane rinfaccia a Maria Grazia di essersi tolta la voglia del proletario, e dunque Mario Boni dovrebbe essere un operaio, ma nulla è detto della sua condizione di lavoratore. Sennonché, proprio nella misura in cui non è rappresentata la classe operaia, i compagni della sinistra assumono fatalmente i caratteri degli studenti del Movimento studentesco, slegati dalla classe, velleitari e minoritari. La sinistra extraparlamentare è colta nelle sue scene di repertorio (funerali di Feltrinelli, primo maggio), nei suoi “slogans” («Compagno Feltrinelli, sarai vendicato», «Compagni carcerati sarete liberati»), ma questo è appunto il limite: anziché il discorso politico della sinistra, solo le sue parole d’ordine. Al di là di questo c’è la scena d’attacco al giornale, ma proprio perché manca il legame fra sinistra extraparlamentare e classe operaia, l’assalto al giornale finisce per diventare l’atto gratuito di una minoranza impotente, terrorismo che non ha alle spalle la classe, ma solo l’iniziativa di pochi militanti (ritratti per di più in uno stile ancora sessantottesco, trionfalista e gioioso, con le bandiere rosse al vento).

Insomma non una sinistra extraparlamentare come punto di riferimento, sia pure incerto, fragile, provvisorio, di una classe operaia all’attacco (nel senso in cui il rifiuto del lavoro, la stasi della produzione significa essere all’attacco), ma una sinistra extraparlamentare che rappresenta solo se stessa, e che alimenta e giustifica quindi il luogo comune del “doppio estremismo” (si vedano le scene d’apertura che accompagnano i titoli di testa: prima la manifestazione del comitato anticomunista; poi gli scontri fra compagni e polizia). E tuttavia se lo estremismo è doppio, in realtà chi gestisce tutto è l’estremismo di destra. Non è un caso che il film si apra sui fascisti del comitato anticomunista e si chiuda con Almirante a piazza Navona e la decisione del padrone filo-fascista del giornale di rimandare tutto a dopo le elezioni. È la pista nera, cioè la mota che avanza dell’ultima inquadratura, che utilizza (quando non provoca direttamente) l’estremismo di sinistra. Ma ciò significa sottolineare eccessivamente l’iniziativa dei fascisti, del capitale, dimenticando che la trama nera è soltanto la risposta alle lotte operaie.

Di qui ancora, infine, l’articolarsi del film tutto su personaggi interni alla borghesia, anche se in funzione critica, smascheratrice. Bellocchio è assai bravo nel cogliere i momenti più degradati di una borghesia nevrotica, malata, sia che assuma le vesti di un bidello sessualmente represso, maniaco, che quelle di una intellettuale che ha scoperto il ’68 e il movimento studentesco solo come modo di risolvere le sue crisi. I personaggi restano Bizanti, sua moglie e Roveda. La moglie ha una sola scena ma rilevante. È la normalità che non capisce e accetta. Ha la mentalità della “moglie di uno statale”, è il “lettore medio” del Giornale come le rinfaccia lo stesso marito. Bizanti è invece colui che capisce e che accetta. È il lucido realismo borghese che non teme di affermare che la lotta di classe non è solo quella operaia ma anche quella della borghesia che vuole mantenersi in sella. Ma fra i due livelli c’è in mezzo Roveda. Ingenuo, un po’ stupido, ma onesto, Roveda si chiarisce a poco a poco. E quando ha finito di capire, tira fuori i suoi “buoni sentimenti”, come ironizza Bizanti, e se se va. Roveda è un personaggio pericoloso. Nella misura in cui è assente il nesso fabbrica-società, e il film è tutto dentro un’ottica di sinistra borghese, c’è il grosso rischio che lo spettatore medio, piccolo borghese, finisca proprio per identificarsi con Roveda, e si illuda così che in fondo il sistema è sempre recuperabile, almeno finché ci saranno degli uomini che rifiuteranno di farsi trattare da “burattini”, anche a costo di pagare di persona, con il licenziamento. In pratica chi salva (o finirà per salvare, in prospettiva) Mario Boni è proprio lui, Roveda. La successione delle immagini è rivelatrice: confessione di Boni che viene cosi formalmente incriminato; titolo del giornale “Crolla l’alibi del Boni”; Roveda alla scuola che riprende le indagini fra i compagni di Maria Grazia e si reca quindi dal bidello. Quando tutto sembra perduto arriva l’eroe timido a rovesciare la situazione.

Nonostante queste riserve sulla figura di Roveda il lavoro di Bellocchio come opera indirizzata a un pubblico preciso, piccolo borghese e scarsamente politicizzato, ha una sua utilità. S’intende che è un film di movimento, in cui manca un punto di vista operaio; un film difensivistico, come è già implicito nella scelta dell’argomento, se è vero che «la tesi della manipolazione può anche servire a discolparsi. Accusare il nemico di mene diaboliche vuol dire nascondere la debolezza e la mancanza di prospettive della propria azione» (H. M. Enzensberger). E comunque, dopo la trilogia in gran parte autobiografica conclusa con il recente In nome del padre, quest’ultimo lavoro di Bellocchio ci porta finalmente in una dimensione tutta fuori, rovesciata sui dati oggettivi del reale, del presente. È l’inizio di un discorso nuovo, e come tale va salutato, al di là dei suoi limiti, che pure sono evidenti.

Roberto Alonge

Cinema Nuovo, novembre-dicembre 1972