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L’ora di religione | Recensioni

La notizia della prossima beatificazione della madre costringe un celebre pittore ateo a riconsiderare il senso della presenza o dell'assenza di Dio e il senso delle origini, la strisciante ipocrisia ecclesiale e la provenienza da una famiglia aspirante alla gloria.
Sergio Castellitto - L'ora di religione

Ernesto Picciafuoco, pittore e illustratore di favole per bambini, viene da una famiglia molto importante ma decaduta, che vuole riconquistare il proprio prestigio grazie a una canonizzazione. La donna che dovrà essere fatta santa è la madre defunta dei cinque fratelli, debole e stupida, definita “l’unica vera religiosa” della famiglia. Si dovrà dimostrare che è stata uccisa anni prima da Egidio, uno dei suoi figli, malato di mente e bestemmiatore. La canonizzazione è già in atto da tre anni. Ernesto è l’unico membro della famiglia a non esserne al corrente: i suoi fratelli e i parenti, tranne il figlio pazzo, colui che si vuole assassino, internato, si sono prodigati nel corso degli anni creando attorno alla donna una mitizzazione che Ernesto non condivide, né personalmente (ritiene la madre una donna stupida che ha rovinato la vita dei figli) né ideologicamente, in quanto ateo convinto.

Contattato da un cardinale che vuole interrogarlo in merito al processo di santificazione della madre, Ernesto inizia un surreale percorso che dura poco più di 24 ore, in cui cerca di star vicino a suo figlio piccolo, recandosi alla sua scuola dove conosce una giovane e affascinante “insegnante di religione”, dalla quale è attratto, ma che si rivelerà una simulatrice.

Ha una discussione con il cardinale, incaricato di approfondire le circostanze del “martirio”, il quale gli chiede conto del mancato battesimo del figlio, dimostrando di essersi ben informato sul suo conto, e che cerca di sapere come mai Ernesto avrebbe “perso la fede”. Ha un colloquio con una sua zia, che non ha mai dimostrato molta fede, ma che ora, attratta dal possibile guadagno economico e dalla notorietà che la famiglia ricaverebbe dalla santificazione, tenta per mero opportunismo di riportare anche il nipote sulla “retta via”. Ernesto è poi sfidato a duello, per futili motivi, da un nobile che sogna un’improbabile restaurazione della monarchia, ma il duello è interrotto dopo pochi istanti. Intanto la moglie di Ernesto somministra una sorta di battesimo al figlio dormiente, ansiosa di riparare alla precedente “mancanza”.

Il giorno successivo, Ernesto ritrova la sedicente insegnante di religione nel suo studio, e, dopo averla rincorsa, riesce a raggiungerla e a far l’amore con lei.

Accortosi di quanto l’ipocrisia sia dominante nella sua famiglia, arrivando perfino ad ipotizzare che il “miracolato” (un amico di famiglia improvvisamente guarito invocando la santa) sia stato pagato dai fratelli per aver il benestare della Curia, Ernesto non si reca all’udienza per la canonizzazione, a cui partecipa invece l’intera famiglia, e coerente con le sue idee, accompagna il figlio a scuola.

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Corriere della Sera (27/4/2002)
Tullio Kezich

C’è perfino chi ha tirato fuori i fulmini della Conferenza Episcopale Italiana per spiegare la modesta affluenza di pubblico a L’ora di religione. Ma i conti, in materia di incassi, si fanno coi fanti lasciando stare i santi; e i «fanti» nostrani dall’orecchio dell’impegno non ci sentono. Non si va al cinema come si va a teatro, a vedere una mostra, a un concerto: la precettazione culturale, anche sostenuta come in questo caso da una critica alle stelle, non provoca grandi risposte. Spiace ovviamente che gli italiani non siano disposti a un modesto sacrificio di tempo e denaro per supportare il cinema migliore, ma questo è lo stato delle cose. Del resto l’insuccesso economico non vieta l’ingresso nella storia: altrimenti di fiaschi colossali al botteghino come La terra trema, Umberto D. o Nostra signora dei turchi non resterebbe più traccia. Sperando vivamente che in questo secondo fine settimana il film di Marco Bellocchio migliori la sua 12ª posizione in classifica è legittimo chiedersi: c’è qualcosa da rimproverare all’autore per un risultato che potrebbe in ultima analisi apparire deludente? La risposta è complessa, tanto più che in questo campo si rischiano i fraintendimenti. Diciamo allora che il problema va al di là dell’opera di un singolo cineasta immerso nella propria visione e nobilmente estraneo ai destini finanziari dell’impresa. Ma bisogna pur riconoscere che uno dei limiti del cinema italiano attuale è di non preoccuparsi di chi il film dovrebbe andar e a vederlo; ovvero di non tentare di coniugare la ricerca della qualità con lo sforzo di attirare il più vasto pubblico possibile. Questo problema i nostri autori non se lo pongono, timorosi che ogni riflessione riguardante il mercato si trasformi in qualche forma di inquinamento dell’ispirazione. Per tale motivo non è pensabile che da noi nasca uno Spielberg ovvero un cineasta capace di tenere un occhio sulla qualità e l’altro sulla comunicabilità. Insomma è probabile che un ipotetico L’ora di religione meno incline a quelle che David Rooney su «Variety» definisce «frequenti deviazioni dalla sobrietà del dramma verso aree più bizzarre e perplesse» non avrebbe perso granché e avrebbe incassato il doppio.

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Il Giorno (26/4/2002)
Silvio Danese

Il sottotitolo è “Il sorriso di mia madre”. Richiamando l’espressione eterna e irraggiungibile della Gioconda, un volto scontornato in un immenso manifesto è l’enigma di un film profondo e lieve, nel quale la notizia della prossima beatificazione della madre costringe un celebre pittore ateo a riconsiderare il senso della presenza o dell’assenza di Dio e il senso delle origini, la strisciante ipocrisia ecclesiale e la provenienza da una famiglia aspirante alla gloria, nella quale un figlio (chiuso in casa di cura) ha già assegnato a quella madre, nell’inversione dell’assassinio edipico, il massimo sacrificio. Sono due gli oracoli: il piccolo Leonardo che, con le domande sull’ubiquità di Dio, risponde in realtà al sospetto religioso del pittore; e la falsa, bellissima insegnante di religione che, col ruolo di un angelo laico, chiude la passeggiata sacra del pittore in un abbraccio d’amore liberatorio. L’estetica è un’etica: tenete d’occhio il conte duellante e le critiche all’oscenità del Vittoriano, punti di fuga del film. Cast Ottimo. Film pensante.

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Film TV (20/4/2002)
Manuela Martini

Un uomo maturo, un pittore che vive nel centro di Roma, un giorno scopre che tutta la sua famiglia, ex moglie compresa, ha organizzato a sua insaputa il processo di beatificazione di sua madre. Perplesso, Ernesto si aggira nei meandri di un parentado e di conoscenze che all’improvviso riscopre papaline e conformiste, costretto suo malgrado a riaprire i conti con un passato che, nel suo convinto e quieto ateismo, pensava di aver superato. Riscopre sul suo volto, ogni tanto, quel sorriso aleggiante che tutti, urtati, gli rimproverano e che lui riconosce come eredità sgradita, vagamente indifferente e sacrificale, di quella madre che non ha mai condiviso. E percorre, tra un amore nuovo al quale non si sottrae e un gesto di quotidiana attenzione verso il suo bambino, un cammino kafkiano che lo riconferma nella coerenza della sua vita: un po’ ai margini dell’inquadratura, senza mai apparire in televisione, senza padri e padrini che facciano di lui qualcuno, senza madri. Con L’ora di religione Marco Bellocchio firma non solo il suo film più denso e rigoroso degli ultimi anni, ma anche una limpida dichiarazione d’intenti morale. Come essere e come il mondo intorno a noi (anche le persone più care) vorrebbe che fossimo; e il bisogno incessante di scrollarsi di dosso le tentazioni dell’acquiescenza e del buon senso, di ripercorrere la propria storia fino all’ultima contraddizione, fino all’ultimo dolore. Per riuscire a darle un senso, che può essere quello semplicissimo di accompagnare il proprio bambino a scuola e magari di riuscire così a condurlo in un posto dove Dio non ci sia e lui possa finalmente essere libero di stare solo. Con Ernesto, ci aggiriamo tra il paradosso e l’incredulità, avviluppati in un’atmosfera che passa senza soluzione di continuità dalle volute opprimenti di un incubo vaticano (la festa con i suoi ralenti, l’improvvisa apparizione e i discorsi deliranti dei nobili neri, il surreale duello all’alba) alla straordinaria pulizia d’immagine della vita di tutti i giorni, delle strade romane riprese attraverso i finestrini di un’auto, della scuola elementare, del giardino illuminato nel quale il bambino cerca di nascondersi da Dio. Bellocchio ci dimostra ancora una volta che lo stile non è un accessorio discrezionale, ma è il film, con le sue inquietudini e le sue illuminazioni, con la strada, precisa, che deve percorrere. Ci sono momenti in L’ora di religione in cui, come il suo protagonista, ci perdiamo; c’è un’inquadratura, che ritorna più volte, puntuale, con un guizzo di ironia e forse di orrore sotterranei, a farci ritrovare la strada (quella della famiglia schierata, e poi in marcia verso l’udienza papale – e non andremo, come il protagonista, in quella direzione); c’è, infine, un attimo di straziata commozione, in cui tutti i conti di una vita tornano, in cui si toccano con mano il dolore, lo spreco, il sacrificio, la disperazione. C’è un povero matto in un manicomio che urla bestemmiando la sua tragedia, che ci ributta a capofitto nei gesti e nei singulti di Alessandro nei Pugni in tasca, 37 anni fa, una vita fa, un mondo fa. La pace non è con noi; ma a quel povero matto e al suo urlo disperato qualcosa dobbiamo. Non fosse altro che un pochino di rigore.

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La Stampa (20/4/2002)
Lietta Tornabuoni

Nel film molto importante e bello di Marco Bellocchio ci sono basiliche, San Pietro come un edificio di zucchero biancazzurro, preghiere, bestemmie, preti e un cardinal Piumini, memorie d’una educazione cattolica, un processo di beatificazione, la fede scolasticamente elementare nel titolo L’ora di religione. Ma forse la Chiesa non c’è. Forse la Chiesa cattolica è soltanto l’espressione, il simbolo del Grande Riflusso, del ritorno italiano al conformismo cinico, dei buoni sentimenti usati ipocritamente per il peggio, della rinascita di culti, personaggi e devozioni insopportabili; forse è l’emblema d’un regresso sociopolitico soffocante, angusto, della resurrezione d’autorità e santificazione di genitori punitivi che parevano esser stati eliminati dalla ribellione filiale. E allora il film sarebbe un’immagine d’Italia 2002 ancora mai vista, straordinaria. Un illustratore di libri per bambini, separato dalla moglie, deve decidere se far frequentare oppure no dall’amatissimo figlio ragazzino le lezioni di religione a scuola: se lasciarlo educare come un cattolico oppure come un ateo quale lui è, se imitare gli altri per comoda inerzia oppure opporsi con fatica e magari con dispiacere del figlio. Improvvisamente, viene a sapere che va avanti da tre anni a sua insaputa un processo di beatificazione, di santificazione di sua madre, donna arida e oppressiva che è stata uccisa da uno dei figli, malato di mente esasperato dalle esortazioni ossessive di lei («Non bestemmiare»). Per necessità di testimonianza da rendere e presenza da assicurare, per l’enorme pressione dei parenti, dei preti e del gruppo circostante, per nostalgia vigliacca, per desiderio di appartenenza, il protagonista si sente richiamare, risucchiare dall’odiato passato. Se prevarrà la forza del pensiero unico o la esplosiva coerenza alle idee proprie, è il conflitto magnificamente analizzato nel film ai due livelli, sociale e profondo. Sergio Castellitto è un grande protagonista. Lo stile del regista gli fa attraversare dilemmi ed eventi molto concretamente ma come in una confusione che allude al presente, come in un sogno oscuro accentuato dagli ambienti sovraccarichi e datati, dal buio liberty delle case romane borghesi (scenografie perfette di Marco Dentici, fotografia ammirevole di Pasquale Mari); il suo smarrimento impaziente, esasperato eppure cedevole, definisce il personaggio alla maniera di ogni uomo contemporaneo nemico del mondo in cui vive; la sua bravura ce lo fa sentire simile, amico, fratello.

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la Repubblica (20/4/2002)
Roberto Nepoti

Dice molto bene Marco Bellocchio quando spiega che il suo nuovo film, L’ora di religione, nasce da un’immagine: la visita di un sacerdote all’ignaro pittore Ernesto Picciafuoco, per annunciargli che è in corso il processo di beatificazione di sua madre. L’immagine è talmente nitida e spiazzante che da essa il film “nasce” anche per lo spettatore, facendolo entrare in un suspenser metafisico, una specie di giallo diverso da tutti i gialli. Nonché dal Bellocchio che conoscevamo: perché questa volta il regista immerge temi da sempre appartenenti al suo immaginario (la famiglia, l’ipocrisia che impregna i rapporti sociali) in un insolito bagno d’ironia nervosa, sospesa, che è la cifra di un film straordinariamente riuscito. Sorpreso dalla notizia, e ancor più dall’apprendere che la congiura tra i preti e i suoi famigliari dura da tre anni, il pittore scivola in una crisi depressiva. Se non ha mai amato se stesso, è perché ha il sorriso identico a quello della madre, la “beata”, morta per mano di un altro figlio: in realtà l’ambiguo sorriso da Gioconda di una donna insensibile, anaffettiva, cui Ernesto teme di somigliare. Intorno all’uomo in crisi, perno della storia, si muovono due universi concentrici: la sua famiglia e l’ambiente delle gerarchie vaticane, tra cardinali e nobiltà nera capace – ancora – di sfidarti a duello. Bellocchio rappresenta il secondo come un mondo d’ombre, popolato di zombi paludati e grotteschi, che non spiacerebbe affatto a Fellini; anzi, che in fondo non fa nulla per celare la propria discendenza iconografica dalle “sfilate” ecclesiastiche di Federico il Grande. Benché laico fin nelle midolla, ateo dichiarato, il pittore rischia di lasciarsi avvolgere da quel clima insinuante, limaccioso e mellifluo, capace di neutralizzare qualsiasi voce dissidente in un bigottismo di maniera sotto cui si celano cinismo e culto dei propri interessi (vedi il geniale personaggio di zia Maria, affidato a Piera Degli Esposti). Nella dimensione in cui Ernesto si ritrova a vagare anche gli angeli, come la bella insegnante di religione di suo figlio, che ha appena conosciuto e di cui si è innamorato, potrebbero essere agenti dell’Opus Dei; ma è proprio qui che l’uomo dovrà compiere una scelta radicale, mettendo in gioco la propria identità. Oltre al valore intrinseco del film, è bello vedere che Bellocchio non ha aperto i pugni che teneva stretti in tasca poco meno di quarant’anni fa. L’ora di religione è un film disposto a prendere posizione come pochi, risoluto, lontano le mille leghe sia dai compromessi ideologici, sia da quelli estetici. Quando, tra un mese, rappresenterà il nostro cinema al festival di Cannes, avremo qualcosa di cui andare fieri.

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il Giornale Nuovo (20/4/2002)
Maurizio Cabona

Bentornato, Bellocchio. L’ora di religione – la sua bella requisitoria – ci restituisce un autore che, arenatosi nella psicoanalisi, ora si ritrova nel filone originario de I pugni in tasca (1965) e di Nel nome del padre (1972). Era stata, quella, una bella stagione del cinema italiano. Come La moglie del prete di Dino Risi (197o) e L’udienza di Marco Ferreri (1971), quei film insorgevano contro famiglia e religione non come tali, ma come gusci vuoti. La rivolta coincideva con gli anni della contestazione e della legge sul divorzio, ma la matrice era più antica, più anarchica: i film di Luis Buñuel avevano già suggerito che la via di Cristo è talora intralciata dal clero. Se l’incombente Amen di Costa-Gavras è un oltraggio storico-politico, L’ora di religione di Bellocchio è un’invettiva alta e radicale, dura e definita. La bestemmia che include ha già fatto tanto scrivere sui giornali, ma ha un intento più catartico che blasfemo, è più anticlericale che antireligioso. Il mercimonio della santità, non la santità, è nel mirino, evocato dalle procedure di santificazione, che sotto Giovanni Paolo II si sono moltiplicate. A ogni santo corrisponde infatti il suo sfruttamento economico, più a-cristiano del furore bellocchiano. Strano che proprio un regista voglia cacciare i mercanti dal tempio? A Hollywood si diceva: «È un lavoro sporco, ma qualcuno deve pur farlo». E Buñuel, che a Hollywood s’è fermato poco, scherzava: «Grazie a Dio, sono ateo». Però pochi hanno preso la religione cattolica sul serio quanto lui. L’ateo Bellocchio (idem l’ateo Nanni Moretti) esige serietà dai credenti e del resto il suo vetriolo finisce meno sulle tonache dei cardinali che sulle giacche dei conformisti. Neanche Georges Bernanos si sarebbe indignato dell’ora di religione, anche se il piglio di Bellocchio non è quello di Bresson. Per indignarsi, occorre sofferenza. Uomo della sua generazione (1939), Bellocchio si scaglia ancora contro istituzioni ormai consunte e residualmente autoritarie. Solo marginalmente tira contro quelle totalitarie, affermatesi dopo la sua maturità. Ma le battute della sorella (Piera degli Esposti) del personaggi principale (Sergio Castellitto) dimostrano il valore di Bellocchio anche come sceneggiatore. Costei si chiede con coerenza mediatica: a che serve avere una santa in famiglia, nella figura della propria madre, se il mondo non lo sa? Ma l’ateo Castellitto non ci sta. Dubita che la madre fosse santa; che il matricidio compiuto da un fratello squilibrato basti a farne una martire; che i fratelli e gli amici si siano convertiti. Non ha la fede, ma la considera una cosa seria. Non disprezza chi l’ha, ma chi l’ha solo quando rende. È questa la miglior lezione che si possa dare in un’ora di religione.

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Drammaturgia.it
di Sandro Bernardi

L’ora dell’incertezza

Ernesto Picciafuoco (i nomi dei protagonisti bellocchiani sono spesso metaforici, dall’arrogante Transeunti di Nel nome del Padre, al violento capitano Asciutto di Marcia trionfale, all’evanescente Giovanni Pallidissimi di Gli occhi, la bocca) è un non più giovane pittore, un “pittore famoso che nessuno conosce” come dice uno strano editore suo amico, ubriaco, durante una festa.

È un ateo, che crede nella sincerità delle intenzioni e nella coerenza del comportamento, che vive solitario, separato dalla moglie, una donna introvabile per la sua straordinaria banalità. È di antica famiglia, ma si tratta di una famiglia un po’ scardinata, simile a quella de I pugni in tasca, di cui questo film potrebbe essere una prosecuzione fantastica dopo un salto di quasi quarant’anni; una famiglia in cui uno dei figli, Egidio, folle di rabbia e ora chiuso in una clinica, ha ucciso la madre che gli proibiva di bestemmiare. Una sera, mentre si accinge a passare dall’ex moglie per dare la buonanotte al figlioletto, Ernesto viene convocato in Vaticano per un colloquio e apprende dall’usciere che è in corso un processo di beatificazione della madre.

Stupefatto, confuso, scopre che tutta la famiglia ne è al corrente, anzi è stata la famiglia stessa, fratelli e zie, a promuovere questo tentativo, per rilanciare la fama completamente sbiadita del loro nome, forse un tempo più famoso. Il tutto con la complicità di una diabolica zia, cinica, maligna e ignorante, una specie di incarnazione del diavolo, ma un diavolo privo della sua tradizionale sottigliezza (“Non sei nessuno, non sei mai comparso neppure in televisione”), magnifica interpretazione di Piera Degli Esposti. La figura della madre beatificanda sventola al vento disegnata su un immenso lenzuolo bianco davanti alla finestra. In una sala un fotografo e una ragazza provano le pose per i santini, in cui la giovane donna viene trafitta con un grosso pugnale dal figlio e sorride estatica (“Sorridi… da santa”) sotto i colpi di un figlio maldestro, mentre l’arma le penetra in seno, fra sbavature di sangue finto.

Durante una festa, in una sequenza che sta fra il mitico e l’onirico, Ernesto incontra un arcaico gentiluomo fuori dal suo tempo, che predica un ritorno a una monarchia assoluta, laica, ostile alla Chiesa (“Non mi fido neppure dei mazziniani”). L’uomo, scorgendo sul volto di Ernesto una specie di vago sorriso, lo sfida a duello. Gli ascoltatori che erano disposti in fila in modo esoterico, se ne vanno deprecando il gesto di Ernesto, e fra questi lo stesso Bellocchio interviene sinistramente di spalle a biasimarlo: “Ha fatto male a fare lo spiritoso… a provocare il conte Bulla” (altro nome metaforico, anzi quasi onomatopeico, che sembra alludere a grandezze o a ironie beffarde, incomprensibili). Dopo che il conte se ne è andato irritato, tutti scappano improvvisamente da quella casa, afferrando i cappotti, come topi da una barca che affonda, ed Ernesto, ma soprattutto lo spettatore, prova il panico, il senso di colpa e di solitudine di chi ha offeso l’ombra irosa del padre.

Ma le avventure di Ernesto in questo mondo che è tanto più fantasmatico quanto più è reale e quotidiano, anzi è tanto più strano o oscuro quanto è semplice e comune, queste sue avventure nel regno dell’insignificante non finiscono qui. Andato a scuola per un colloquio con l’insegnante di religione del figlio, incontra un’altra apparizione diabolica nella sua semplicità: è una bella ragazza, che subito lo guarda con l’occhio disponibile della preda già conquistata e sedotta. Lei gli recita una poesia russa e gli chiede un appuntamento per fargli vedere i suoi quadri; ma entrambi pensano subito ad altro. L’incontro viene interrotto dall’ottuso angelo-guida vaticano che viene a prelevare Ernesto per condurlo in Vaticano. Dopo un breve sonno metaforico, che ricorda il sonno di Dante all’arrivo nella città di Dite (una soglia simbolica, Inferno, Canto VIII), Ernesto viene introdotto dal cardinale, che lo riceve in mezzo a una mensa di poveri (“Sediamoci qui fra i nostri fratelli, poveri fra i poveri”, gli dice il prelato, con un’aria che è tanto banalmente devota quanto oscuramente sinistra). Ernesto, ritornato a casa, trova i disegni della giovane ma li sfoglia disattento.

Altre cose accadono nel suo percorso, un viaggio iniziatico che non conduce però a nessun sapere. Ernesto incontrerà altre apparizioni sinistre nella loro banalità ortodossa e istituzionale, come il miracolato dal nome dantesco di Filippo Argenti (Inferno, sempre Canto VIII) o il fratello in preda allo sconforto di ex-brigatista pentito che non ha più ragioni di esistenza, o un architetto impazzito per non aver avuto il coraggio di fare saltare l’orrendo monumento al milite ignoto, e ancora le zie, autentico patrimonio della famiglia Bellocchio. In un momento di assopimento sognerà che una figura di nota marca freudiana, Gradiva, di cui ha in casa una grande riproduzione in scala uno a uno, cammina sopra le rovine del monumento incriminato, che diventa il simbolo della bruttezza e di tutto il grottesco che è nel mondo. Le immagini di Gradiva, che compaiono su un computer che sembra visualizzare i sogni di Ernesto, si mescolano con il passo delicato della giovane seduttrice, altrettanto misteriosa, che ricompare dentro casa e si lascia rincorrere solo quel tanto che basta, per dargli il piacere di afferrarla. Dopo una notte d’amore con la sconosciuta, che ha lo sguardo e il passo della donna scolpita, Ernesto andrà a portare suo figlio a scuola, mentre tutto il resto della famiglia, brigatista compreso, si reca in visita dal Santo Padre. Ma la luce del mattino non ha dissipato nessun fantasma.

Girata tutto in una penombra equivoca – che è sempre stata la più felice delle luci bellocchiane, la luce dei fantasmi, come sono in effetti tutti questi personaggi, che stanno fra lo stereotipo e il tremendo, anzi sono tremendi proprio in quanto stereotipi – questa storia è come un viaggio agl’inferi della normalità istituzionale, una poco divina commedia del quotidiano, che si svolge in due sole notti, ma due notti mitiche, eterne, quasi senza fine e senza inizio, e ha momenti veramente inquietanti, in cui l’orrore sta nel banale e il banale nell’orrore. Non c’è niente che possa apparire strano eppure tutto è strano, niente sembra innaturale eppure tutto è innaturale; non c’è nessuna apparizione eppure tutto sembra appartenere a questo regime delle ombre che si allungano come i suoni desueti della canzone armena che Ernesto sente alla festa. Così, quando all’alba il duello con il fantasma paterno viene interrotto, perché il conte, ferocemente irritato, si accorge che Ernesto non sa neppure usare il fioretto, ci viene da pensare che la creatura più strana sia proprio lui, Ernesto, apparentemente così serio e morale, ma poi così banale nella sua protesta moralista, nei suoi amori, nel suo rapporto idilliaco con il figlio. Forse, Ernesto è caduto nella tentazione volontariamente.

I santi non esistono, neppure quelli laici e la seduttrice diabolica, Gradiva o Diana Sereni, ha vinto la sua misteriosa partita. Il diavolo è ben presente alla luce del giorno ed è migliore dei preti. Questa la morale del film, forse un po’ troppo dimostrativo nei dialoghi, ma carico nelle immagini di una tensione innaturale e di una luce oscura.

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